N. 7 pag. 11 Intervista Fotomontaggio per una cagna Enrico Morovich risponde a Stefano Verdino D. Da circa sessantanni la sua attività di scrittore è sempre stata continua e costante, al di là delle fortune o sfortune editoriali; la macchina da scrivere è sempre stata a portata di mano, in bella vista nella sua stanza, pronta all'uso; come le capita di scrivere? R. Mah, un'idea mi viene in mente e la scrivo. Ad esempio, questo Baratro lo iniziai perché una signora trattava male una cagna; la teneva chiusa, le impediva di fare la sua vita di cagna e allora ero un po' arrabbiatello e scrissi qualche capitolo, non pensando affatto ancora al secondo capitolo e agli altri e ai delit- ti di Dalo, all'uccisione della zia, ecc. Il romanzo è stato un po' un fotomontaggio. Pensavo a luoghi reali, ai miei luoghi di Fiu- me e di confine, ma poi la fantasia portava altrove. Ad esempio in un raccontino de Le notti con la luna, Le mani, a un certo mo- mento ho costruito un grattacielo in un posto dove non c'era af- fatto; nella fantasia mi andava bene lì e tanti saluti: lì è rimasto. Anzi trovo un po' stupido descrivere con precisione i luoghi, co- me fanno tanti; sarà giusto da un punto di vista geografico, ma non credo che la fantasia del lettore si avvantaggi; anzi la fanta- sia del lettore si avvantaggia quando io gli suggerisco appena una cosa e poi approfitto anche della sua fantasia per fare una descrizione. Nel Baratro ci si trova nell'ambiente dei boschi e non c'è molta descrizione. La descrizione a volte disturba. La- sciamo stare i grandi, ci sono anche i piccoli; penso a Collodi, anche se è ormai diventato un grande. Le cose sue le scriveva tranquillamente, di capitolo in capitolo se non sbaglio; oggi non sapeva quel che avrebbe pubblicato domani o dopo. D. Non c'è dunque progetto nella sua narrativa. R. No, è venuta fuori così. Ad esempio, del Baratro mi piace il finale su Bruno, "ladro e vagabondo lo trovarono in fondo al ba- ratro"; povero Bruno, non pensavo a lui quando scrissi quelle parole; in mente avevo invece un mio compagno di scuola molto sfortunato, e morto a seguito di un incidente. Io salto di palo in frasca nei miei pensieri. Lei dovrebbe poter fare una radiografia dei miei pensieri ed è impossibile. Può darsi che la mia sia se- minfermità mentale; lo diceva anche Totò di essere affetto da seminfermità mentale. D. Quindi in tutta la sua narrativa fantastica c 'è sempre un mo- vente di carattere biografico; un quid di vissuto o di sognato che si impadronisce della sua mente e fa scattare il gioco della fantasia creativa? R. Piuttosto. Infatti il bosco di confine del Baratro trae spun- to dalle gite che facevo sul confine jugoslavo con il dottor Mayer, che ora è in Florida. Mayer è un po' Cipriano come io sono Oscar. D. E il baratro è dunque ben concreto? R. Oh, ne trova quanti ne vuole, giù dal Nevoso; una volta ci fermammo a guardare uno di questi baratri. Nella mia follia qualche volta pensavo che vita avrei fatto se l'avessi spinto sot- to, il Mayer, come mi sarei giustificato di fronte a me stesso. Confesso che quando ero lì non mi venne certo in mente; è un pensiero avuto dopo, un pensiero puramente letterario diciamo. D. Che rapporto ha con i suoi libri, con la sua storia di scrittore? R. Ho scritto tutte queste storie ed è un peccato che non sa- pessi scrivere. Sarebbero state storie abbastanza buone. Lo scrissi alla signora Sellerio: "La ringrazio, ma guardi che i miei racconti sono tutte occasioni perdute". Guardi nei Giganti ma- rini; c'è un capitolo su una festa, ma che festa è? Non si capisce niente. Anche la levatrice la introduco alla fine, per dare una pi- sta all'intreccio. Sono sicuro che un Moravia avrebbe subito da- to i ruoli esatti ai personaggi; ma per me allora addio, tutto quanto casca, non c'è più ondeggiamento e ambiguità. D. Quando scrive, in quale tempo della giornata? R. Quando capita, a volte anche nell'intervallo dei lavoro d'ufficio riuscivo, in quell'ora, a fare un racconto; mi ricordo una volta che in quel tempo feci un racconto per "Omnibus" di Longanesi. D. Che rapporto ebbe con Longanesi? R. Se guarda l'ultimo semestre del vecchio "Omnibus", dal- l'estate del '38 al gennaio del '39, mi trova quasi tutte le setti- mane. A Longanesi piacevo perché diceva e stradiceva che pre- feriva una cretinata che avesse un significato rispetto a della ro- ba ben scritta che non significa niente. Al tempo di "Oggi", un mio amico scrittore, Massimo Alberini, mi riferì che Longanesi trovava che c'era in me della personalità. Un bel complimento. Longanesi aveva un torto; non permetteva alla gente di essere un po' cretina. Di tanto in tanto, come si fa a non essere cretini? D. Quando un 'idea le viene in mente deve essere immediata la scrittura oppure può "tenere in frigo" l'idea? R. Sì, posso tenerla in frigo. In un racconto, La signora e l'an- gelo, avevo scritto una prima cartella, con una prima situazione; poi mi bloccai. Poi mi venne in mente l'angelo e risolse tutto; ma quella prima cartella stette per molto tempo sola, ad aspetta- re la soluzione del racconto. D. Che rapporto c'è tra i suoi sogni e i suoi racconti? R. Qualche volta il sogno mi serve come sottofondo del rac- conto; ma i racconti non sono registrazioni di sogni; durante la scrittura invento; certi racconti sono sognati e inventati. D. Dunque la scrittura non è mai trascrizione immediata del- l'onirico? R. No. L'invenzione procede con la scrittura; molto spesso non so dove vado a finire. D. C'è differenza nello scrivere racconti brevissimi, secondo il suo modulo più collaudato e frequente, oppure racconti lunghi co- me Il baratro e I giganti marini? R. Non saprei dire. D. In base a che cosa prolunga e fa durare il racconto? In base al- lo sviluppo delle situazioni che le si offrono alla mente? R. Sì. D. Il baratro è anche un racconto che ha una sua struttura, una serie di appuntamenti, di ritomi sul luogo, una tecnica da "giallo". Ma è una struttura naturale? R. Veniva così. La signora Emanuelli mi diceva "Fa venire il capogiro". Mi pareva che fosse finito e non era finito; continua- vo. D. E riscrivere un racconto? Una volta scritto non vi è più torna- to sopra? R. Riscrivere per me è impossibile; cambierei tutto. E poi so- no pigro, non sono un lavoratore. D. Ifantasmi sono sempre protagonisti e sono una sua particolare e originale invenzione perché sono ben diversi dallo spettro della narrativa gotica. Cosa può dirmi su di loro? R. I miei fantasmi sono fantasmucci, spettri di poco valore; non piacciono a tutti; non è che io scriva per piacere a qualcuno; mi diverto io a scrivere, non c'entrano gli altri. D. Lei crede in questi spiriti? R. Ci credo sì; però sono capricciosi, se non fili diritto non vengono più a darti una mano. Gli spettri sono morali, non im- morali. D. Nel senso che sono proiezioni della coscienza? R. Sono loro che pensano a proiettare la coscienza. In sogno appaiono e danno consigli. D. Sono dunque sognati? R. Non credo. Io non li vedo e non li sogno; sono loro a con- vogliare i sogni, secondo la loro volontà. D. Pur nella malinconia, spesso compare il lieto fine nella sua narrativa; c 'è una ragione? R. Non è il caso di fare le cose disperate. Anche Agnese bacia- va i nipoti lasciando il segno sulle guance. D. Un altro ingrediente della sua narrativa è l'umorismo. R. Mi considero un umorista fallito. Sarei stato felice di scri- vere una storiellina da replicare a puntate sul "Bertoldo". Inve- ce non ce la facevo. Sul "Bertoldo" ho scritto solo alcune battu- te anonime, illustrate con un disegno. Le trovavo su riviste te- desche e le riadattavo, qualche volta inventavo. D. Lei conosce molte lingue; in quale lingua ha letto di più? R. Leggevo varie riviste tedesche, ma ho letto molto e in ita- liano. Soprattutto ho letto tutto Papini, Soffici e Palazzeschi.