N. 2 dei libri del mesel Pag- 9 Vivaio di tecnici di Fabio Levi Il Politecnico di Milano nella storia italiana 1914/63, 2 voli., introduz. di Enrico Decleva, Cariplo-Laterza, Milano 1989, pp. 756, Lit 40.000. Dare conto in forma univoca e coerente della storia del Politecnico di Milano fra il 1914 e il 1963 non era certo impresa facile: forse per questo i curatori dei due volumi ap- pena usciti grazie alla collaborazione fra la Cariplo e l'editore Laterza han- no preferito affidarsi a una trentina di saggi — molto diversi fra loro sia per il contenuto che per il taglio — e a una lunga sintesi introduttiva di Enrico Decleva intesa a delineare i problemi essenziali via via affrontati dai vari autori. Così il lettore si trova di fronte, non di rado per brevi scor- ci e per frammenti, un'ampia messe di informazioni sulle vicende dell'i- stituzione in esame, ma anche nota- zioni, aperture e qualche volta primi abbozzi di ricerca di indubbio rilievo su ambiti più ampi, peraltro sinora non troppo frequentati dagli studio- si: penso qui alla storia dell'istruzio- ne in Italia prima e dopo la riforma Gentile, agli sviluppi della cultura tecnica e della ricerca scientifica fra guerra, fascismo e postfascismo, ai mutamenti nella propensione dell'in- dustria all'innovazione tecnologica — dalla mobilitazione a fin bellici del '15-T8 al "miracolo" degli anni '60 — o ancora alle trasformazioni subite lungo i decenni dalla profes- sione e dal ceto degli ingegneri in un contesto sociale sempre più ricco di sollecitazioni e di opportunità. Su tutto questo — dicevo — non man- cano per il lettore numerosi motivi di interesse, anche se la varietà dei temi e l'eterogeneità degli autori rende a volte evidente una certa qua] sfasatu- ra fra i contributi più elaborati e complessi, ma concepiti per forza di cose "dall'esterno", degli storici di mestiere e quelli più unilaterali e "in- terni" di studiosi di materie tecniche o degli stessi professori del Politecni- co, chiamati a ripercorrere il passato della propria disciplina o del proprio laboratorio. In primo piano dunque troviamo nel libro le vicende dell'istituzione e le tappe essenziali del suo sviluppo; possiamo ad esempio notare la conti- nuità con cui si mantiene nel corso del tempo la composizione sociale nettamente privilegiata degli studen- ti, fino alla svolta verso l'università di massa alle soglie degli anni '60; possiamo cogliere l'importante cesu- ra costituita dalla riforma Gentile, in un ambito però, come quello del- l'istruzione tecnica, piuttosto refrat- tario alle idee del ministro filosofo. Ci viene descritto il rigidissimo ordi- namento imposto ai politecnici nel '35 — infatti da allora soltanto una legge avrebbe potuto introdurre an- che solo piccole modifiche — desti- nato a pesare fino a tutti gli anni '50, quando unicamente la sensibilità e l'inventiva degli amministratori avrebbe poi consentito alla scuola di Milano di sfruttare i ristretti margini residui di autonomia per rispondere con una didattica adeguata alle nuo- ve esigenze del mercato degli inge- gneri; è infine ci è dato comprendere il senso dei provvedimenti legislativi del 1960 intesi a ridisegnare in una forma meno antiquata il piano di studi, sempre però all'insegna di un rigido controllo da parte degli orga- ni centrali dell'amministrazione statale. In un tale contesto viene a deli- nearsi l'immagine di un Politecnico fino agli anni '20 ancora poco impe- gnato nella ricerca e quindi orientato alla formazione non tanto di inge- gneri innovatori, quanto invece di tecnici buoni conoscitori delle regole della progettazione già da altri — magari all'estero — codificate con precisione. Emerge altresì il quadro di un istituto di istruzione superiore comunque segnato, anche negli anni della maturità, quando i suoi labora- tori arrivano a produrre risultati scientifici di rilievo, da una persi- stente vocazione agli studi applicati- vi più che non a quelli teorici o "di base", tanto da suscitare prima di tutto negli studenti l'impressione di una preparazione finalizzata stretta- sempre meno ristretti di una scuola di rilievo ormai nazionale. Né quei rapporti tendono ad allentarsi con il passare degli anni: oltre la fase del- l'autarchia, sulla quale i giudizi espressi nel libro oscillano fra le due opposte interpretazioni — occasione positiva per lo sviluppo di nuove ri- cerche o momento di stallo e di spre- co di risorse —, e oltre la guerra, il testimone sembra passare dalle mani dell'industria elettrica a quelle del- l'industria chimica e dei combustibi- li, dall'Edison alla Montecatini, al- l'Agip e all'Eni, in sintonia con le ge- nerali trasformazioni dell'economia italiana. Ma l'aspetto forse più interessan- te del libro è quello relativo al rap- do ancoraggio fra il regime e una scuola di ingegneria ben inserita nel sistema di potere dominante; infine, i primi sintomi — anche in alcuni at- teggiamenti dello stesso Fantoli, ma a maggior ragione, poi, sotto la dire- zione Cassinis — di un distacco di professori e studenti dal fascismo in nome di valori per troppo tempo cal- pestati o anche di una riscoperta estraneità della cultura tecnica ai condizionamenti della politica. E qui giungiamo alla questione più controversa affrontata dal libro: quanto e come l'universo e la cultura dei tecnici lombardi — e in genere italiani — si siano lasciati irretire dai modelli ideologici, dalle lusinghe, dai vantaggi concreti e dai ricatti del po- a una logica di status, a un 'adesione acritica a va- lori di tipo aristocratico, ma aveva serie ragioni economiche, facilmente leggibili se si ridisegna il ventaglio delle opzioni possibili per gli imprendi- tori piacentini. Che non erano i vincoli culturali ad ostacolare la diffusione delle innovazioni, ma la struttura del mercato e la difficoltà delle infor- mazioni che producevano incertezza e quindi scarsa propensione al rischio. Gli imprenditori piacentini non avevano alcun motivo per seguire strade che rischiavano di condurli sul lastrico, se la strada vecchia dava risultati non ottimali ma discreti. L'ottimo è, secondo Simon, autore am- piamente citato nel libro, del tutto relativo al contesto e agli obiettivi del soggetto. Il secondo passaggio cruciale prende in consi- derazione lo sviluppo della fase innovativa, verso la fine del secolo. Come, in una struttura simile, può prendere avvio e consolidarsi un'agricoltura tecnologicamente avanzata? Anche in questo ca- so la spiegazione è originale. In contrapposizione con l'idea di innovazione come atto solitario e dirompente rispetto alla routine, essa emerge in- vece in stretta connessione con le reti sociali tra- dizionali attraverso cui si diffonde e si consolida. Con grande maestria Banti individua il gruppo che si fa promotore della formazione del sindaca- to, elemento centrale per combattere l'incertezza del mercato e propulsore principale delle innova- zioni tecniche. Vengono sapientemente ridise- gnate le reti di relazione attraverso cui si forma e si consolida, tra parentela, amicizia e affari. Po- litica ed economìa si intrecciano lungo la trama di rapporti fluidi all'interno dei quali è possibile rintracciare alcune cristallizzazioni e individuare i personaggi da cui si irradiano ifilisociali. Viene così empiricamente definito lo strato attraverso cui si diffondono le informazioni, il gruppo più attivo nel proporre canoni organizzativi e inno- vazioni tecniche. Di nuovo il dato empirico con- traddice immagini comuni nel paradigma storio- grafico: è un gruppo di nobili non titolati, per ra- gioni che qui sarebbe troppo lungo riportare, a farsi portatore di organizzazione, di innovazione tecnica e insieme dì valori moderni, 'borghesi'. Il cammino del libro si snoda "attraverso una serie di argomentazioni logiche selettive", come fa notare Raffaele Romanelli nell'introduzione, che rendono manifesti i percorsi della ricerca. I modelli delle scienze sociali che spaziano dalla microeconomica alla sociologia all'antropologìa alla psicologia dei gruppi, servono a Banti per dialogare con i documenti, per sottoporre a veri- fica ipotesi, smontare un modo di fare storia che privilegia descrizione e deduttivismo insieme. La dilatazione, a volta persino ossessiva, dell'uso della strumentazione teorica si giustifica con la sua applicazione a un metodo induttivo. Molto selettivamente Banti si rifà a quel ramo delle scienze sociali che privilegia l'indagine empirica e l'analisi relazionale, il cui punto focale dì os- servazione è l'individuo. Un metodo di lavoro che si rivela particolarmente adatto ad analizzare la formazione di uno strato sociale nuovo che si va costituendo dalla scomposizione e dalla ri- composizione di gruppi diversi e di cui sarebbe assurdo definire aprioristicamente valori e com- portamenti unitari. mente alla professione, senza il respi- ro e le aperture offerte in altri poli- tecnici come ad esempio in quello di Torino. Oltre che per la riforma, gli anni '20 appaiono come un importante momento di svolta anche su un altro versante: quello dei rapporti con l'in- dustria. La nascita nel '25 della Fon- dazione Politecnica su iniziativa in primo luogo di Giacinto Motta segna l'acquisita capacità dei privati di so- stenere, piegandola almeno in parte ai propri fini, un'istituzione sempre a corto di finanziamenti statali. E non a caso è l'industria elettrica — la più portata verso l'innovazione e la più ricca di capitali in quegli anni — a investire, almeno in un primo tem- po, le risorse maggiori nel tentativo di fare del Politecnico un buon vi- vaio di giovani tecnici e un attrezza- to laboratorio per utili ricerche speri- mentali; anche se ben presto i rap- porti con l'industria si fanno via via più diversificati, data anche la strut- tura molto articolata dell'apparato produttivo lombardo e gli orizzonti porto fra il Politecnico di Milano e il mondo della politica fra le due guer- re. Attraverso i contributi dei diversi autori si può seguire un percorso tut- t'altro che lineare: ad un estremo, la cacciata nel 1915 ad opera di accesi manipoli di studenti nazionalisti del professor Abraham in quanto tede- sco e, all'estremo opposto, l'allonta- mento nel '38, fra gli altri, del pro- fessor Mario Giacomo Levi in quan- to ebreo. In mezzo vediamo scorrere prima la presenza attiva delle squa- dre fasciste, reclutate fra i futuri in- gegneri negli anni intorno alla marcia su Roma, e la chiamata, nel '25, del professor Belluzzo al dicastero del- l'Economia Nazionale e a quello del- l'Educazione, a qualificare in senso tecnocratico la politica dei governi di Mussolini nel corso degli anni '20; più tardi la progressiva marginalizza- zione di Milano e del suo Politecnico ad opera di una Roma politica sem- pre meno tecnocratica e sempre più imperiale e, nel contempo, presso la nuova sede di Città Studi, lo svolger- si fattivo della direzione Fantoli, sal- tere. Al Politecnico di Milano i corsi di italianità e di cultura militare, pur impartiti con solerzia, furono fre- quentati con pigrizia dagli allievi e guardati con sufficienza dalla gene- ralità dei docenti; in compenso le aperte professioni di fede nazionali- sta, i segni di esplicita approvazione di fronte alle realizzazioni tecniche del regime, il sostegno convinto e tal- volta scientificamente motivato al- l'impresa etiopica e alle scelte autar- chiche erano atteggiamenti assai fre- quenti e diffusi, tanto forse da suf- fragare l'ipotesi — avanzata con cautella da Roberto Maiocchi — che, invece di affievolirsi, nel corso degli anni '30 la palese consonanza fra il sentire di molti ingegneri e di molti professori e le idee e le iniziative del regime abbia teso a rafforzarsi. 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