N. 7 pag. 4 Il Libro del Mese Le mille domande di E.S. di Giorgio Pressburger Danilo KiS, Clessidra, Adelphi, Mi- lano 1990, ed. orig. 1972, trad. dal serbocroato di Lionello Costantini, pp. 274, Lit 25.000. Clessidra è un romanzo apparso nel 1972 e approdato nelle librerie italia- ne soltanto dopo diciotto anni, nel maggio del 1990. Eppure si tratta di una delle opere fondamentali della narrativa di questa seconda parte del nostro secolo. Come mai una svista e un ritardo tali? Se la lettura di questo libro suscita angoscia, sgomento e ammirazione per l'autore, essa desta anche una certa rabbia. Kis è morto l'anno scorso a soli cinquantaquattro anni, e non averlo conosciuto di per- sona, dopo aver letto questo suo li- bro, per qualcuno di noi è abbastan- za triste. Del resto la tensione intel- lettuale e morale di quest'opera è co- sì forte, che leggendola ci si domanda come sia stato possibile per Kis sop- portarla. Sia per alcuni dati biografici, sia per la sua attività di traduttore, ma soprattutto per l'approccio alla lette- ratura e per il carico creativo, spiri- tuale e etico che ne derivarono, Da- nilo Kis può essere paragonato, se questi paragoni valgono qualcosa, a Paul Celan. Mai nella lirica e nella narrativa di questi cinquanta anni si è riscontrata una disperazione e una forza di contrastarla simili e quelle di questi due autori, entrambi usciti dalle viscere più occulte del Leviata- no controeuropeo. Danilo Kis, di padre ebreo-unghe- rese e di madre serbo-ortodossa, nato in una città di confine tra l'Ungheria e la Jugoslavia, in Clessidra prende su se stesso il peso di testimoniare l'or- rore che nella seconda guerra mon- diale aveva coperto le sue terre, dove tra fascisti ungheresi, serbi e nazisti tedeschi si sono perpetrati i delitti più terribili. Non si trattava, in quel- la regione d'Europa, di una organiz- zazione freddamente scientifica del crimine razzista e sciovinista, ma di dare libero sfogo alla bestialità: si trattava di massacrare a colpi di van- ga, di sfondare i crani con l'accetta, di mettere in fila i condannati sul fiu- me ghiacciato e dopo ore di attesa gettarli vivi nel foro aperto. Come tutto questo orrore abbia potuto e possa intrecciarsi con la vita quoti- diana, avvenire quotidianamente in una solida e quieta costruzione buro- cratica, simile a quella dell'impero appena scomparso, pur nella conser- vazione della decenza e della legalità, questo è uno dei temi del libro. Ma in esso viene scoperta, come dagli ar- cheologi uno scheletro, anche la sto- ria millenaria di popoli che convivo- no odiandosi, disposti a massacrarsi a vicenda pur abitando terre dai con- fini incerti o inesistenti, dove i treni passano da una nazione all'altra sen- za fermarsi. Tutto quello che è av- venuto in quelle parti del mondo, nel romanzo prende il significato del- l'esistenza umana, vista con altret- La questione, anche per Kis, è' co- me riuscire a parlarne, come riuscire ad articolare (o scrivere) la prima pa- rola. Anche lui, come il poeta rume- no, trova esaurito ogni linguaggio, ogni stile possibile, di fronte all'orro- re. Mentre Celan fa ricorso ai lin- guaggi specialistici (a quello geologi- co-minerario, per esempio), e a un er- dubbio sulla realtà, dopo un po' tra- passa anche al lettore e l'io narrante, cioè l'Ufficialità, il Potere Costitui- to, si insediano in lui rendendolo partecipe, anzi complice, di ciò che viene narrato e fatto: di ogni più bie- ca violenza. Attraverso la giustapposizione di questi frammenti, a poco a poco si Kis di Subotica di Claudio Magris. La morte di Danilo Kis ha tolto al mondo uno scrittore inconfondìbile, che annotava con meti- colosa esattezza i brandelli furiosamente strappa- ti al caos della realtà, e ha interrotto, per me, un 'amicizia che era appena cominciata e stava ri- trosamente svelandosi in affinità e sintonìa. Al- l'inizio Kis era un po' sospettoso, mi guardava quasi in cagnesco. Eravamo all'Istituto italiano dì cultura e lui era stato mobilitato dal nostro co- mune amico Predrag Matvejevic — il leader del dissenso jugoslavo, l'interlocutore di Sartre e di Krleza, l'autore del Breviario mediterraneo — per tenere a battesimo, sotto la guida di Mau- rice Nadeau, l'edizione francese del mio Danu- bio. Non mi è difficile immaginare come Kis non fosse a priori entusiasta di partecipare a una serata letteraria, probabilmente Matvejevic lo aveva convinto con l'autorità dell' amicizia, di un amico che gli era stato vicino negli anni diffi- cilissimi della sua vita pubblica e privata, quan- do le polemiche sul suo libro Un monumento funebre per Boris Davidovic lo avevano irreti- to in una rete velenosa di accuse, malintesi, men- zogne e contraddizioni che parevano senza via d'uscita. Ma in quella mia sera, l'iniziale diffidenza di Kis non era dovuta soltanto all'insofferenza per la società letteraria. Prendendo in mano Danu- bio era andato a vedere, per prima cosa, il para- grafo dedicato a Subotica, sua città natale, e do- veva essere rimasto offeso sentendola definire una città inverosimile, un paesaggio di affasci- nanti falsificazioni e infrazioni il cui esorbitante ed eterogeneo eclettismo diventa un regno del kitsch senza freni. In quella reazione affettiva e gelosa Kis rivelava tutta la sua brusca ricchezza sentimentale, il risentimento di un uomo che può scegliere, in quanto scrittore, il proprio uni- verso natio quale scenario simbolico del grotte- sco delirio del mondo, ma non perciò lo ama di meno, lo ama anzi più dei suoi compatrioti che magari lo accusano di parlarne male e non per- y < * t - ■Sa fèM7 / tanto religiosa angoscia quanto lo po- teva essere quella di un Kafka o di un Celan, appunto. metismo che tende al silenzio, Kis si pone direttamente nella mente del Nemico: il suo romanzo è costruito come una serie di verbali d'interro- gatorio, di appunti presumibilmente sequestrati e di decifrazioni di carto- line, di istantanee, di brevi filmati. A proposito di cartoline, vorrei aggiun- gere che Kis è stato anche 0 tradutto- re in serbocroato del poeta unghere- se Miklòs Radnòti ucciso dai nazisti in Serbia, sul cui corpo gettato in una fossa comune è stato ritrovato, dopo la guerra, il taccuino in cui pochi mi- nuti prima d'essere fucilato egli ave- va scritto le sue ultime poesie, intito- late proprio con una parola serba Razglednice, "Cartoline". Da quelle "cartoline", forse, prende le mosse anche la tecnica narrativa d'una par- te di Clessidra. Paesaggi, persone, animali che compaiono in quelle im- magini, sono descritti con elencazio- ne meticolosa, quasi ossessiva, d'u- n'ossessione, a volte da burocrate ga- glioffo, che prende per finzione ogni asserzione fatta davanti a lui, ma an- che l'evidenza stessa. L'arrogante delinea un personaggio principale, l'interrogato, già presunto malato di mente Eduard Sam. Alla fine il letto- re comprende che E.S. (come viene segnato quel nome nei verbali), ebreo di cinquantatre anni, impiega- to delle ferrovie jugoslave, nell'in- verno del 1942 ha fatto un viaggio in treno per recuperare i suoi mobili la- sciati in una casa di Novi Sad, che questa casa, proprio nell'istante in cui lui stava per abbandonarla, era crollata e che tutto l'interrogatorio verte sul perché di quel crollo. Ma at- traverso i verbali e la decifrazione di brevi scene si viene pure a sapere che E.S. era stato picchiato dai fascisti ungheresi e serbi, che sempre in tre- no era andato a Budapest per farsi fa- re una nuova dentiera — quella vec- chia glie la avevano rotta picchiando- lo — giacché a Subotica non c'era più nessuno a cui rivolgersi per tale necessità essendo stati torturati, im- piccati, fucilati tutti gli ebrei. Oppu- re si erano suicidati. C'è un elenco spaventoso di morti violente, crude- li, in questo libro, e tutte sono riferi- te con obbiettività, anzi con freddez- za. Non si parla qui, ripeto, di un ec- cidio organizzato, ma d'una quoti- diana bestialità esercitata tranquillamente, senza che nessuno avesse nulla da ridire. Clessidra si chiude con una lettera di E.S. a una sua sorella. Da questa lettera traspare una realtà ancora più straziante: che cioè nemmeno tra i perseguitati esiste una vera solidarie- tà. Essi vicendevolmente si denun- ciano alla polizia per questioni dav- vero futili: la compravendita di una vecchia cucina economica, oppure l'acquisto di una partita di grano. Ma la lettera di Eduard Sam termina con una frase che nel suo pessimismo fa apparire un tenue barlume: "E me- glio trovarsi tra i perseguitati che tra i persecutori". La lettura di un libro come questo lascia dei segni profondi nel lettore, 10 svergogna davanti a se stesso, lo chiama perentoriamente in causa. E se si constata con amarezza il ritardo della pubblicazione del volume in Italia, questo stesso ritardo forse è stato provvidenziale, giacché pro- prio in questi mesi l'Europa deve di nuovo misurarsi e convivere con una rinnovata intolleranza nazionale e razziale, anche nei riguardi degli ebrei: come se tutto ciò che c'è stato non fosse mai accaduto, non fosse bastato. Ma in questo libro tutto ciò assu- me dimensioni tali da oltrepassare la contingenza. E.S. è una sorta di mi- to, anche mito letterario, al pari del Leopold Bloom di Joyce, dello Zeno di Svevo, di Humbert Humbert di Nabokov; in questo personaggio (co- me negli altri, ora citati) si condensa una sorta di coscienza universale pic- coloborghese. Zeno, Leopold Bloom, Humbert Humbert, Eduard Sam sono la continuazione di Bou- vard e Pecuchet, l'estensione nel tempo e nello spazio dell'invenzione flaubertiana. Soltanto che questi so- no tutti ebrei, ebrei dell'Europa cen- trale, ebrei ungheresi. Attraverso lo- ro fluisce tutto ciò che l'Europa ha gettato nel fiume del tempo, in que- sto secolo: un carico spaventoso. Lo stesso nome Sam allude a diverse co- se: in serbocroato esso significa "io sono", ma anche "solo", "da solo", "se stesso", e inoltre l'abbreviazione E.S. porta l'eco della teoria freudia- na dell'unità primitiva della psiche, la quale non conosce freni e domanda incessantemente piacere, a volte anche 11 piacere del dolore e della morte. Kis ha in comune con Celan un'al- tra cosa: come il poeta rumeno, ha preferito — o ha dovuto — abbando- nare la terra delle sue sofferenze, per rifugiarsi in campo neutro, dove il ri- cordo e l'amore fossero ancora sop- portabili. Tutti e due hanno lunga- mente vissuto in Francia (Flaubert!) al di fuori del cerchio maledetto della morte di tanti familiari e fratelli. An- che la lingua in cui scrivere era stata da entrambi eletta con un atto di scelta e non avuta in eredità come condizione naturale. Penso che questo mezzo ebreo un- gherese rappresenti una delle voci più vere, più ineliminabili della lette- ratura jugoslava di questo secolo, e sì che si trova in compagnia di grandis- simi narratori, come il premio Nobel Ivo Andric o come Krleza. Ma Kis al- lo stesso titolo è narratore ungherese di lingua serbocroata (come era drammaturgo ungherese di lingua te- desca Odòn von Horvàth, anche lui nato in Jugoslavia) o semplicemente narratore europeo, o della civiltà oc- cidentale, tra i più grandi.