n 9 [INDICE pas43/111 ■■dei libri del meseHB Jurek Becker (n. 1937), scrittore ebreo internato ancora bambino in un lager nazista — un'esperienza che sottende il suo primo, notissimo ro- manzo Jakob il bugiardo — passato recentemente dalla RDT alla RFT, affronta in Bronsteins Kinder (i figli di Bronstein, Suhrkamp, Frankfurt / M 1985, pp. 302, DM. 29) il rap- porto con il passato secondo una du- plice prospettiva generazionale. La vicenda si colloca a Berlino Est nei primi anni settanta. Hans Bronstein, ragazzo ebreo appena ventenne, sco- pre con raccapriccio che il padre — complici altri correligionari — tiene sequestrato in una cella l'ex-aguzzi- no di un lager nazista. Il vecchio Bronstein ritiene infatti che un tri- bunale tedesco sia per sua natura in- capace di fare giustizia. Tant'è vero, sostiene, che il nazismo non è cadu- to per mano tedesca. E anche se egli riconosce alle autorità della RDT un fermo atteggiamento antifascista, ne denuncia tuttavia l'assoluta casualità storica: "Certo, se l'aguzzino venisse consegnato alla giustizia, verrebbe severamente punito, ma perché? So- lo grazie al caso, che ha voluto che una certa forza d'occupazione, e non l'altra, si sia insediata in questo pae- se. Se il confine corresse solo un po' più in là, questa stessa gente la pense- rebbe in modo diametralmente op- posto. E il più forte a dettar gli ideali a questa marmaglia tedesca, sia che si chiami Hitler, sia che si chiami in qualche altro modo". Il figlio è scon- volto. Per lui l'ebraismo è un fatto del tutto marginale, lo irrita essere definito "vittima del fascismo" e — soprattutto — vuol chiudere una volta per tutte col passato tedesco. "Anche questa è una forma di op- portunismo" sentenzia Marta, la cui voce sembra coincidere con quella di Becker. Secondo la giovane donna, non c'è speranza per chi, come Bronstein, non riesce a guardare alla storia senza il necessario distacco, né per chi, come il figlio, s'illude di vi- vere libero del peso del passato, per grazia ricevuta, essendo cioè nato dopo la guerra. La formula della "grazia della na- scita posteriore" (al nazismo) fu co- niata dal cancelliere Kohl in occasio- ne di una visita ufficiale in Israele, tesa a presentare il volto sereno, ana- graficamente innocente della Ger- mania Federale. Gert Heidenreich (n. 1944), usa polemicamente la stes- sa formula per dimostrare come la sua generazione non sia affatto di- sposta a vivere rimuovendo la me- moria storica del passato. Nel rac- conto, intitolato appunto Die Gnade des spàten Geburt (Piper, Miinchen 1986, pp. 146, DM 24) Heidenreich descrive l'incontro casuale di un gio- vane tedesco federale con una ex-de- portata. L'angosciosa demenza di questa figura senile, l'ossessivo gesto d'accusa della mano marchiata con la numerazione del lager, la rievoca- zione sconnessa ma inequivocabile delle acrocità subite, incrinano pro- gressivamente la coscienza del giova- ne, fino al suo ricovero in una clini- ca psichiatrica: la consapevolezza che l'innocenza gli derivi semplice- mente da un arbitrio cronologico, rende il ragazzo — che resta pro- grammaticamente anonimo — del tutto incapace di vivere in un pre- sente che si pretende affrancato da ogni responsabilità. Anche Peter Schneider (n. 1940) riprende il tema del confronto gene- razionale, ma in un contesto diver- so. In Vati [Papà], (Luchterhand, Darmstadt und Neuwied 1987, pp. 82, DM 18) il figlio di un noto crimi- nale nazista segretamente riparato in Argentina dopo il '45 decide di parti- re alla ricerca del padre, abbando- nando il ben ovattato ambiente fran- cofortese. Sorretto dall'idea che l'o- locausto non può che essere imputa- bile ad un intero popolo e non al singolo individuo, illuso di trovare un vecchio pentito dei suoi misfatti, e soprattutto istintivamente biso- gnoso di riabilitare la figura paterna, il figlio deve invece confrontarsi col cinismo arrogante di un nazista reni- tente, che ancora pretende non solo rispetto, ma anche ubbidienza. "Si dovrebbe vietargli di pensare e di parlare" conclude amaramente il giovane. Egli è tuttavia incapace di appunto. Il quale in realtà è fin trop- po incombente, ma è un padre-pa- drone, di quelli di una volta, capace di distruggere con una sola occhiata silenziosa la labile psiche di moglie e figlie (ne ha quattro e tutte nubili). La protagonista cerca allora scampo — e vendetta — in una relazione sen- timentale con un attempato architet- to ebreo. La Schweiger, che procede con una scrittura ansante, soggetti- va, continuamente oscillante tra pas- sato e presente, usa a piene mani sva- riati ingredienti psicanalitici. L'anti- semitismo viscerale del padre si stampa nell'inconscio della figlia, per riemergere prepotente nell'atto erotico, ovviamente con tratti maso- ma la testimonianza degli autori di ritorno dall'esilio — come Brecht o la Seghers — e, lungo gli anni '50, una produzione centrata sull'analisi storica del nazismo, corredata da episodi esemplari di resistenza anti- fascista. Sommerso negli anni '60 dalla vasta letteratura dedicata alla descrizione della nuova realtà socia- lista, il passato è riemerso con forza attraverso un'indagine puntuale del "fascismo quotidiano" negli anni hit- leriani, coraggiosamente messo in relazione con le carenze del sociali- smo reale. Pietra miliare di questa nuova ricerca è il romanzo autobio- grafico Kindheitsmuster [Modelli in- fantili] (Aufbau, Berlin und Weimar Lo stigma di Auschwitz Secondo me di Anna Chiarloni La discussione sul nazismo divampata nella Germania Federale a seguito degli interventi di 'Nolte nel giugno, e di Habermas nel luglio 1986, e paragona- rbile a un terremoto che d'un colpo fa erompere in superfìcie le viscere 'della terra. Con questa immagine Fritz Wolfgang Haug, direttore di "Das fArgument" apre il n. 80 (1987) della rivista, interamente dedicato al passato tedesco. Che qualcosa di nuovo si muovesse nel fondo delle coscienze, o nel contesto politico degli anni '80, che stesse insomma affiorando un'ottica diversa, è' l'altra parte confermato dal fatto che le tesi di Nolte, contro le quali Habermas scaglia Ji suoi strali, le si poteva ritrovare pari pari già nel suo voluminoso libro pubblicato da liù di un decennio: La Germania e la guerra fredda, Monaco 1974. (Ma — nota Helga Grehing in un'utile messa a fuoco cronologica della questione, Comparsa nel primo numero di "Niemandsland" (1987), centrato sullo stesso tema — se nel blima progressista di quegli anni l'interpretazione del nazismo come risposta al pericolo olscevico poteva venir archiviata come bizzarria di uno studioso isolato, questa stessa peoria diventa, nel 1986, un pilastro di quella nuova e pericolosa costruzione ideologica che\ tma definirsi "konservative Revolution"). Intanto si assiste a una sorta di euforia edito- j iale intorno al nazismo. Ce n'éper tutti i gusti, basta dare un'occhiata al catalogo 1987 i li Piper per avere un'idea del business: accanto al volume che raccoglie gli interventi, ella disputa tra gli storici (con qualche censura: manca per esempio Tugendhat, e vai pena di andarselo a leggere su "Niemandsland"), l'editore monacense offre un romanzo di Witkiewicz. Non entro nel merito del testo, mi limito a riportarne % fascetta: "Una visione grandiosa della decadenza della cultura europea. Una j gocietà di alta aristocrazia, finanza ebraica e bohème vive i suoi ultimi nomi tra orge di sesso e di alcool". Malgrado queste forme di ambigua kmercificazione del passato bisogna tuttavia riconoscere che dalla letteratura si levano voci di autori che — a ovest come a est — si rifiutano di cancellare la propria storia. Vediamone alcune. consegnare il padre alla giustizia. Sullo sfondo di un'Argentina violen- ta e sinistra — la vicenda si svolge nel '77 — Schneider mette in scena il dramma della sua generazione: l'eti- ca politica si scontra nel racconto col sentimento privato, la ratio non è sufficiente a indicare al figlio una condotta che vada oltre la dolorosa sensazione di essere protagonista di una "innocente vita colpevole". La crisi d'identità per mancanza di figura paterna è anche il tema di un racconto di largo successo dell'au- striaca Brigitte Schweiger (n. 1949), un testo che va a mio parere ricon- dotto a quel processo — magari in- conscio — di mercificazione della storia di cui parlavo: Lange Abwe- senheit, Rowohlt Taschenbuch, Reinbek bei Hamburg 19833, pp. 89, DM 4,80. "Lunga assenza" del padre, chisti. E così il lettore si trova lì, sulla pagina, un rigurgito di stereoti- pi antisemiti, proprio quelli di stam- po nazista, con un'ampia sequenza che va dal "lezzo" alla "libidine ebraica", esercitata, s'intende, sul giovane corpo della "ingenua goim". La Schweiger pesca insomma nel torbido e certe pagine hanno un sa- pore che rimanda all'inesauribile fi- lone cinematografico centrato sulla nazi-violenza sessuale, ma con un pizzico inedito: l'antisemitismo co- me ultima spiaggia di un eros ormai logoro e consunto. Evidentemente la vecchia e sana autocensura — Fas- sbinder insegna — è caduta del tutto in disuso. Veniamo ora alla RDT. Qui il confronto col passato si è verificato in fasi ben precise, scandite dalla po- litica culturale governativa: dappri- 1976, pp. 531, M 9,90) di Christa Wolf. Da questo viaggio nella me- moria soggettiva e nella geografia politica europea — la Wolf è nata nel 1929, in territorio oggi polacco — che non verte più sulla resistenza o sulle atrocità naziste, bensì sul com- portamento medio del "gregario", colto nelle microstrutture della vita di tutti i giorni, discende gran parte della produzione recente. Rifiuta la definizione ufficiale del nazismo co- me di un fenomeno ormai estinto nella RDT, come di un oscuro baga- glio storico specificamente federale, si assiste oggi a una sorta di scavo, che inevitabilmente smonta e svela i meccanismi più segreti della rimo- zione collettiva. stoph Hein, Hornsende [La fine di Horn] (Aufbau, Berlin und Wimar 1985 [ma 1986!], pp. 264, M 12). Un incipit a due voci, la prima dolente, murata nell'oblio, chiede insistente alla seconda — un adolescente — di ricordare riesplorando il passato, di testimoniare scrivendo la Storia. Il romanzo non verte di per sé sul na- zismo, bensì sulle tracce indelebili, sui modelli che ancora operano al- l'interno di una società che si preten- de civile ed è invece cinica, corrotta dall'uso della delazione, parzialmen- te nostalgica dell'ordine hitleriano. La vicenda è ambientata negli anni '50. Horn è uno storico di Lipsia inviso al partito perché non allinea- to. Viene perciò accusato di revisio- nismo e confinato con mansioni se- condarie in un'ottusa cittadina di provincia. L'interesse di questo ro- manzo sta nel fatto che l'anamnesi della Germania nazista conduce ine- vitabilmente a una critica puntiglio- sa del clima stalinista nella RDT di Ulbricht. Non a caso il testo è stato distribuito a est a più di un anno di distanza dall'edizione occidentale (ma nell'85 già giravano copie del testo travestite da romanzo di Karl May...!). Ancora più radicale di questo sen- so è una pièce di Heiner Miiller fre- sca di stampa ("Theater der Zeit", 1987, n. 6) e addirittura già rappre- sentata — effetto Gorbaciov? — nella RDT: Das Duell [Il duello]. Con quel gesto provocatorio che gli è abi- tuale, Miiller rielabora, capovolgen- dolo, un omonimo racconto della Seghers. Là un insegnante comuni- sta, reduce dal campo di concentra- mento, ingaggia un appassionato duello con le forze reazionarie che minacciano la fondazione della RDT, battendosi per l'avvento al potere del proletariato. In Miiller in- vece, l'antifascista è ridotto a ottuso burocrate, pateticamente ancorato al suo passato di resistente e del tutto incapace di confrontarsi con i pro- blemi di una società nuova. Il duello, che si svolge sullo sfondo della tragi- ca sollevazione del '53, avviene per- tanto nelle forme più squallide, al- l'interno della nomenklatura locale, in attesa che i panzer sovietici sedino i tumulti operai. Complessivamente si ha l'impressione che nella RDT, dove oggettivamente la radicale de- nazificazione del primo dopoguerra ha consentito un concreto — anche se pilotato — superamento del passa- to nazista, affiori ora il bisogno di indagare la propria identità politica post-bellica, i complessi processi di condizionamento, i divieti e i silenzi imposti dalla costruzione del sociali- smo reale. Il confronto generaziona- le c'è anche qui, ma vira verso una contrapposizione inscritta nel pre- sente, che investe quei "padri" anco- ra e sempre inamovibili, ostinata- mente radicati nella burocrazia so- cialista. E allora l'esperienza di Au- schwitz si fa più remota, quasi sot- traendosi — muta — al linguaggio. A questa nuova condizione della co- scienza tedesca sembra alludere Gùnter Kunert (n. 1929) in un testo della sua recente raccolta di liriche, Berlin beizeiten [Berlino di buon'o- ra], (Cari Hanser Verlag, Miinchen 1987, pp. 119, DM 22): "Rammemo- ra muto: frammenti d'immagini / assorbiti da cieca superficie / prima che anche questo ricordare si perda / con rabbia e impotenza e orrore". Emblematico in questo senso è l'attacco degli otto capitoli che costi- tuiscono l'ultimo romanzo di Chri-