;N. 9 pag. 12 La Traduzione Un faggio troppo stagionato di Cesare Cases Annette von Droste-Hul- shoff, Il faggio degli ebrei, Saler- no, Roma 1987, ed. orig. 1842, trad. dal tedesco e cura di France- sco Politi, introd. e nota di Josef Kurz, profilo biografico-critico di Ernst Alker, pp. 124, Lit. 13.000 Friedrich Mergel, figlio di un ubriacone e di una donna che aveva tentato invano di redimerlo, adotta- to da uno zio equivoco, è un giovane bello, forte e orgoglioso che sta dalla parte dei "camiciotti azzurri", ladri di legname. Un figlio illegittimo del- lo zio, Johannes "Nessuno", è il so- sia negativo di Friedrich, un essere debole e sciocco con lo stesso fisico. Ma l'arroganza spinge Friedrich a uccidere un ebreo che gli aveva chie- sto pubblicamente, umiliandolo, il pagamento di un orologio d'argen- to. Egli si affretta a fuggire insieme a Johannes "Nessuno". Gli ebrei ac- quistano dal signore del paese il fag- gio presso il quale era stato trovato il cadavere del correligionario e vi inci- dono una scritta in ebraico che pre- vede una fine violenta per l'omicida in quello stesso luogo. Dopo ventot- t'anni torna in paese un povero gob- bo semiparalizzato che dichiara di essere Johannes "Nessuno", reso ir- riconoscibile dai maltrattamenti pa- titi come schiavo in terra di Turchia. Il barone lo prende al suo servizio ma egli torna spesso nei boschi fin- ché un giorno lo si trova impiccato al "faggio degli ebrei" e si scopre che in realtà è Friedrich Mergel. La ma- ledizione degli ebrei l'ha raggiunto. La storia (sostanzialmente autenti- ca) si svolge nella seconda metà del Settecento in Westfalia, patria di An- nette von Droste-Hiilshoff (1797- 1848), la geniale nobildonna che la considerava parte di un'opera che in- tendeva scrivere sulle tradizioni e i costumi locali. Quindi non una no- vella vera e propria, anche se con questa designazione conobbe una popolarità inaudita e dopo la prima pubblicazione nel 1842 circolo fino ad oggi in circa sei milioni di copie. Questo successo non sarebbe spiega- bile con il pur minuzioso realismo descrittivo dello sfondo e dei costu- mi (che sappiamo essere lo scopo di- chiarato della narratrice, che aveva dato il titolo Un quadro dei costumi della Westfalia montuosa, fortunata- mente cambiato dal primo editore) e Collana "Proposte" Gyórgy Lukàcs L'UOMO E LA DEMOCRAZIA a cura di A. Scarponi Un inedito pensiero politico in un testo atteso dal sessantotto. Federico De Roberto LEOPARDI prefazione di Nino Borsellino "Un'enciclopedia del pensiero e del sentimento leopardiano" (Carducci) nemmeno con la cupezza delle vi- cende animate da un afflato veterote- stamentario. Il fatto è che II faggio degli ebrei è una lettura sconcertante e enigmatica, sicché aveva ragione Heine nel dichiarare che il suo fasci- no stava nella sua misteriosità e Tur- genev nel confessare tra l'ammira- zione che non ne era "venuto a ca- di Friedrich senza nessuna deforma- zione moralistica. I "camiciotti az- zurri" sono certo dei fuorilegge, ma l'assurdità delle leggi che privavano la comunità della libera disposizione del patrimonio forestale è sentita dalla Droste come dal giovane Marx in un noto articolo della "Rheini- sche Zeitung". E che la miseria spin- di Satana è lo zio, un personaggio marginale, e del resto c'è da chiedersi se qui ci sono veri personaggi o se piuttosto non si voglia rappresentare uno stato di dannazione cui è impos- sibile sottrarsi e che riconduce anche l'anima cristiana alla morale dell'an- tico testamento. È molto importan- te che la Droste non ceda minima- Il mito siciliano di Francesco Spera NUNZIO ZAGO, Gesualdo Bufalino, Pungito- po, Marina di Patti (ME) 1987, pp.105, Lit. 8.000. Con il Gesualdo Bufalino a cura di Nunzio Zago giunge felicemente al quarto volume la collana La figura e l'opera diretta da Natale Tedesco e pubblicata dalla casa editrice Pungito- po. Davvero lo straordinario narratore di Di- ceria dell'untore e Argo il cieco meritava que- sto studio, che chiarisce il caso di uno scrittore giunto tardi al romanzo e alla notorietà. Attra- verso una ricca scelta antologica e un'ampia introduzione (tale è la struttura caratteristica della collana), si delinea il ritratto di uno scrit- tore singolare e iperletterario, che concepisce il romanzo come raffinata e privata operazione di scrittura. Zago ripercorre con chiarezza e intensa partecipazione le tappe di un itinerario intellettuale alquanto particolare e affascinan- te, ponendo in luce gli elementi di continuità di un sistema poetico-narrativo coerente e maturo. Già dalle prove iniziali emergono quelli che sono i motivi di fondo della produzione di Bu- falino: un'inquieta religiosità, l'esistenza come illusione amata e odiata al tempo stesso, la me- moria come unico, e spesso esile, strumento per afferrare la vita e decifrarne gli enigmi. Dopo alcune splendide ricostruzioni di un Sicilia or- mai sempre più irrimediabilmente lontana, nel 1981 Bufalino decide di pubblicare il suo primo romanzo, rimasto per anni nel cassetto, Diceria dell'untore, cui fanno seguito Dizionario dei personaggi di romanzo (1982), Argo il cieco (1984) e i racconti de L'uomo invaso e altre invenzioni (1986). Una produzione non certo vasta ma complessa, dove è costante il ricorso a un'ironia sentita come lente privilegiata attra- MJWiSSS* verso cui il romanzo contemporaneo, nella crisi della cultura occidentale, sia in grado di guar- dare il mondo. L'attenzione agli aspetti più specificamente letterari e i contenuti "siciliani" che caratteriz- zano la presentazione di Zago, sembrano essere i denominatori comuni della collana, che fino- ra ha visto pubblicati volumi dedicati a Piccolo, Sciascia, Pirandello, curati rispettivamente da Natale Tedesco, Antonio Di Grado, Fernando Gioviale. Colpisce questa iniziale unitarietà della collana, accresciuta dal fatto che anche gli studiosi che presentano i volumi sono siciliani. È il mito culturale della Sicilia che i quattro autori e critici indagano con acume e partecipa- zione, nella coscienza di appartenere a una tra- dizione secolare, di avere alle spalle un patrimo- nio fra ipiù ricchi della nostra civiltà. E si badi che il discorso non resta limitato al rapporto con la tradizione isolana, ma nelle prefazioni si analizza sempre il rapporto problematico di ogni autore con la letteratura italiana ed euro- pea. po". Impressioni simili sono in pale- se contrasto con la trama da libro di lettura: delitto e castigo, occhio per occhio, chi la fa l'aspetti. Invece l'e- secuzione è tutt'altro che ovvia. Già la logica interna ha gravi falle. Per esempio: perché Friedrich scappan- do si tira dietro proprio l'inetto Jo- hannes "Nessuno"? E come fa il mal- concio reduce dalla Turchia, appena capace di stare in piedi, a salire su un faggio per impiccarsi? Su questi e al- tri punti si può sorvolare in nome della massima di Boileau cara alla Droste (e citata anche qui) per cui "il vero non è sempre verosimile". Alla Droste importa il significato simbo- lico delle azioni e non la loro verosi- miglianza. Friedrich deve scompari- re con il sosia per confondersi in qualche modo con lui e deve impic- carsi al faggio perché il conto torni. Ma anche il senso simbolico non è sempre perspicuo. Il realismo di que- sta cattolica che, per quanto nobile, ha l'occhio vigile sulle condizioni sociali, la porta a insistere sul modo in cui queste determinano il destino ga all'alcool e l'alcool all'autodistru- zione del povero lei lo sa quanto un altro contemporaneo, l'Engels della Condizione della classe lavoratrice in Inghilterra. Dov'è dunque la colpa individuale? Eppure essa c'è, ogni volta Friedrich avrebbe un margine di libertà che respinge, come quando lo zio lo persuade a non andare a confessarsi, sapendo che ha le prove che è stato lui, lo zio, a uccidere il capo dei guardiacaccia che inseguiva i ladri di legname. Peccato grave doppio — contro la verità e contro il rispetto dei sacramenti — per la cat- tolica Droste, che però si guarda be- ne dal sottolinearlo troppo. Poiché più che il peccato dovuto al libero arbitrio importa nell'operetta quel condizionamento esterno ed ereditario che assomiglia molto al peccato originale. Friedrich non è mai scusato ma nemmeno si infieri- sce contro di lui né si dimentica mai che la natura l'aveva ben dotato pri- ma che le sue vicende lo riducessero a una larva. Il conto dei cattivi e dei buoni non torna, l'unico vero figlio mente alla tentazione romantica di scaricare sugli ebrei la responsabilità del male del mondo, anzi essi con la loro coesione comunitaria offrano un esempio ai cristiani che reagisco- no alle proprie misere condizioni con la violenza e con l'arroganza (ovvero, come scrive il nostro tra- duttore, con la "grandigia"). Perciò i nazisti non riuscirono a sfruttare il racconto ai loro scopi nonostante la tendenza "germanica" a sfumare i contorni della colpa individuale. A noi questa tendenza, che qui è com- pletamente sottratta al mito, sembra piuttosto anticipare Dostoevskij e Kafka. La Droste è nota in Italia soprat- tutto attraverso una pregevole mo- nografia di Giorgio Cusatelli e l'ec- cellente versione di un manipolo delle sue grandi liriche fatta da Lea Ritter Santini in un fascicolo di "In forma di parole". Anche del Faggio degli ebrei c'è un'edizione commen- tata a cura dello stesso Cusatelli, ma con stupore si apprende dalla biblio- grafia che finora c'era un'unica tra- duzione pubblicata a Bologna nel 1933. Questa è più giovane di cin- quantanni e passa, ma per certi ri- spetti sembra di cinquant'anni più vecchia. Nel campo delle traduzioni coesistono spesso epoche diverse, qui le due poesie inserite dalla Dro- ste potrebbero essere, ahimé, di una poetessa italiana coeva, e in generale sul piano lessicale la versione, filolo- gicamente per lo più esatta e che ri- vela un autentico impegno, ricorre a vocaboli ignoti anche al Fanfani e al Rigutini. Le finestre invece di sbatte- re "trempellano"; i rami vengono "strappucchiati"; un tronco è "bezzi- cato" dalle intemperie; la vecchia zi- tella si chiama "calandra" e l'acqua- vite dannunzianamente "acquarzen- te"; il dantesco "cilestro" viene forse modernizzato in "cilestre"; infine i camiciotti azzurri non si accontenta- no di "dileguarsi" come nel testo, ma altresì "spulezzano". Ma il presente preme anche sui più decisi a negarlo e quindi da questi abissi cruschevoli si balza talora verso audaci moderni- tà: il padre di Friedrich non si era "sbronzato", ma una volta restò "stravaccato davanti all'uscio", e quanto al figlio sembrava proprio "un pelandrone di vaccaro". Nel te- sto a queste acrobazie lessicali corri- spondono parole semplicissime, lo stile della Droste è quanto mai asciutto e anche le sfumature dialet- tali sono molto discrete, mentre il traduttore ricorre assai più frequen- temente a una specie di koiné padana degna di Dario Fo. Forse per lui il basso tedesco va piazzato nella Bassa padana. Anche Johannes "Nessuno" diventa "Nissùn" e qualche maggio- rente viene insignito dell'appellativo di "Sior". Lasciamo andare malvezzi purtroppo comuni come la suddivi- sione in capitoli che non c'è nell'ori- ginale e l'andare a capo quando salta il ticchio. Interessante è la trattazio- ne dei nomi propri. Il protagonista Friedrich Mergel quarant'anni fa si sarebbe chiamato Federico, quattro- cento forse Merghelio, ma qui si chiama Friedrich Merghel e questo non sta né in cielo né in terra. Sem- bra che il rispetto per la grafia italica valga solo per il fonema "g", perché anche la conca di Telge viene scritta "Telghe": per Friedrich o Johannes non c'è pericolo che il lettore italia- no si sbagli. I toponimi poi sono scrupolosamente rispettati, eccezion fatta per "Telghe". Freiburg in Brei- sgau resta com'è e non diventa, per carità, Friburgo in Brisgovia. Ma questa è purtroppo una tendenza dif- fusa e probabilmente irresistibile. Lo svuotamento della storia si rivela nel fatto che nessuno più sa che Aug- sburg si può chiamare Augusta e Re- gensburg Ratisbona; i nostri giovani tornano tutti contenti da Kòln, Frankfurt e Leipzig, magari perfino da Berlin. Meraviglia però riscontra- re questo fenomeno in un traduttore che, a parte i rari stravaccamenti, non si rivela affatto contagiato dai giovani. Eppure rispetta addirittura la selva di "Teutoburg", che è lo sfondo di tutta la storia. Pensavamo che, perendo qui nel 9 d.C. sotto il ferro di Arminio, Varo e le sue legio- ni ci avessero almeno conquistato il diritto di romanizzarla in Teutobur-