N S riNDICF ■Idei libri del meseHÉB Grandi Luciferi e onesti professori di Massimo Onofri Pirandello caricaturista. Schizzi in margine alle "Elegie" di Mario Rapi- sardi, con uno scritto di Giovanni Macchia, in "Rivista di studi piran- delliani", VII (terza serie), dicembre 1989, n. 3, Palumbo, Palermo, pp. 71-95, Lit 16.000. Antonio Bruno, Fuochi di bengala, razzoprefazione di Emilio Settimelli, con un saggio di Franco Sgroi, Nove- cento, Palermo 1990, pp. 106, Lit 15.000. Edgar Allan Poe, Il corvo, Nove- cento, Palermo 1990, trad. dall'in- glese di Antonio Bruno, con una.no- ta di Franco Sgroi, pp. 64, Lit 12.000. Nel discorso su Giovanni Verga tenuto alla Reale Accademia d'Italia il 3 dicembre 1931 Luigi Pirandello osservava: "Due tipi umani, che for- se ogni popolo esprime dal suo cep- po: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessari e gli esseri di lusso, gli uni dotati d'uno stile di cose, gli altri d'uno stile di parole; due grandi famiglie o categorie di uomini che vi- vono contemporanei in seno a ogni nazione, sono in Italia, forse più che altrove, ben distinte e facilmente in- dividuabili". E dopo aver delineato, lungo tutto il cammino della nostra storia, una netta contrapposizione fra Dante, Machiavelli, Manzoni, Verga, scrittori di cose, e Petrarca, Guicciardini, Monti, D'Annunzio, scrittori di parole, aggiungeva: "Se pensiamo che Dante muore in esilio e il Petrarca è incoronato in Campido- glio ... , che il Leopardi passa di vita quasi ignorato, quando si sa a quali venturosi onori pervenne il Monti, dobbiamo convenire che in questa nostra Italia d'immaginazioni stori- che, di prodigiosa ricchezza in dol- cissime e forti e piene sonorità ver- bali ... ha più diritto di cittadinanza chi sa dire più parole che cose". Ma, continuava Pirandello, chi riesce nel- lo sforzo lucido di disegnare la dura sagoma delle cose non può che resi- stere al tempo: "A Dante, sempre si ritorna. Si ritorna a Machiavelli. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a Giovanni Verga". Prendeva così consistenza un to- pos destinato, nella sua severa sche- maticità, a larga fortuna nella nostra storia letteraria, ogni volta che, nelle appassionate letture di De Sanctis e Gramsci, Lukàcs e Brecht, o sulla spinta di urgenze politiche e sociali, tornerà in primo piano la questione del realismo. Ma trovava anche rigo- rosa formulazione un mito che avrà grande diffusione nella cultura sici- liana del Novecento, grazie anche a quella rete di silenziose complicità, generosi sodalizi, fragorose rivalità, sordi rancori, che legò molti scrittori isolani nelle vivaci battaglie lettera- rie dei primi decenni del secolo; un mito che, in questo discorso, si co- niugava all'immagine di una Sicilia, poi tanto familiare agli odierni letto- ri di Brancati, Sciascia, Bufalino e Consolo, chiusa nelle sue passioni originali e sospettose, assediata da un mare aperto ma crudele e avaro: il mito di un Verga uomo di cose prima ancora che scrittore di cose, di forte e nuda virtù, di lunghi silenzi, di abi- tudini essenziali, di risentita morali- tà. A questa immagine del Verga si oppose presto, per necessaria dialet- tica, l'antimito siciliano dell'uomo altitonante, scialacquatore della pro- pria firma, dalle abitudini trasgressi- ve, fanatico sostenitore dell'ultima moda letteraria, sempre pronto ad esibirsi sul balcone della vita: un an- timito più e più volte declinato. Ad incarnarlo per primo sarebbe stato Mario Rapisardi, concittadino del Verga, ma, a differenza di questi, ri- verito dai catanesi come vera gloria nazionale, autore del sonante e bla- sfemo Lucifero, cantore delle magni- fiche sorti progressive dell'umanità, fiero avversario del Carducci da cui si sentì ingiustamente detronato. A celebrare anzitempo la parodica dei- ficazione di Rapisardi, una sorta di figurativa apokolokyntosis, era stato proprio il giovane Pirandello, in for- ma privatissima, con una serie di ca- ricature schizzate a margine in una copia delle Elegie del vate, come a li- sé la vita catanese. Era piccolo di fi- gura, ma rumoroso ... Nelle chiare giornate d'Aprile, egli percorreva il corso sotto un parapioggia nero, e si può dire che il sole di primavera non sia mai riuscito a dorargli la faccia. Questo 'pudore della luce' è l'unico atto di modestia che il poeta abbia compiuto nei riguardi di tutto ciò che rende più visibile la nostra perso- na. Nel resto, gli piacque alzare la vo- ce, accusare, ed essere difeso; e an- che le cose che amò veramente, le cui'si ripubblicano Fuochi di bengala (1917) e l'impareggiabile traduzione de II corvo di Poe (1932), che bruciò la sua vita in così bizzarre consuetu- dini da suscitare nella memoria di che lo conobbe il borgesiano sospetto che non fosse mai effettivamente vis- suto. Nel '54, infatti, Giuseppe Vil- laroel così scriveva: "Antonio Bruno esistette veramente e fu mio irriduci- bile nemico": e, a dare indelebile prova, si accingeva a tracciarne, tra i tanti certo non magnanimi, il più spietato ed ingiusto ritratto: quello di un letterato malinconioso, dan- nunziano fin nelle midolle, ossessio- nato dalle proprie fisiche deformità, celate da giubbe ampie e svolanti, da calzoni di vasto giro e di perfetta ri- berarsi del "rapisardismo" dei suoi esordi poetici: lo scopriamo solo oggi nell'ultimo numero della "Rivista di studi pirandelliani". Sono disegni di grande godibilità, umoristici com- menti a fronte del canto a gola spie- gata, nei quali, al ritmo di prodigiose metamorfosi "il grande Lucifero", come nota Macchia, si ritrova nelle modeste vesti di "un onesto profes- sore che parlava d'amore senza ac- corgersi del ridicolo in cui cadeva". L'inumazione di Rapisardi, ben- ché nei solitari modi di un Pirandello precocissimo, era ormai un fatto cer- to. Il passo successivo sarà il pubbli- co dileggio. Si legga quanto scrive Brancati su "U Popolo di Roma" del 16 marzo 1940: "Rapisardi riempì di amò a voce alta". Anche Sciascia, in un saggio del '60 dedicato a Verga del '60, riservò al Rapisardi parole acuminate. Ma, a mostrare le tante maschere che assunse il mito sicilia- no dell'anti-Verga, vale la pena di ri- leggere un suo giudizio su Federico De Maria, poeta di alata eloquenza dai trascorsi futuristi: "tutta Paler- mo ne riconosceva il genio e ne ama- va la figura: tra rapisardiana e dan- nunziana, così come chi non ha senso della poesia immagina debba essere un poeta. Noi conoscevamo già — inevitabilmente — i suoi versi. Ma pare che il meglio di sé lo desse nel preparare una caponata". Patì sorte simile a quella di Rapi- sardi e De Maria Antonio Bruno, di ga, tagliati dai migliori sarti; un uo- mo in perenne disposizione di malva- gità verso chi, come il Villaroel, go- deva di grande fortuna in amore; uno squilibrato che passò gli ultimi dram- matici anni della sua vita convinto di dialogare con la Madonna, banditore di un nuovo gnosticismo. Ma, se l'eccentrica biografia di Bruno, specie nell'immagine che dai detrattori ci è stata tramandata, sem- bra andare nella direzione di quel ra- pisardismo etico che abbiamo deli- neato, la sostanza della sua vicenda intellettuale ci pare ben altra. Egli, infatti, fu un personaggio di primo piano nella Catania del vecchio Ver- MARIETTI Henry James Hawthorne A cura di Luisa Villa Due classici della letteratura americana a confronto. «I Rombi» Eihei Doghen Il cammino religioso (Bendowa) Il testo che da otto secoli propone agli uomini la com- prensione dello zazen. «1 Rombi» Emmanuel Lévinas Trascendenza e Intelligibilità A cura di Franco Camera La filosofia della singolarità ebraica a confronto con la tradizione occidentale. «I Rombi» Hans Robert Jauss Estetica e interpretazione letteraria A cura di Carlo Gentili Goethe, Racine, Schiller, Baudelaire. Un esemplare modello di ermeneutica lette- raria. 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