N. 8 pag. 15 i Il Libro del Mese ARMANDO EDITORE ■221533 Desiderio d'incanto di Maria Luisa Pesante che permette a Bauman di saldare in un unico discorso la tradizione più autentica del conflitto operaio con i nuovi movimenti e le tematiche più attuali (dall'ecologismo al nuovo ter- zomondismo). Ma che lascia, in fon- do, a chi l'ha seguito fino ad ora, un po' l'amaro in bocca. O comunque qualche curiosità insoddisfatta. Di quella vicenda avvincente circa i de- stini della "forma merce", sempre in procinto di essere negata dal lavoro vivo e di erodere così alle radici il pilastro del "potere disciplinare", che ci aveva tenuti in sospeso fino al quinto capitolo, che ne è? Questa classe operaia (certo sfidata dall'at- tuale ristrutturazione, e privata della parola se non dello stesso linguaggio dalle logiche consensuali del neocor- porativismo), che scompare come un fiume carsico per lasciar ricompa- rire, qualche pagina a valle, il riga- gnolo dell'emarginazione; questo personaggio-chiave della Grande Narrazione di Bauman, manca in qualche modo, di un degno finale. Se è morto, come è morto? E se non è morto, quale ne è il destino? In fon- do, perché la memoria, così potente, e radicale, quando si trattò del pas- saggio, alla modernità, non potrebbe giocare un ruolo conflittuale anche in questo crepuscolo del mondo mo- derno, e generare nuove identità col- lettive anche al centro dell'impero? O, nell'universo post-moderno, la memoria — per usare il linguaggio- macchina — non può che essere "pe- riferica"? L'invenzione della tradizione, a cura di Eric J. Hobsbawm e Te- rence Ranger, Einaudi, Torino 1987, ed. orig. 1983, trad. dall'in- glese di Enrico Basaglia, pp. 295, Lit. 30.000. Il volume, pubblicato in Inghilter- ra nel 1983, è composto di sette sag- gi, frutto di un convegno organizza- to da "Past and Present". Ai due sag- gi di Hobsbawm (quello introdutti- gno manipolatorio e la valenza poli- tica di questi processi restano secon- dari per lo storico, trattati con ironi- ca leggerezza da Trevor-Roper e da Morgan con distaccata simpatia per il bisogno della ragione povera ed emarginata di inventarsi miti, dai druidi al nuovo Galles radicale e non conformista: più o meno simpatici impostori, falsi eruditi, avventurieri — se non onesti — innocui. Ma nel caso indiani analizzato da Cohn e nell'Africa di Ranger si trat- facile. Sono noti i disastri prodotti nell'agricoltura indiana dell'Otto- cento dalla ristrutturazione dei rap- porti agrari condotta dagli inglesi nel presupposto che gli indiani si trovassero in quella fase della loro storia in cui si trattava di creare la gentry. In questo volume Ranger in- siste sul fatto che le consuetudini lo- cali che vengono inventate per le so- cietà africane sono modelli rigidi che ordinano in maniera univoca le identità multiple e le situazioni flui- de, caratterizzate da processi di di- spersione e assimilazione che erano state tipiche del periodo pre-colonia- le: le tribù africane, il consenso col- lettivo, il predominio degli anziani sono una costruzione tardo-ottocen- Quel che resta del passato di Alfredo Salsano Maurice Halbwachs, La memoria colletti- va, Unicopli, Milano 1987, ed. orig. 1968, trad. dal francese a cura di Paolo Jedlowski, postfazione di Luisa Passerini, pp. 195, Lit. 20.000. "La memoria collettiva è il ricordo, o l'insie- me dei ricordi, coscienti o no, di una esperienza vissuta e/o mitificata da una collettività viven- te della cui identità fa parte integrante il senso del passato" (P. Nora). La definizione, adottata dalla cosiddetta nouvelle histoire, discende di- rettamente dall'opera di Maurice Halbwachs (1877-1945), che del resto fu vicino a L. Febvre e M. Bloch all'epoca della fondazione delle "An- nales". Il libro ora tradotto in italiano fu pub- blicato postumo nel 1950, ed è il punto di arri- vo di una riflessione che si potrà trovare analiz- zata e discussa nel recentissimo Mémoire et société di G. Namer (Klincksieck, Paris 1987). Questa riflessione muove dalla problematica delle rappresentazioni collettive di Durkheim ed è nello stesso tempo, come sottolinea P. Jed- lowski nell'introduzione, uno sforzo per fare i conti con Bergson, che di Halbwachs fu professo- re al liceo Henri IVsolo pochi anni prima della pubblicazione di Matière et mémoire (1896). In effetti, Halbwachs capovolge completamente la concezione di Bergson per cui le immagini degli avvenimenti trascorsi sono raccolte inte- gralmente nella parte inconscia del nostro spiri- to: alla memoria come funzione psicologica del singolo individuo, egli contrappone la memoria collettiva — la memoria del gruppo — come "il quadro che consente il funzionamento della me- moria del singolo". Si capisce l'interesse di queste posizioni per gli storici sociali, e in particolare per gli studiosi di storia orale, peraltro tentati, come L. Passeri- ni nella postfazione, di sviluppare la concezione di Halbwachs riprendendo spunti del pensiero di Jung giustamente giudicati più vitali dell'i- postatizzazione dell'inconscio collettivo, quale il concetto di individuazione ("le riorganizza- zioni della memoria collettiva di cui parlava Halbwachs sono in ultima analisi frutto del lavoro di individuazione"). Ma forse ancora più interessanti sono proprio i limiti del pensiero di Halbwachs che spingerebbero piuttosto in altra direzione, soprattutto perché non si può certo dare per risolto il problema dei rapporti tra "memoria collettiva e memoria storica" (cap. II). Per Halbwachs, la memoria collettiva è quel che resta del passato vissuto dei gruppi, e cessa con essi; la memoria storica comincia nel mo- mento in cui la memoria sociale si estingue. Pertanto, mentre ci sono più memorie colletti- ve, la storia è una. E chiaro che egli si riferiva a una storia narrativa poi superata dalla storia- problema; ma la questione resta mal posta. Vi- sta come memoria degli storici, e dei loro letto- ri, anche la vecchia storia narrativa è moltepli- ce; d'altra parte, com'è noto, la nouvelle histoire ha recuperato la narrazione... Proprio la lettura del libro di un sociologo come Z. Bauman, non accaso autore anche ai Hermeneutics and So- cial Science (Hutchinson, London 1978), forni- sce in proposito un ottimo terreno di discussio- ne: trattandosi di "memorie di classe", il livello pertinente non è certo quello del rapporto tra memoria individuale e memoria collettiva, ma quello dell'analisi dei linguaggi che di volta in volta esprimono dei rapporti tra gruppi. E l'uso dello stesso termine concettualizzato nei discorsi sindacali, politici, sociologici ecc. pone problemi di interpretazione che non hanno più niente a che fare né con la memoria collettiva né con la storia narrativa. vo su "come si inventa una tradizio- ne" e quello conclusivo su tradizioni e genesi dell'identità di massa in Eu- ropa) si affiancano due saggi sulle tradizioni inventate della frangia cel- tica dell'Inghilterra, Galles e Scozia; due saggi sull'uso politico della tradi- zione i aue contesti di dominio colo- niale, India e Africa; e un'analisi del- l'invenzione dei rituali monarchici e imperiali inglesi a partire dagli anni '80 dell'Ottocento. Questa classifica- zione dei saggi per contenuto non dà però ragione né della diversità dei problemi affrontati dagli autori, né del diverso senso in cui essi di fatto o esplicitamente intendono l'inven- zione di tradizioni come problema storico. Trevor-Roper e Morgan compiono in sostanza un disvela- mento — o una ricostruzione, se si preferisce — dell'imbroglio e dell'au- to-inganno attraverso cui, dall'in- venzione del gonnellino scozzese al- la riscoperta dei celti, vengono co- struite tra fine Settecento e Ottocen- to identità culturali regionali ai mar- gini del centro dell'impero. Il dise- ta invece di un preciso e mirato uso di tradizioni inventate per governare le società locali. Ciò che i dominato- ri si inventano è in primo luogo il passato-presente delle società domi- nate. Si potrebbe dire che questa è una conseguenza quasi inevitabile della scelta di costruire il governo dell'impero principalmente come indirect mie. Gli inglesi — perché soprattutto di loro si tratta, ma per il caso africano anche i tedeschi — de- vono identificare un linguaggio poli- tico e una convenzione sociologica attraverso cui comunicare con i pro- pri sudditi stranieri. La via che si presentò come più ovvia fu quella di attribuire alle società indiane e afri- cane un passato — su cui si vedeva irrigidito il presente — in qualche modo analogo al passato delle socie- tà europee, esprimibile nelle catego- rie che proprio allora si stavano co- struendo per interpretare questo passato. Questo rendeva la comuni- cazione amministrabile, e la strada del mutamento-progresso pre-trac- ciata e identificabile, anche se non tesca, che si completa e raggiunge il suo culmine negli anni '20 e '30 del Novecento. "La reificazione colo- niale della consuetudine locale pro- dusse una situazione assai diversa da quella pre-coloniale. Al libero flusso pre-coloniale degli uomini e delle idee si sostituì una società locale, mi- crocosmica, condizionata dalla con- suetudine" (p. 244). Chiunque abbia ascoltato autorevoli intellettuali del- lo Zimbabwe dichiarare agli intervi- statori della televisione inglese che l'idea di Mugabe di istituire il partito unico è ottima perché corrisponde alle vecchie tradizioni africane capi- rà il senso dell'invito di Ranger agli storici, e a quelli africani in partico- lare, ad "affrancarsi dall'illusione che la consuetudine africana registrata dagli amministratori e da molti an- tropologi possa fornire la benché minima indicazione sul passato del- l'Africa" (p. 251). Per l'India Cohn ha scelto di con- centrare l'attenzione sull'Assemblea imperiale del 1877, un caso emble- matico di rappresentazione rituale dell'autorità. Il rito, che nel saggio di Ranger è una parte del complesso sistema di interazione reale tra do- minati e dominatori, diventa qui il tema emblematico dell'invenzione della tradizione, e tale è anche nei saggi di Hobsbawm di Cannadine. Che cosa ci spiega l'analisi del rito? Nel saggio di Cohn assai poco: il rito è analizzato come espressione delle intenzioni politiche degli ammini- stratori inglesi — e in particolare del viceré Lord Lytton — e della socio- logia dell'India che essi avevano in mente. Ma la dinamica del rito è mu- ta; la sua interpretazione deriva inte- ramente dalla consueta documenta- zione scritta — dispacci ufficiali e corrispondenze. Né viene detto nul- la sulla reazione dei diversi gruppi indiani coinvolti nella cerimonia. Cannadine è molto chiaro sul come sono stati costruiti i rituali della mo- narchia inglese, assai reticente sul perché. Con un po' di esagerazione si potrebbe dire che dimostra in ma- niera assai convincente che "il mille- nario cerimoniale" della monarchia inglese è un'invenzione dei media di oggi, non che Elgar cercasse di far credere che Land of Hope and Glory fosse un'antica melodia sassone; né quali interessi e bisogni fossero die- tro la nuova cerimonialità. L'invenzione della tradizione ap- pare qui in una luce ambigua. La tra- dizione non è inventata nel senso che venga attribuita a un passato di- menticato e riscoperto, ma nel senso che si costruisce un nuovo rituale — in buona parte riconosciuto come nuovo — il quale, in quanto rituale, viene inteso dallo storico come dota- to di senso solo in una prospettiva di continuità. "Per ' tradizione inven- tata' si intende un insieme di prati- che, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o sim- bolica, che si propongono di inculca- re determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle qua- li è automaticamente implicita la continuità col passato" (p. 3). Queste tradizioni inventate, moderne, sono un fatto ideologico e vanno netta- mente distinte dalle vecchie consue- tudini, che erano un fatto tecnico (p. 4). Il tema che quindi sembra dare il tono generale al volume, e che è cen- trale nei saggi di Hobsbawn e Can- nadine, è la domanda sul come e per- ché il mondo moderno ha bisogno di inventarsi tradizioni in forma di rituali. Se nel caso del rapporto tra europei, indiani e africani il ricorso a un linguaggio del passato ha a che fare con una convinzione più o me- no manipolata di trovarsi di fronte a un passato sopravvissuto nel presen- te, o a un presente estraneo, ma tra- ducibile nei termini di un proprio presunto passato, come si spiega il travolgente desiderio dei moderni di fondare tradizioni, non appena libe- ratisi dalla crosta della consuetudi- ne? Il libro è percorso da due rispo- ste implicite a questa domanda. Una risposta è che tutto questo ha a che fare — oscuramente — con naziona- lismo e democratizzazione: oscura- mente perché a questo nesso si allu- de come a un fatto ovviamente espli- cativo, ma esso non viene mai af- frontato. La seconda risposta è che l'invenzione della tradizione comin- cia una volta superata la soglia della modernità perché il mondo moder- no non è esattamente ciò che appare. Il disincanto non è facile da reggere, ma, soprattutto, forse non è cosi ob- bligato come ci è stato detto. Ci so- no ancora molti incanti disponibili, e molti uomini desiderosi ai incan- tarsi. E un peccato che questo tema generale costituisca più l'atmosfera intellettuale che viene data per scon- tata nel volume, che non un proble- ma discusso apertamente. Altrimen- ti forse sarebbe stato posto con più impegno il probema della fatuità del- le attività in cui è ancora consentito inventarsi incanti, mentre per il re- sto della vita vale sempre la gabbia di ferro.