]N. 9 del fratello più piccolo che gli era stato incautamente affidato. M'è tor- nato in mente immaginando un film, la storia d'una trentina di bam- bini dai due ai cinque anni abitanti in un palazzone di periferia: con tut- ti i loro innamoramenti totali, odii feroci, sodalizi, sguardi, allegrie, in- felicità cosmiche. Quel film, con mio dispiacere, non ho mai potuto farlo: il brevissimo episodio di Amarcord ne è una traccia. Bergman dice, parlando del se stesso quasi settantenne: "nel profondo del mio animo infantile..." Le sembra una civetteria, un'affettazione? No. È scientificamente esatto, ol- tre che sincero: e che, l'animo infan- tile sparisce con gli anni? Penso ci sia un'età che non ha niente a che fare con quella anagrafica e che ci portia- mo dietro per tutta la vita. Io non ho mai conosciuto adulti. Non ne cono- sco. Ammettendo che esista il tipo psicologico dell'adulto (come esiste il tipo dell'avaro, o del violento), credo di averlo intravisto soltanto nei bambini. Sono un ricordo di scuola certi bambini adulti che a sei anni avevano facce da commercianti o da impiegati di banca, bambini nei quali già affiorava l'aspetto ottuso, minaccioso e solitario degli uomini che sarebbero diventati. Per il resjo, gli uomini rimangono sempre ai tre anni. Un artista, poi, che vive al con- fine tra il fantasticato e la realtà, ha una necessità profonda, vitale, di conservare questa età chiamata in- fanzia: e la conserva per istinto. Bergman parla della "malattia pro- fessionale di recitare se stesso". Scrive: "Mi foggiai una personalità esteriore che aveva ben poco a che vedere col mio vero io". È un bisogno o una for- ma di schizofrenia, secondo lei? È un dato comune, anche a me. Il cineasta ha una necessità peculiare: deve cancellare, mascherare, nascon- dere quella vulnerabilità, debolezza e insicurezza tipiche della compo- nente infantile che è tanta parte della psicologia dell'artista. Se la lasciasse trasparire, se vivesse apertamente la sua natura più sensitiva, non so co- BULZONI VIA DEI UBURNI14 -TEL. (06)4955207 00185 ROMA "EUROPA DELLE CORTI" Biblioteca del Cinquecento Giorgio Barberi Squarotti MACHIAVELLI O LA SCELTA DELLA LETTERATURA 330 pagine, L. 30.000 SCRITTURE DI SCRITTURE TESTI, GENERI, MODELLI NEL RINASCIMENTO a cura di G. Mazzacurati e M. Plaisance 750 pagine, L. 75.000 Roberto Ciancarelli IL PROGETTO DI UNA FESTA BAROCCA Alle origini del teatro farnese di Parma (1618-1629) 280 pagine, L. 28.000 Marina Beer ROMANZI DI CAVALLERIA Il "Furioso" e il romanzo italiano del primo Cinquecento 400 pagine, L. 39.000 La frontiera da Stato a Nazione IL CASO PIEMONTE a cura di C. Ossola, C. Raffestin e M. Ricciardi 440 pagine, L. 40.000 Nelle librerie oppure direttamente presso la nostra casa editrice __ me un cineasta potrebbe salvarsi a contatto con l'aspetto violento di un sociale emblematicamente rappre- sentato dai finanziatori e commer- cianti di cinema, dalle nevrosi com- plesse degli attori, dalla troupe, sino all'ultima delle comparse che magari tenta soltanto di procurarsi ferite per incassare i soldi dell'assicurazio- ne. Chi, come il regista, sta nella po- sizione d'un personaggio che deve essere seguito, temuto, obbedito, è costretto ogni mattina a mettere el- mo e corazza, brandire lo spadone, montare a cavallo e apparire il più temibile possibile. Bergman, più che come personaggio autoritario, si è costruito come mago, ipnotizzatore, era entrato in me. Oppure era nato un altro me stesso che stava lì in attesa, uno sconosciuto inquilino di cui io non sapevo niente. Si, c'è una schizofrenia professionale del regi- sta. Una dicotomia: un'altra creatu- ra convive con te. Forse con gli anni si è irrobustita: ma già alla repentina nascita era, spudoratamente, regista. Sul proprio modo di lavorare, Berg- man scrive: "Ci sono registi che mate- rializzano il loro proprio caos, nel mi- gliore dei casi fanno nascere da questo caos uno spettacolo. Io detesto questo tipo di dilettantismo... Voglio avere pace, ordine, cortesia, silenzio. Solo co- sì possiamo avvicinarci all'infinito. Solo così possiamo risolvere gli enig- Bergman racconta nell'autobiogra- fia una sua crisi provocata dai fatti esterni, politico-sociali, del movimen- to del Sessantotto. Scrive: "Io stesso venni cacciato dalla scuola statale d'arte drammatica sotto gli occhi dei miei figli. Quando affermai che i gio- vani allievi dovevano impadronirsi della tecnica di recitazione se voleva- no raggiungere il pubblico con il mes- saggio rivoluzionario, loro fischiaro- no agitando il libretto rosso...1 giova- ni occuparono i mass-media e lasciaro- no noi, vecchi e consumati, in un cru- dele isolamento... Disprezzavo un fa- natismo che riconoscevo dalla mia in- fanzia: la stessa fanghiglia emotiva, so- lo gli accidenti erano diversi. Invece sacerdote: si è creato l'immagine di un potere più mistico. Io non avrei mai pensato di trovare in me una parte di tiranno e condottiero, di prepotenza e comando. Non so co- me ho fatto. L'unico esercizio che ricordi è il tentativo d'irrobustirmi la voce, che tenderebbe al falsetto, al flautato. Quando ero ancora sceneg- giatore e andavo sul set di un film, in uno studio cinematografico, il lavo- ro del regista mi pareva impraticabi- le: la vastità dell'ambiente con qual- cosa di chiesastico, l'esorbitante at- trezzeria tecnica, l'obbligo di urlare, la necessità di prendere cento deci- sioni in pochi secondi...Soprattutto mi pareva impossibile trattar male le attrici, bionde ben vestite e ben truc- cate, bellezze di fronte a cui io sarei caduto in ginocchio. Eppure, la pri- ma volta in cui, giovanissimo, mi so- no trovato, solo, a dirigere Alberto Sordi e Brunella Bovo in una scena anche tecnicamente difficilissima de Lo sceicco bianco, tutti gli spaventi, tutti i timori di disastro e fallimento sono spariti. Davo ordini. Un altro È un'idea da profeta, da astronau- ta. A me una frase simile non verreb- be mai in mente. Bergman ha forse una concezione più eroica e mitica dell'impresa dell'artista. Avendo co- minciato la sua carriera in teatro, ha conosciuto altri rituali, altre discipli- ne: soprattutto il silenzio, in cui far vibrare la parola. A me questa scuola è mancata. Non ho mai sentito il bisogno di silenzio, né dell'angolo di quiete, di uno spazio privato destina- to alla riflessione e all'esercizio del pensiero. Bergman scrive: "Girare un film è un'operazione intensamente erotica". Lo è anche per lei? È un'operazione artistica unica, compiuta in assenza di solitudine, coinvolgente: tocchi e plasmi e tra- sformi anche esseri umani. Se ha una qualità erotica, è l'erotismo del par- to, della nascita di una creatura che avrà una sua vita, che somiglierà a te. Per questo l'età può metterti in crisi, farti pensare che non ce la fai più: è come il fare l'amore. d'aria fresca ottenevamo deformazio- ne, settarismo, intolleranza, una ti- morosa condiscendenza, l'abuso del potere". Le pare un giudizio astioso? No, sono completamente d'accor- do, condivido le impressioni e il giu- dizio di Bergman su quel periodo. E tutto vero. Resta esemplare lo slogan "l'immaginazione al potere", che co- me tante sciocchezze mediocri e fal- se ebbe immenso successo interna- zionale, pur essendo totalmente in- sensato: l'immaginazione, in quanto tale, non sta al potere; il potere, in quanto tale, non ha immaginazione. Bergman parla di se come di un au- tore di cinema cui è negata la dimen- sione fantastica, onirica, visionaria posseduta invece da Tarkowski ("è il più grande di tutti", dice), Fellini, Ku- rosawa, Bunuel. Le sembra vero? Certo il vero cinema usa il linguag- gio dei sogni, e i sogni si manifestano per immagini simboliche, e il simbo- lo è un modo di comunicare più pro- fondo, immediato, vario, suggestivo e potente di ogni altro linguaggio: filosofia e poesia diventano al con- fronto balbettamenti, forse soltanto la formula matematica è folgorante quanto il simbolo. Non so se Berg- man ha ragione. All'inizio il suo ci- nema tendeva a una dimensione, più che onirica, spiritistica, parapsicolo- gica, cemeteriale: i sogni del Posto delle fragole erano come pensati da uno scienziato-artista, non vissuti da un vero visionario. Ma io vedo po- chissimi film. Di Tarkowski non ho visto niente. Di Kurosawa ho visto per primo Rashomon, e mi colpiro- no la maga col suo bacchettino, la passeggiata nel bosco col sole riflet- tentesi nella lama della scure portata da Toshiro Mifune: suggerivano l'in- gresso in un'altra dimensione, ma lì c'è di mezzo l'Oriente, un'altra cul- tura, un'altra religione... Per quel poco di cinema che ho visto, chi più si è avvicinato all'atmosfera, all'es- senzialità e all'estrema naturalezza del sogno è Bunuel, specialmente ne- gli ultimi film. Il suo lavoro ha la leggerezza, l'ambiguità, l'umorismo, la credibilità, l'eloquenza, l'allarme del sogno: è lui il più grande di tutti. È lui ad aver usato il cinema nella sua espressione più segreta e prezio- sa, quella del linguaggio dei sogni. E forse anch'io l'ho fatto, qualche vol- ta. Bergman spiega nell'autobiografia i motivi per cui ha rinunciato a dirige- re film: la malattia (una colite croni- ca, "sventura ridicola quanto umi- liante"), l'insonnia indomabile, ma soprattutto la senilità. Scrive: "La so- luzione dei problemi diventa più len- ta, le scene creano preoccupazioni maggiori, le decisioni richiedono più tempo, vengo paralizzato dalle diffi- coltà pratiche impreviste. Quanto più stanco, tanto più brontolone: i miei sensi vengono acutizzati all'estremo e 10 vedo dappertutto insufficienze ed errori. Esaminando i miei ultimi film e le mie ultime regìe riconosco qua e là una minuzia perfezionistica che mette in fuga la vita e lo spirito... La paura dell'incapacità aggredisce e sabota la capacità. In passato volavo disinvolto e sollevavo gli altri. Ora ho bisogno della fiducia e del desiderio degli altri, gli altri debbono sollevarmi perché mi venga il desiderio di volare". Suona come un'analisi sincera, che mi ispira rispetto e un pochino di allarme. Più che l'età, mi pare sia il suo sentimento dell'età a permettere a Bergman di parlare di sé impietosa- mente. Quando un uomo di spetta- colo, un creativo, si convince che è arrivato il momento di scrivere l'au- tobiografia, vuol dire che qualcosa è accaduto: che la festa e la battaglia non attraggono più, che si ha voglia di ritirarsi. Io preferisco pensare ai Grandi Vecchi: Goethe, Tolstoi, Mann, Verdi... Bergman ha lasciato 11 cinema ma continua a lavorare in teatro: invecchiando si tende a tor- nare alle stagioni formative, a ricer- care situazioni originarie e tentar di rivivere sensazioni iniziali, come per immaginare, in un inconscio trucco giocato a se stessi, di avere ancora tanto tempo davanti a sé. E il cinema è certo un mestiere di giovinezza, di forza, di vigore. Io non faccio fatica perché il cinema è la mia vita, il mio gioco, il mio alibi. E anche la mia salute fisica: se arrivo sul set con la febbre alta, mi basta sedere sul seg- giolino della macchina da presa per sentirmi bene. È una inconsapevole operazione yoga: fai coincidere il tuo ritmo con un ritmo più genera- le, fai coincidere la tua respirazione con la respirazione di destino dell'o- pera. Bergman scrive: "Se non posso lavo- rare, la mia vita non ha più senso". Certo. Un artista che non può continuare a esprimersi è inutile.