in. 2 pag. 10 ■ dei libri del mese! _Da Tradurre_ Perché gli americani non votano di Arnaldo Testi Frances Fox Piven, Richard A. Cloward, Why Americana Don't Vo- te, Pantheon Books, New York 1988, pp. 324, $ 19.95. Alla vigilia delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, il "New York Times" pubblicò un edi- toriale dal titolo drammatico: Half a Democracy, una democrazia dimez- zata. Oggetto della riflessione era una débàcle annunciata: secondo i sondaggi, era possibile che meno del- la metà della popolazione in età di voto si presentasse effettivamente ai seggi elettorali. Negli stessi giorni, in un'inchiesta sullo stesso argomento, il "Washington Post" raccolse l'opi- nione di Richard A. Cloward, socio- logo della Columbia University. Se- condo Cloward, "gli esperti si arro- vellano per cercare di spiegare la ca- duta della partecipazione elettorale, ma la questione più importante è un'altra: Perché la campagna eletto- rale è così insipida? Perché i partiti politici si comportano in questo mo- do? Perché non ci sono candidati che parlano alla gente e ai suoi bisogni? La questione vera è: Che cosa è suc- cesso alla vita politica americana che ha fatto sì che le competizioni eletto- rali siano gestite in questo modo?". Il lamento è ricorrente, rituale: un omaggio dovuto alla tradizione de- mocratica, che vede nell'esercizio del diritto di voto l'affermazione più simbolicamente rilevante dell'egua- glianza politica. Ma si tratta vera- mente di un lamento? In realtà la cul- tura americana si è profondamente divisa sul significato del non-voto. Le opinioni contrapposte, che sono divenute classiche, sono state artico- late nel 1960 da due autorevoli poli- tologi. Seymour Martin Lipset ha of- ferto la diagnosi ottimistica, rassicu- rante, e più diffusa: "è possibile che il non-voto sia oggi, almeno nelle de- mocrazie occidentali, un riflesso del- la stabilità del sistema", una prova della fondamentale soddisfazione dell'elettorato rispetto allo stato del- le cose, una manifestazione della po- li tics of happiness. E.E. Schattsch- neider ha proposto una diagnosi cri- tica e preoccupata, rimasta minorita- ria: che tanti adulti non sentano il bisogno di votare è il fatto politico più caratterizzante del regime, e im- pone un riesame complessivo; quella massa enorme di non-votanti ne co- stituisce "il ventre molle". L'asten- sionismo, secondo Schattschneider, riflette la soppressione di opzioni si- gnificative per coloro che non parte- cipano; la radice del problema va ri- cercata nel modo in cui le alternative politiche sono organizzate e presen- tate al pubblico. La contrapposizione è netta, e ri- flette due modi diversi di concepire il ruolo della partecipazione di massa in tutte le sue forme (non solo in quella elettorale) in un regime demo- cratico. Queste concezioni sono sta- te al centro del dibattito sulla crisi delle democrazie liberali negli anni settanta. Troppa partecipazione non manda forse in tilt il sistema, "so- vraccaricandolo" di domande che non possono essere, tutte, soddisfat- te? Questo si chiesero i critici conser- vatori degli "eccessi" degli anni ses- santa; e risposero che una democra- zia funzionante si fonda in realtà su qualche misura di apatia. Cloward e Frances Fox Piven (docente di scien- ze politiche alla City University di New York) assumono la posizione esattamente opposta. L'apatia auspi- cata, sostengono, non è socialmente neutra, ma stratificata per classe: è quella delle aree più povere, meno privilegiate. In questo contesto, una "democrazia funzionante" implica l'esclusione sistematica delle loro vo- ci e dei loro interessi dal dibattito po- litico, dalla allocazione delle risorse pubbliche, dalla redistribuzione del reddito. Secono Cloward e Piven, il sistema politico americano è esplici- tamente costruito per garantire que- sta esclusione, per scoraggiare la par- tecipazione attiva dei "gruppi al fon- do della società". Dei movimenti sociali di protesta Cloward e Piven si occupano da oltre vent'anni come studiosi, oltre che in alcuni casi, come organizzatori impe- gnati. Autori, noti anche in Italia, di importanti saggi di sociologia politi- ca radicai come Regulating the Poor: The Function of Public Welfare (Pan- theon Books, 1971), e Poor People's Movements: Why They Succeed, Why They Fall (Pantheon Books, 1977), essi hanno sempre sostenuto che i "movimenti dei poveri" hanno "successo" proprio in quanto escono dai confini delle procedure elettorali. Anzi: quelle procedure tendono a li- mitare la portata dei movimenti stes- si, a ridurne le opzioni a quelle offer- te dai partiti principali, a indebolirne la solidarietà interna, a distrarre i mi- litanti. Perché allora tanta enfasi, in questo libro più recente, sulla politi- ca elettorale? Si sono forse "ammor- biditi?" Oggi, dicono, la questione appare più complessa. La cultura po- litica democratica connessa alle ele- zioni trasmette comunque valori po- sitivi: incoraggia la protesta popola- re, affermando la possibilità del cam- biamento. Inoltre i movimenti "vincono" quando incidono sull'are- na elettorale, politicizzando la parte- cipazione e conquistando qualche forma di influenza sugli eletti. Negli Stati Uniti la scarsa affluenza alle ur- ne indebolisce il rapporto comple- mentare fra politica elettorale e mo- vimenti di protesta, e crea un am- biente ostile a un loro efficace dispie- garsi. In effetti, tutte le analisi confer- mano che gli Stati Uniti sono l'unica importante nazione democratica in cui i meno abbienti sono sostanzial- mente sotto-rappresentati nell'elet- torato. Il non-voto, pur presente in tutti gli strati sociali, è radicato in maniera non proporzionale fra i più poveri, i più giovani, i meno istruiti; che proprio fra di essi debbano anni- darsi i cultori della "politica della fe- licità" è per lo meno un paradosso che deve essere spiegato. La situazio- ne è paradossale anche per un altro verso: dato l'aumento costante nel- l'ultimo secolo sia dei livelli di reddi- to e di scolarizzazione sia dell'età media della popolazione, l'affluenza alle urne avrebbe dovuto crescere, non diminuire. Ma proprio questo è accaduto. Per tutto l'Ottocento, al- meno dagli anni trenta in poi, quan- do si formò il primo sistema di partiti basato sul suffragio universale (bian- co, maschile), la partecipazione coin- volse l'intera cittadinanza, con tassi elevatissimi che spesso superavano, alle elezioni presidenziali, la soglia dell'80% sul piano nazionale, e pote- vano toccare quella del 90% negli stati del nord più sviluppati politica- mente. Fu intorno al 1900 che la ten- denza si invertì e portò rapidamente alla demobilitazione del primo dopo- guerra (circa il 50%) e — dopo la ri- presa dell'età del New Deal (poco più del 60%, in alcuni anni) — ai minimi attuali, esprimendo anche un eletto- rato con un distinguibile pregiudizio di classe. Anche se si assume che il non-voto non è un indicatore univo- co del grado di legittimazione del si- stema politico, è chiaro che esso si presenta comunque come un proble- ma quando tende ad aumentare. Sembra questo il caso italiano nelle ultime tornate elettorali; e va sottoli- neato che anche nel nostro paese stanno emergendo giudizi "norma- lizzanti" che collegano astensioni- smo e "maturità" della democrazia. E sicuramente il caso degli Stati Uni- ti all'inizio del secolo: come ciò sia potuto accadere, e perché proprio al- lora, è a questo punto la domanda cruciale. Piven e Cloward, affidan- dosi ad una vasta e crescente lettera- tura storica e politologica, vedono in quegli anni una profonda trasforma- zione qualitativa del sistema politico americano. Ecco il nocciolo duro del- la trasformazione: la fuoriuscita dal- l'universo elettorale dei cittadini ap- partenenti alle classi popolari avven- ne nel momento in cui le possibilità della politica elettorale stavano espandendosi; nel momento in cui la crescita dei movimenti sindacali da una parte, e del welfare state dal- l'altra arricchivano i diritti della cit- tadinanza politica di una connotazio- ne economica e sociale che non ave- vano avuto in precedenza. La promo- zione di un universo elettorale ristretto fu la reazione di gruppi di élite, oligarchici, efficientisti, "mo- dernizzanti", a una crescente in- fluenza popolare nella vita pubblica. Non di fuoriuscita si trattò, quin- di, ma di espulsione: proprio mentre in vari paesi europei i lavoratori sta- vano conquistando il suffragio, e in alcuni diventavano dei contendenti rispetto al potere. Il politologo Wal- ter Dean Burnham aveva già sottoli- neato (nel suo The Current Crisis in American Politics, Oxford Universi- ty Press, 1982) questi andamenti in- crociati della partecipazione fra le due sponde dell'Atlantico. Piven e Cloward, che alle ricerche di Burn- ham sovente si ispirano, radicalizza- no il discorso, collegandolo a quello annoso, del "Perché non c'è il socia- lismo negli Stati Uniti?". Secondo questi studiosi proprio la demobilita- zione della classe operaia spiega, al- meno parzialmente, sia il mancato sviluppo di un partito di tipo laburi- sta, analogo a quelli europei, sia il ca- rattere aspramente individualista, ostile allo stato sociale, della cultura politica del paese. Il fatto è, conclu- dono, che "gli Stati Uniti, nel vente- simo secolo, non sono stati una de- mocrazia, nel senso elementare di un reale suffragio universale". Riassunte in questi termini, tali ipotesi possono apparire crude e "co- spirative", senza dubbio le pagine del libro sono ricche di analisi più so- fisticate e dettagliate. I partiti di massa, che nell'Ottocento avevano occupato la società civile e lo stato come un "esercito permanente", do- po la svolta del secolo entrarono in una fase di declino, che li privò di molta della loro capacità di mobilita- re l'elettorato. Il loro interesse alla mobilitazione diminuì quando, a un periodo di accesa competività, che aveva fatto sì che le contese elettorali fossero combattute fino all'ultimo La partecipazione elettorale negli Stati Uniti Elezioni presidenziali, 1824-1988 «MN>w*»-rininN>»oN>r-f~5Sa><»ff>(j'5oo.— NNNnn . . (S CD CO 03 CD 03 CD CO 03 CD G3 CD 09 (X) OD CD CD CO 03 Co cn et* (T* OS (t> Q\ <7* 0"* IT» (f OOTONiOOTO) ft so «o o r» r». a> co cd n w 0* OS OS <7* CTS (7* "Un operaio del braccio" di Enzo Santarelli Misato Toda, Errico Malatesta da Mazzini a Bakunin. La sua formazione giovanile nell'am- biente napoletano (1868-1873) presentazione di Alfonso Scirocco, Guida, Napoli 1988, pp. 149, Lit 28.000. Da Mazzini a Bakunin: il titolo riecheggia il Mazzini e Bakounine di Nello Rosselli, che vi- de la luce nel 1927, e che probabilmente influen- zò in qualche modo la scelta del nome (da un 'as- sociazione e da una testata partenopea del 1867) per il gruppo antifascista "Giustizia e Libertà". Con quel titolo si era ai primi passi della storio- grafia filologicamente fondata sul movimento operaio e socialista. Da allora rimase definitiva- mente assodato che se da Napoli si intrecciò un precoce discorso tra Carlo Cafiero e Engels, il rapporto con l'Intemazionale affondava le radici nell'intellettualità democratica postunitaria di tendenze radicalrivoluzionarie. I biografi, a cominciare da Max Nettlau, e gli studiosi che alla caduta del fascimo ripresero le ricerche sulle origini del socialismo in Italia, Al- do Romano per primo, della giovinezza di Mala- testa hanno detto cose assai vaghe, ripercorrendo in sostanza la memoria collettiva del movimento e qualche spunto autobiografico. Eppure si tratta di un passaggio di tutto rilievo, in quanto su di esso si fonda l'opzione per il bakuninismo di un giovane meridionale che in seguito rappresenterà per oltre mezzo secolo la tradizione anarchica, dissentendo dalla "svolta" socialista di Andrea Costa. Non a caso Scirocco sottolinea il signifi- cato di una importante lettera inedita di Giusep- pe Mazzini del 15 giugno 1871, che sta a testimo- niare la rapidità con cui si compie il salto di tanti giovani dal repubblicanesimo a nuove posizioni rivoluzionarie, sotto l'influenza della Comune. Arrestato una prima volta a quattordici anni, nel 1868, per la vicenda di una lettera "sov- versiva" incautamente inviata a Vittorio Ema- nuele II, Errico fu introdotto dal fratello maggio- re nel movimento studentesco legato all'Univer- sità di Napoli e nella cerchia del mazziniano Giorgio Imbriani intomo al 1869. Sono dettagli ed episodi inediti o malnoti o sconosciuti, il cui svolgimento viene attentamente ricostruito. Ma le acquisizioni più notevoli del libro riguardano la formazione politico-culturale, che avviene nelle discussioni fra studenti e operai: "E interes- sante notare che Errico Malatesta cominciò la sua carriera rivoluzionaria come maestro della scuola dell'Intemazionale per i figli di operai ed analfabeti adulti, e che il primo incarico fu quel- lo di tesoriere per la scuola, un incarico serio e poco appariscente". Di qui, si può aggiungere, il tono pedagogico del suo comunismo anarchico, a cui tenne fermo per tutta la vita. Come segreta- rio della Federazione Operaia Napoletana fu an- zi per alcuni mesi al centro dell'organizzazione di diverse centinaia di operai e artigiani parteno- pei. Un'ultima osservazione perspicua dell'auto- re è che l'anarchico italiano prende forma all'e- poca della Comune di Parigi e del movimento russo dell'"Andare verso il popolo". In questo senso "non apparteneva più alla generazione di Mazzini e Bakunin, bensì a quella del populismo nel senso ampio della parola". Abbandonati gli studi, divenne egli stesso "un operaio del braccio". Il suo vincolo di ferro con l'anarchismo di- scendeva, invece, dall'affiliazione all'Alleanza Socialista Rivoluzionaria, che lo stesso Bakunin chiamava "Organizzazione Ipsilon", i cui "fra- telli intemazionali" si contarono in Italia sulle dita di una mano: Cafiero, Costa, Nabruzzi, Fa- nelli e lo stesso Malatesta.