IN. 4 pag. 4J Il Libro del Mese Tempi buoni per i vampiri di Cesare Cases Furio Jesi, L'ultima notte, Ma- rietti, Genova 1987, pp. 144, Lit. 15.000. Millenni fa il mondo apparteneva ai vampiri. Poi Nostro Signore de- cretò che dovevano regnare gli uo- mini e i vampiri si ritirarono nelle latebre del sottuosuolo, vicino alla terra da cui traggono le forze e che è la porta del mondo senza luce. Si cibano di sangue umano, ma di quel- lo dei morti perché dopo la sconfitta è loro interdetto quello dei vivi. Solo nel sangue umano passano tutto il sapore e la forza della terra. Ma l'ora degli umani pare volgere alla fine, Jesi (che tra l'altro curo la nuova edi- zione del Tramonto dell'Occidente) ci presenta case fatiscenti che sem- brano essere solo malferme copertu- re del mondo vampirico. Infatti i vampiri ritengono giunta l'ora della riscossa e si riuniscono a concilio, senza il loro capo supremo, il conte Dracula, che il cattivo stato di salute costringe a restare nel suo castello dei Carpazi. Tuttavia egli firma la petizione che il concilio vuol sotto- porre a Nostro Signore affinché dia il suo consenso a una nuova era vam- pirica. Un'ambasciata giunge in Pa- radiso, il consenso è dato. L'esercito dei vampiri procede allora vittorio- so, basta il loro solo tocco per sfa- sciare tutto quanto non è fatto di terra — acciaio, cemento armato — e nessuna arma li arresta salvo le pie- tre. Nella città che resiste più a lungo (sapremo poi da qualche connota- zione topografica che è Torino) si cerca di mobilitare per la difesa un Grande Poeta, che merita l'appellati- vo perché quando scrive versi sono presi dalla Divina Commedia. Co- stui non si scalda molto — i poeti sono oggettivi, quindi neutrali — ma evoca l'angelo Samaèl che consiglia di fare organizzare dal burattinaio Faraqàt una cerimonia propiziato- ria, cioè una rappresentazione del teatro delle ombre, cui in alto loco si è particolarmente sensibili. Il poeta per conto suo defeziona, poiché le celesti autorità gli impongono di ab- dicare alla Gorgone, che egli ha visto in volto acquisendo l'immortalità, e lui preferisce fare domanda — imme- diatamente accolta — per diventare vampiro. Sembra che non lo resti a lungo perché la morte viene a pren- derlo, lui la respinge ma poi cammi- na solo finché non giunge al trono di Nostro Signore. Il quale sta mancan- do di parola ai vampiri in seguito alla morte improvvisa del conte Dra- cula, cui si sentiva legato personal- mente. Perciò annuncia che si senti- rà liberato dalla promessa se i vampi- ri non avranno conquistato tutta la terra entro l'alba. Faraqàt si muove per la città per organizzare lo spetta- colo propiziatorio, ma non riuscirà mai ad eseguirlo perché si smarrisce nella battaglia che continua con al- terne vicende (i torinesi, si sa, sono duri a morire) per tutta la notte. Le luci si riaccendono ma poi si spengo- no definitivamente mentre sorge l'alba che annuncia la fine. Questo breve romanzo postumo di Furio Jesi, che porta le date 1962- 1970, non è un capolavoro letterario anche se contiene pagine bellissime, soprattutto quando Jesi descrive le cantine, i cunicoli, i sotterranei in cui si sono rifugiati i vampiri. Esplo- ratore del sottosuolo dell'anima in- dividuale e collettiva, egli è capace di renderne l'oggettivazione nella cata- basi nelle viscere della città. Ma an- che il cielo con il Signore e la sua corte si presta a eccellenti descrizio- ni grottesche. Le cadute stilistiche si verificano nell'azione vera e propria, non a caso, poiché si tratta di una guerra in piena regola, di quelle che da Aristotele a Hegel sono state sem- pre considerate l'oggetto privilegia- to del poema epico, prima che il fu- cile di Cimosco ponesse fine alle vir- ta, più simile a un accademico d'Ita- lia (o di Francia, visto che è "immor- tale") nella furberia, nell'opportu- nismo politico e nell'amore della vi- ta comoda, che non al padre Dante di cui ricalca i versi. Ricorda molto i ritratti negativi che Jesi ci ha dato di D'Annunzio e Pirandello in Cultura di destra. Con tutto ciò non è certo detta scrutavamo la venuta di una nazione che non poteva salvarci". Non poteva salvare gli uomini per- ché, come afferma San Tommaso al- l'inizio, la terra era già condannata e non sarebbe durata più di qualche anno. Ma anche perché non aveva nessuna intenzione di salvarli. E poi, valeva la pena di salvarli? Un difensore della ragione di Giorgio Cusatelli È difficile immaginare qualcosa di più scon- certante del percorso di Jesi: dipanatosi via via, in un ventennio vertiginoso, attraverso un'e- strema varietà di paesaggi culturali, esso attesta congiuntamente, nel viaggiatore, l'ansia del moto e l'appagamento della staticità, l'allargar- si sulla superfìcie e lo scavare nel profondo. Dunque, se non si è cauti, induce a definizioni parziali. Allo stesso modo, del resto, in cui la vita di Furio, troppo breve e troppo lunga, trop- po spoglia e troppo carica, continua ad alimen- tare, con tutti i rischi connessi, una sorta di leggenda. Che a quindici anni, per esempio, destinasse ad una rivista scientifica un saggio in francese su questioni storico-religiose delPÉgitto ellenisti- co, può quasi apparire la beffa di un ingegno anarcoide. Invece, non è alle circostanze, ma all'argomento, che dobbiamo guardare: per comprendere come si trattasse dell'inizio d'una linea, motivata e ben calcolata, che lo studioso avrebbe seguito sino all'ultimo. Il primo dei tanti territori visitati, non è certo un caso fosse quello delle necropoli e del deserto, confine re- motissimo e mal tracciato del conoscere storico, sede simbolica della morte e del mistero, mille- naria scuola di arcani e di magie. Ma non è neppure un caso che vi avesse brillato di splendi- da, luce, al tempo dei Tolomei, proprio la civiltà greca, per eccellenza rivolta, dai paradigmi più antichi, alla celebrazione della forza e della resi- stenza dell'umano. Per il giovanissimo Jesi, se- condo un'attitudine che non sarebbe mai stata contraddetta in seguito, non è legittimo indica- re dei maestri, nel senso ufficiale, e neppure ufficioso (per implacabile paradosso, sarebbe lui divenuto più tardi, in alcune fortunate univer- sità, un professore d'eccezione). Certi nomi, pe- rò, risultano emergere, e puntualmente corri- spondono a discipline e a metodi dell'insidiosa frontiera tra le sicurezze filologiche e filosofiche del sistema umanistico egemone e le proposte eversive delle "nuove" scienze: Kerényi, Frobe- nìus, più avanti Dumézil, cioè la storia delle religioni, l'antropologa, il folclore. Sul concetto di mito, verso la metà degli anni Sessanta, si realizzò così il raggiungimento fondamentale di Jesi: era un precario equilibrio di giustificazioni teoriche e motivazioni empiri- che, ma tale, per la sua vocazione di centralità, che avrebbe guidato tutto l'immenso lavoro sto- rico e critico successivo. Circa l'assetto teorico, premesso che Jesi fu avversario irriducibile degli tù dei cavalieri antiqui. Le persone epicamente più serie, compresi i loro altisonanti nomi aristocratici, sono i vampiri, ed è proprio qui che al po- sto della prosa ci vorrebbero delle belle ottave, mentre nel loro conci- lio si parla dei torti subiti e delle vendette da compiere nel tono di un comizio politico. Non un capolavoro, ma certo un libro che si legge molto volentieri, che spiazza continuamente il lettore e lo lascia in sospeso fino in fondo. Nei poemi epici gli avversari posso- no essere nobili e simpatici, ma si sa Inoltre vive con una donna, Shahrit, un avversario tipico, non è ben visto in alto loco, ha sospetti rapporti con il mito (la Gorgone), ritrova la sua dignità quando gli propongono di diventare santo — ciò che importa il dovere per lui insopportabile di osannare al Signore da mane a sera — e alla fine si fa addirittura vampiro. Più simpatico, ma non meno atipi- co, è l'altro uomo, Faraqàt, il vero protagonista se ce n'è uno. Intanto è amico di un vecchio vampiro, Ar- mand de Périgord, che la solitudine ha spinto a cercare la sua compagnia. Iti sempre da che parte stiamo, cioè da quella del vincitore. Qui non c'è dubbio che proprio dal punto di vi- sta epico simpatizziamo con i vam- piri, nobili decaduti e perseguitati, e con la loro riscossa che annienta i mostri della civiltà urbana. Tuttavia le cose non sono così semplici. Il ve- ro nemico — l'uomo che ha creato questo mondo degno di perire — non lo vediamo mai. Gli uomini so- no rappresentati in pratica solo da due personaggi: uno è il Grande Poe- un rapporto pieno e entusiasmante quale supponiamo non sia abitual- mente concesso alla pallida progenie degli uomini (ma le pagine su questi amori sono le uniche veramente scontate). Infine è anch'egli un arti- sta, che prepara la recita che dovreb- be propiziare Nostro Signore. In- somma questi uomini non sono poi da buttare a mare, tanto che anche il Padreterno esita a farlo. L'epigrafe, tratta dalle Lamentazioni ai Gere- mia, recita: "Dai nostri posti di ve- Chi scruta "dai nostri posti di ve- detta" attende però la salvezza. Alla base dell'allegoria c'è questa attesa. Non si può precisare l'allegoria nei particolari senza cadere nel ridicolo, come Jesi si diverte a fare in Cultura di destra proponendo un'interpreta- zione "da sinistra" del racconto II vampiro di Hoffmann. Che cosa si- gnificano i muggiti della Gorgone al telefono, i canti erotici delle quattro guardie inviate da Samaèl al Grande Poeta, le parole misteriose che gui- dano costui verso il Paradiso? Vatta- lapesca. Data l'onniscienza di Jesi, può darsi benissimo che tutto si tro- vi in qualche libro cabbalistico. Ma può darsi altrettanto bene che sia un parto della sua sbrigliata fantasia. L'importante è che i contorni fonda- mentali dell'allegoria sono immedia- tamente discernibili. Quali sono i rapporti di questa al- legoria con l'opera dello Jesi studio- so di antropologia, di mitologia, di letteratura e poesia esoterica e di mil- le altre cose? La maggior parte di questa produzione gigantesca (se commisurata alla brevità della vita) è volutamente specialistica o comun- que opera di uno spirito che si ad- dentra in vie segrete senza chiedersi che cosa ne possa uscire. Ma il para- dosso di Jesi sta nel fatto che la gioia della curiosità esplorativa era turba- ta dalla consapevolezza che da que- ste latebre era pur uscito qualche co- sa di a lui ben noto e inviso: la cultu- ra di destra. Da Germania segreta fi- no agli ultimi libri egli aveva girato attorno a questo problema cercando di delimitare lo spartiacque. Alla fi- ne della monografia sul Mito aveva scritto: "La macchina mitologica, non appena cessa di essere considera- ta un puro modello funzionale e provvisorio, tende a divenire un cen- tro fascinatorio e ad esigere prese di posizione, petizioni di principio, cir- ca il suo presunto contenuto". Que- sto però viene a dire che il mito è valido solo come oggetto di studio o di poesia, e infatti egli si associava al suo maestro Kerényi nel proporre che si parlasse di "scienza della mito- logia" e non di "scienza del mito", poiché quest'ultima rischia di tra- sformarsi subito in "manipolazione del mito". Ma non si evita il pericolo cambiando i nomi: se il mito viene manipolato è perché non è diventato mitologia, perché ha ancora un pote- re attualizzabile, e attualizzabile "da destra". Il problema è di renderlo inattuale, e questo è un compito di lunga portata che implica nienteme- no che la riconciliazione dell'uomo con la natura. Altrimenti ci sarà sempre chi scruterà il ritorno del mi- to in una speranza di salvezza che non è detto che sia di per se stessa solo una speranza "di destra". Non lo era almeno nel primo Romantici- smo come può non esserlo oggi nel neoromanticismo giovanile. La verità è che Jesi veniva da que- sta linea di pensiero, che contrastava fortemente con il suo antifascismo, e che ha accettato tale derivazione so- lo in questo romanzo. Poiché i vam- piri sono sì "sangue e suolo", quindi pronti a essere trasformati in orren- di e collaudatissimi miti di destra, ma sono altresì amabili e venerabili spettri tra medievali e settecenteschi che si oppongono alla snaturalizza- zione del mondo da parte degli uo- mini. La contraddizione, la cui solu- zione Jesi aveva demandato alla di- stinzione tra analisi spassionata e manipolazione del mito, qui si mani- festa apertamente e spiega la conti- nua incertezza sull'esito della lotta, relativizzata anche da una profusio- ne d'ironia ignota allo Jesi "serio". Jesi si dev'essere effettivamente mol- to divertito a scrivere questa storia, quasi come noi a leggerla, a prescin- dere dal vantaggio che dalla lettura possono ricavare i giovani, che da tempo sono passati armi e bagagli dalla parte dei vampiri e qui potreb- bero accorgersi che anch'essi vanno visti in un contesto che non è sem- pre a loro favore. Certo per Jesi sa- ranno state nugae, nugellae, come il Petrarca chiamava le sue poesie ita- liane, tant'è vero che non ha pubbli- cato il libretto in vita. Ma ora che la generosità della sua dissipazione in- tellettuale è stata scontata dal silen- zio quasi completo che si è steso sul- la sua opera dopo una morte pauro- samente precoce, speriamo che siano i le proprio le nugae a restaurare e tener viva la sua memoria.