;N. 9 pag. 20 Rivincita retorica di Giovanni Bottiroli Paolo Valesio, Ascoltare il silen- zio, Il Mulino, Bologna 1986, ed. orig. 1980, trad. dall'inglese di As- sunta Pelli, pp. 508, Lit. 44.000. Che il nome "retorica" non debba indicare uno spazio facoltativo, fri- volo, e teoreticamente ambiguo, uno spazio comunque marginale per il fi- losofo e per il linguista, è ormai un'acquisizione irreversibile. Perel- man, Black, Ricoeur, Lotman hanno inferro duri colpi alla muraglia del pregiudizio costruita in epoche pre- cedenti, in particolare dal romantici- smo. Perelman ha restituito piena di- gnità all'argomentazione, Black e Ri- coeur hanno riscoperto il valore co- gnitivo (contro la funzione ornamen- tale) della metafora, Lotman ha sot- tolineato — e decolpevolizzato — il carattere approssimativo e impreciso dei fenomeni di comunicazione: nei discorsi umani la trasparenza è un risultato raro, non originario, e co- struito artificialmente. Questi studiosi hanno ridato al "continente retorica" un fascino che oltrepassa di gran lunga i tradizionali effetti di cosmesi. Nata come teoria della persuasione e delle apparenze, e perciò smascherata con disonore dal- la filosofia, la retorica si prende oggi la sua rivincita. Se un tempo era una disciplina mercenaria, indifferente alla Verità, oggi esige di venire ascol- tata intorno al problema del vero e del falso. Se per troppo tempo è stata considerata una tecnica secondaria, esteriore, come un insieme di "abbel- limenti" piacevoli ma anche super- flui, ora ci si accorge che "la retorica è tutta la lingua, nella sua realizzazio- ne come discorso" (Valesio, 22). In- somma, la retorica è attualmente una sfida per la filosofia come per la lin- guistica. Alla filosofia (termine che andrebbe forse scritto con la maiu- scola) essa oppone la propria vocazio- ne relativista e scettica, la sua atten- zione ai contesti, ai particolari scarta- ti dalle generalizzazioni astratte e dogmatiche. Alla linguistica essa rim- provera di muoversi solo sui terreni della Norma e della Trasparenza: i linguisti s'interessano al significato in quanto è esprimibile, dicibile. Co- me vedremo, uno dei propositi di Valesio è di giustificare una retorica dell'indicibile, del silenzio. Si tratta dunque di battersi contro due avver- sari: ma la strategia per affrontarli dovrà essere unificata, nel senso di rimettere in discussione la tranquilla barriera che separa gli interessi (ri- spettivamente "scientifici" e "specu- lativi") delle due discipline. Valesio si dichiara a favore di una "filosofia post-filosofica" (225) che sia al tempo stesso un modo per leg- gere e interpretare i testi (specialmen- te quelli letterari): la retorica come teoria vuole raggiungere questo obiettivo, la cui possibilità sta pro- prio nello strettissimo intreccio di riflessione teorica e analisi empiri- che. E uno dei tanti "dualismi" pro- posti, non accidentalmente, da que- st'opera ambiziosa, ricchissima di sti- moli, che difficilmente potrà essere ignorata da chi voglia addentrarsi in quest'area di problemi. Fra le tesi che più la caratterizzano, scegliamo di enuclearne due: sono quelle che sembrano dotate di mag- gior valore strutturale nei riguardi dell'edificio cui appartengono, e che nello stesso tempo ne possono rivela- re i limiti. Parleremo anzi di topoi e non di tesi, per comprendere l'impo- stazione di Valesio attraverso i suoi stessi termini. Il primo topos riguarda l'intrascen- dibilità del linguaggio: esso afferma che non è possibile tracciare una net- ta linea di separazione fra le parole e le cose; che si può esprimere la realtà solo mediante selezione e stilizzazio- ne; insomma, che il discorso non suprema — "quella che meglio espri- me la natura dialettica dei sistemi re- torici" (154) —, il rapporto fra gli opposti non è di feroce duello o di esclusione, ma di paradossale coinci- denza. Ognuno di essi si rispecchia e s'illumina nell'altro: l'aforisma di Eraclito. "Vita è il nome dell'arco, ma la sua opera è la morte", con l'am- biguità di Bios (vita) e di Bios (arco), è oggetto di una lunga analisi, che ha un sicuro valore emblematico per la ricerca di Valesio. Un altro esempio: analizzando una novella di Pirandello, imperniata sul motivo del filo d'erba, si riscontra la confluenza di due archetipi, della ca- ducità e della germinazione perenne (414). C'è una retorica del cadu che L'Intervista H silenzio è sacro Paolo Valesio risponde a Remo Ceserani Puoi fare un po' la storia di Ascoltare il silenzio, raccontando come è nato e, nell'edi- zione italiana, è in qualche modo "rinato"? Il libro è uscito nel 1980 in inglese, con il titolo Novantiqua. Rhetorics as a Contempo- rary Theory. Per me allora lo studio della reto- rica era un modo di dar ordine alle mie ricer- che di tipo linguistico. Negli anni seguenti, che ho passato a Yale, i miei interessi si sono venuti precisando in senso letterario e filoso- fico. Nel nuovo libro — veramente nuovo, perché tradotto con molti rimaneggiamenti e con un intero nuovo capitolo — la retorica è diventata una categoria più vasta, filosofica e letteraria. Quindi c'è una peculiarità della tua espe- rienza, rispetto al fenomeno, ampio e variato, del generale ritorno alla retorica? Ho cercato di mettere in questione la soli- dità della tradizione, di dimostrare come di retoriche ce ne siano tante, come la retorica di Aristotele sia un compromesso geniale che però mostra le tracce della sua natura di com- promesso, rispetto al momento veramente fondatore e allo stesso tempo sovversivo, rap- presentato dai sofisti. In questa linea di lavoro ho trovato ispira- zione nella "scuola di Yale", anche se non è una scuola in senso monolitico e io con essa non mi identifico strettamente. Diciamo che a Yale, a un certo punto — ed è un punto ormai passato, perché una certa congiunzione di personalità non esiste più — la retorica è diventata un modo di problematizzare la let- tura del testo letterario. Io aderisco a questa problematizzazione, anche se poi ognuno si prende le sue responsabilità di lettura. Fra i significati più o meno eterodossi e comunque liberi che il concetto di retorica ha avuto a Yale, la mia simpatia va al modo peculiare in cui lo usa Harold Bloom, che lo unisce a temi ideologici vasti e a un senso personale, certa- mente forte, della storia. Dietro a esperienze come quella di Bloom, c'è una rilettura di tutto l'arco della letteratura che va dal romanticismo alla modernità, c'è il problema del "canone". Come insegnante di let- teratura italiana, sei stato toccato da questo pro- blema? Negli Stati Uniti Titalianistica ha tradizio- ni illustri, ma non ha né la grande storia né le remore della tradizione italiana. Mi sono tro- vato di fronte a un giardino completamente aperto e questo mi ha stimolato. Per me rive- dere il canone non significa tanto abbassare i grandi del passato quanto cercare un allarga- mento, attuare una critica costruttiva. Due i momenti, soprattutto: il Rinascimento, dove ho lavorato sulla poesia maccaronica; e la fin di secolo, intesa in senso lato, dal 1880 al primo dopoguerra, in cui mi sembra che nella letteratura italiana ci sia una presenza di forti scrittori, che spesso sono stati oggetto di criti- che riduttive. Il caso su cui ho lavorato di più è d'Annunzio, ma c'é anche tutta la letteratu- ra dalla Scapigliatura fino a Bontempelli e alla Serao. Ultimamente c'è stata anche una ripre- sa di Dante: la provocazione è venuta da un Gianni Grana NOVECENTO LE AVANGUARDIE LETTERARIE Cultura e politica, scienza e arte, dalla Scapigliatura alla Neo-avanguardia attraverso il Fascismo Tre volumi rilegati di 2660 pagine con 100 illustrazioni a colori e in bianco e nero fuori testo La "sincronia storica" dell'avanguardia nella cultura dell'"uomo moderno": le "rivoluzioni" contemporanee delle scienze e delle arti nelle crisi e frane di un secolo aperto al "futuro". MARZO RATI EDITORE "tocca" mai la realtà, se non tramite il filtro dei topoi o luoghi comuni. Ciò implica che nessun discorso pos- sa presentarsi come del tutto nuovo: esso è sempre la ripresa (e la scelta) di certi "luoghi" o immagini preesisten- ti nella tradizione, e solo il riferimen- to alla tradizione può davvero ren- derlo comprensibile, illuminando la sua parte oscura. Il secondo topos è quello della reci- procità paradossale: qui si rivaluta un termine oggi carico di connotazioni spregiative, e cioè la dialettica, che peraltro viene assunta eminentemen- te in senso junghiano. L'importanza di questa seconda tesi è fuor di dub- bio: Valesio afferma che la retorica è la dialettica (114), e che l'intero cam- po del linguaggio è dialettico (174). Ma non si cada nell'equivoco di ri- chiamare la dialettica hegelo-marxia- na (o ciò che l'opinione comune in- tende per essa): Valesio pensa a una dialettica senza sintesi (153), egual- mente lontana daW'autaut kierkegar- diano e dal "superamento" hegeliano. Benché l'antitesi sia la sua figura sottolinea la brevità di ogni ciclo di vita: dal Salmo 103 ("Come l'erba sono i giorni dell'uomo, come il fiore del campo esso fiorisce») a Dante ("Come poco verde in su la cime du- ra", Purg., XI, 92), ad altri autori. E c'è una retorica della viriditas, per cui il filo d'erba è immagine della natura che fa germogliare cose nuove e verdi traendole dalla putrefazione della materia (410-11). Il filo d'erba vale dunque come emblema di una cresci- ta silenziosa, auspicata nei Vangeli, ripresa da Savonarola (che identifica l'erba stessa con Gesù), da Melville, da Pirandello, ecc. Individuare un topos o un archetipo (i termini sono strettamente impa- rentati, 335) significa allora riscopri- re la persistenza del già-detto, il pre- mere della tradizione in ogni discor- so nuovo. Ma, si badi, Valesio non intende riproporre un nomadismo intertestuale oggi sin troppo diffuso, un uso "selvaggio" delle fonti, un ci- tazionalismo disordinato e arbitra- rio. Propugna invece un metodo ge- nealogico che operi con rigore nel recupero del già-detto: il suo filo con- duttore è la nozione junghiana di coincidentia oppositorum. Vale a dire che, data un'immagine, si dovrà sa- perla scindere nei due aspetti che la compongono, uno dei quali ad un primo sguardo può risultare celato e indivisibile. Si consideri la statua del- ì'Arringatore (un bronzo etrusco del- la fine del secondo secolo), che Vale- sio mostra come emblema sia della retorica "piena", eloquente, sia della retorica "silenziaria". Da sempre è stata la prima ad attrarre l'attenzione degli studiosi. Così, osservando la statua dell'A rringatore si è immedia- tamente colpiti dal gesto con cui egli chiede attenzione: il suo braccio de- stro è alzato, disteso, imperioso. Ma, obietta Valesio, "la retorica è anche fatta di parole mozze e di discorsi assai poco articolati" (306). La retori- ca non è solo oratoria, arte del dire, espressione del dicibile. A simboleg- giare questo lato oscuro, silenziario, della retorica, è il braccio sinistro del- la statua: abbassato, lievemente ap- poggiato sull'anca, con la mano semi- chiusa. Tutto in esso richiama alla discrezione, al raccoglimento, al si- lenzio (311). Siamo così giunti all'ultimo, al più importante, dei paradossi: l'identità di dire e non dire, l'omaggio che la parola deve rendere al silenzio. Lungi dall'essere secondario, funzionale al- la comunicazione (si pensi alla neces- sità delle pause, della punteggiatura, in ogni discorso articolato), il silen- zio è originario e inesauribile. La sua ontologia, il suo più radicale modo d'essere, non si esprime però in una tautologica impossibilità di parola; piuttosto, il silenzio chiede di essere ascoltato. Dopo i monologhi (o il dialogo) della retorica piena, dopo questi usi aggressivi della parola, emerge il valore etico di un appello silenzioso. Non si fraintenda: l'ascolto non è un atteggiamento passivo, quanto piuttosto una iper-audizione (421), il desiderio di allargare gli spazi in cui un testo fa risuonare la propria eco. E se tutto ciò può apparire mistico — ma per questo termine Valesio ha molto rispetto —, si tratta di un mi- sticismo depositato e stratificato nel linguaggio, nelle sue opacità più du- revoli, nella sua semiosi imperfetta e assopita. Mistico è il critico lettera- rio, nell'atto di ristrutturare gli spazi intorno al testo e di rivoltarne i mar- gini (401). È impossibile, in una breve recen- sione, aprire un vero dibattito su que- sto libro. Ma una valutazione com- plessiva potrebbe esprimersi per il tramite ai un rimpianto: il lettore, inizialmente abbagliato dalla splendi- da analisi di una scena del King Lear dove si evidenziano le strategie di- scorsive di Cordelia e delle sorelle-ri- vali, non prova lo stesso entusiasmo per le scorribande genealogiche ispi- rate a Eraclito o a Pirandello. Si ha allora l'impressione che il cammino di Valesio abbia unificato solo prov- visoriamente due sentieri destinati a dividersi (o a capovolgere la loro ge- rarchia): quello delle strategie retori- che e quello della genealogia archeti- pica. O, forse, che egli abbia incoro- nato il nomadismo junghiano a scapi- to delle sottovalutate strategie retori- che: Cordelia, ancora una volta, sa- rebbe rimasta inascoltata. Se è così, il libro di Valesio non è propriamente una teoria della retorica: ma rappre- senta un contributo, notevolissimo, a una morfologia dell'antitesi.