_L'Intervista_ Fo politico in America L'arrivo di Dario Fo negli Stati Uniti nel 1984 è stato un avvenimen- to clamoroso. Il governo degli Stati Uniti, dopo anni di ostinato rifiuto, era infatti costretto dalle richieste e dalle proteste che si levavano dagli ambienti teatrali e intellettuali del paese a concedere all'attore il visto di ingresso. Le prime esibizioni di Fo ebbero, com'è noto, un grande succes- so, mentre la presenza dell'attore assu- meva ovviamente un significato poli- tico rilevante che suscitava l'interesse dei circoli radicali e della sinistra marxista. La prima e poi la seconda tournée negli Stati Uniti rappresenta- vano così per Dario Fo due importan- ti occasioni per mettere a fuoco la propria figura e spiegare la propria attività di artista impegnato a degli ambienti di sinistra molto diversi da quelli europei. Un documento interes- sante, a questo proposito, è l'intervista curata da Anders Stephanson e Da- niela Salvioni apparsa sulla rivista "Social Text" di New York (n. 16, Wìnter 1986-87), che qui riproducia- mo. (c.v.) Com'è cominciato il tuo impegno nel teatro politico? Quando Franca e io abbiamo co- minciato a fare teatro, negli anni cinquanta, avevamo già idee politi- che molto precise. Tuttavia, per ciò che si pensava allora, il nostro non era teatro politico in senso stretto perché non ci rivolgevamo diretta- mente alla classe con cui ci sentiva- mo solidali, ma alla borghesia. La nostra satira antiborghese, per lo sti- le e il linguaggio che usavamo, appa- riva comunque scandalosa, e natu- ralmente eravamo a nostra volta at- taccati. Fin dall'inizio ci furono ten- tativi di censurarci e di toglierci le sale. Qualcuno di noi era convinto che dovessimo perseverare, conti- nuando nella stessa direzione, ma io pensavo che fosse invece necessario cambiare per sfuggire alla campagna che voleva ridurci al silenzio. Cosi per un po' passammo al cinema. Cercavamo di criticare, in uno stile simile a quello di Tati, cose come il giornalismo sensazionalistico, o l'e- sigenza sfrenata della competizione e del carrierismo. Ma fu un falli- mento. Poi, all'inizio degli anni ses- santa cominciammo con le farse po- polari. Erano di uno stile più o me- no ottocentesco, ma si fondavano sulla tradizione della commedia del- l'arte. Avevamo infatti finito con il capire che non si poteva adottare uno stile moderno, come fine in sé, ma era necessario cercare le radici della nostra cultura. Non poteva- mo, insomma, riuscire a produrre niente di veramente moderno e pro- gressista senza rifarci alla tradizione della cultura popolare. E, al contra- rio dell'avventura cinematografica, il nuovo tentativo fu un successo. Però non tutto quello che appartie- ne alla cultura popolare è progressista. Credo che ciò che è autentica- mente popolare sia di per sé sovver- sivo. I temi essenziali della cultura popolare ruotano sempre intorno alla fame, alla tragedia della soprav- vivenza, al problema della dignità, della libertà. Già solo l'agitare que- sti argomenti è sovversivo. Eppure la tradizione popolare ha in sé anche elementi di sopraffazione, co- me l'asservimento della donna. È una tradizione che comprende in sé diverse componenti dialetti- che. C'è la componente educativa che cerca di contrastare la cultura egemone, e c'è la componente che potremmo chiamare "popolaresca", che si adatta invece al clima domi- nante. Così si cade spesso nell'equi- voco sul termine "popolare", e si definisce tale tutto ciò che è volgare e comune. Dobbiamo del resto rico- noscere che c'è anche una cultura di origine borghese che è in parte rivo- luzionaria e in parte reazionaria e contiene elementi misogini di op- pressione della donna. Verso lafine degli anni sessanta siete passati dal teatro istituzionale borghe- se agli ambienti della classe operaia. Cominciavamo a renderci conto che nonostante il nostro innegabile successo rischiavamo di essere tra- sformati in qualcosa di simile a un alka-seltzer, o di diventare una sorta di sauna energetica. Così abbiamo deciso di abbandonare il teatro istitu- zionale e di costruire una nostra struttura operativa. Ci siamo collega- ti a spazi proletari come le case del popolo, nate nell'ottocento come centri culturali, e poi cadute in disu- so, ridotte per lo più a sale per gioca- re a carte. Abbiamo inventato una forma di teatro adatta a questi spazi, spettacoli su argomenti controversi che suscitavano lunghe discussioni, dopo la rappresentazione. Gli argo- menti dei nostri spettacoli nascevano dalle esigenze e dai desideri che veni- vano fuori nel dibattito: la catena di montaggio, la strategia della lotta di classe, lo sfruttamento trionfalistico della resistenza da parte del Pei, e così via. In che senso tutto ciò non era più un"alka-seltzer" o un semplice tran- quillante per la classe operaia? Il lavoratore conosce cento parole, il padrone ne conosce mille. Questa è una delle ragioni per cui il padrone comanda. La cultura è un modo di dominare, e senza una cultura oppo- sta a quella egemone non ci può esse- re rivoluzione. Gramsci ci ha detto che per sapere dove vogliamo andare dobbiamo conoscere da dove venia- mo. È perciò essenziale ricuperare la nostra cultura sottraendola alle mi- stificazioni operate dal potere costi- tuito. E dobbiamo anche imposses- sarci ed estendere gli aspetti progres- sisti della cultura borghese, che sono stati almeno in parte rubati, in primo luogo, alla cultura popolare. Quali sono stati i vostri rapporti con il Pei? Quello che facevamo, e soprattut- to la risposta che ricevevamo all'in- terno della classe operaia suscitavano nel Pei perplessità. Era qualcosa che il partito non controllava, che cresce- va dal basso insieme a molti altri mo- vimenti alternativi affini a noi. Per- ciò il Pei decise di sbarazzarsi di noi, proibendoci l'uso delle case del po- polo. Naturalmente anche la polizia ci stava addosso: ed eravamo pratica- mente sempre sotto processo. Eppu- re noi continuavamo a recitare, nelle fabbriche e nelle scuole occupate, nelle piazze, nelle chiese sconsacrate, e vedendo che potevamo andare avanti anche senza di lui, il Pei ha tentato di ristabilire i rapporti. Ades- so tanto il partito quanto i sindacati ci invitano a recitare, e proprio il Pei ha organizzato il nostro spettacolo più grandioso, con un pubblico di 70.000 persone. I nostri rapporti, in altri termini, sono fluttuanti. Che posizione avete preso di fronte all'intensificarsi dello scontro politico e agli attentati fascisti alla fine degli anni sessanta? Abbiamo preso immediatamente posizione contro il meccanismo di provocazione violenta e il terrori- smo di destra sostenuto dalla compli- cità degli elementi fascisti all'interno dello stato. Tutti noi sapevamo della Loggia P2, e delle connessioni tra la polizia e i primi atti di terrorismo. Come vedi l'immediato futuro della situazione politica italiana? Bisogna sviluppare la coscienza di classe. E soprattutto bisogna rifiuta- re la politica opportunistica del Pei. Il Pei ha soffocato parecchi momenti di liberazione e di insurrezione pro- letaria quando ha creduto di avere la possibiltà di governare con la Demo- crazia Cristiana. Così sono andate perse tutte le spe- ranze della classe operaia di realizza- re un'idea politica nuova e vitale. Per una fetta ai potere il Pei ha rinuncia- to alle grandi possibilità di lotta che stavano nascendo. I giovani non so- no stati più attratti dal partito, e ri- masti senza guida hanno formato quelle bande che hanno finito con l'ammazzarsi a vicenda. Ciò ha signi- ficato di fatto far fuori tutto ciò che c'era d'importante nel movimento del sessantotto. Pensi che il Pei diventerà più sensibi- le alle richieste della base? Non senza una radicale trasforma- zione interna. E quali prospettive ci sono? Non lo posso indovinare. Tutto quello che so è che un intellettuale ha certe pratiche da seguire: mantenere un atteggiamento critico nei discorsi che svolge, cercare tutti i canali di comunicazione possibili senza però scendere a compromessi di mera spe- culazione economica, e soprattutto essere abbastanza elastico per riusci- re a vedere dove e come resistere, e a catturare i mezzi per resistere. L'occhio di Paolo Poli a cura di Claudio Vicentini Il Manuale minimo di Dario Fo può essere davvero uno strumento efficace per chi prati- ca oggi le scene e vuol diventare attore? La grandezza della figura di Fo è proprio questa: che è anche una figura di maestro. A me ha insegnato moltissimo, fin da quando l'ho conosciuto molti anni fa a Milano. Mi parlava del problema dei costi, di tutte le economie che si possono fare quando si produce uno spettaco- lo, mi spiegava come andare avanti con pochi mezzi, come moltiplicare i borderò, dove infil- zarmi, come sopravvivere. Nel Manuale minimo, però, si affrontano altri temi. Fo, riprendendo sei lezioni-spetta- colo tenute al teatro Argentina, spiega la ne- cessità di ricuperare la tradizione popolare del teatro per sviluppare un'efficace tecnica drammaturgica e recitativa. Di qui un com- plesso di consigli, regole, informazioni e sug- gerimenti rivolti agli attori. Chi vuol fare qualcosa a teatro, in realtà non cerca consigli, perché deve trovare la propria strada. Ma tutto serve. E Fo in queste lezioni- spettacolo, dove recita, e poi spiega pure come fa a recitare, è bravissimo. Si manifesta tutto, ne fa una vera e propria epifania personale. Poi anche per scritto, nel Manuale minimo, questi ammaestramenti continuano a servire, perché acquistano il prestigio della carta stampata, e ognuno li legge, e come nei vaticini della Sibilla Cumana ci può trovare tutto quello che vuole. Veniamo al problema principale: il ricupe- ro della tradizione popolare del teatro. Non si può negare che Dario Fo riesca a portare efficacemente sulla scena, scatenandone un'immediata comicità, testi che potrebbero apparirci molto lontani, e oggi del tutto inuti- lizzabili, come le giullarate medioevali. Il fatto è che questi testi se li inventa lui. Eppure Fo si mostra estremamente accura- to nel tentativo di documentarsi storicamen- te, sia sui testi che sulle tecniche della recita- zione e dello spettacolo: chiama in causa esperti e studiosi, entra in polemica con altri, e fornisce tanto di riferimenti, testimonianze e bibliografia. Certo in biblioteca si trovano molti testi, più o meno autentici, e molti dati, più o meno veri. Ma poi la pagina vive sulla scena quando se ne riappropria e la recita l'attore. Per questo non ha nessuna importanza se il testo sia autentico o no, se tutta quanta la tradizione che si rico- struisce sia o non sia finta. All'epoca di Sem Benelli nessuno si chiedeva se tutti quegli orpelli e quelle medioevalerie fossero veri o falsi, finché sembrava che funzionassero. Quando qualche anno fa ho messo in scena La cazzaria, una commedia del cinquecento, Ugo Volli si chiede- va se era proprio un'opera rinascimentale, o se non fosse piuttosto il testo di una rivista goliar- dica degli anni cinquanta. Ma appunto, che im- portanza aveva? Tutte le opere che si recitano a teatro sono dei falsi in atto pubblico, perché vivono solo nella riappropriazione dell'attore. I testi che Dario Fo recita, apparirebbero comun- que un'altra cosa, e molto meno belli, senza di lui. Così come sono un'altra cosa, e molto meno belle, tutte le commedie che ha scritto, quando non è lui a recitarle. Howard S. Becker OUTSIDERS Saggi di sociologia della devianza Introduzione di Gaetano De Leo pp. 164 - L. '18.000 ' Elsa Tagliabue UN POSTO PER SBAGLIARE Postfazioni di L. Tavazza e P. Ver celione pp. 176 - L. 18.000