Stile e pensiero di una filologa di Marzio Porro Maria Corti, Storia della lingua e storia dei testi, con una bibliografia a cura di Rossana Saccani, Ricciardi, Milano-Napoli 1989, pp. XLIII-307, Lit 45.000. Tutta l'attività di Maria Corti, co- me studiosa della letteratura e come autrice di romanzi, affonda le radici in un esercizio filologico e linguistico che viene ora ripresentato in alcuni passaggi fondamentali tanto per quanto riguarda l'approfondirsi di originale di alcuni principi della se- miotica sovietica, soprattutto di J. Lotman. Vi si passano in rassegna i modelli di società vigenti in quel pe- riodo, il "quadro ideologico" in cui secondo la cultura ecclesiastica avrebbero dovuto inserirsi i vari gruppi sociali. Che esso sia un perio- do di grandi trasformazioni — in cui, ad esempio, si afferma in alcune aree la nuova classe dei mercanti e dei fi- nanzieri come classe egemone — non pone grandi problemi teorici agli in- quello del carnevale già studiato da Bachtin (in proposito la Corti inter- viene con opportune precisazioni). Più tipico del modo di procedere della scrittrice il lungo saggio Le fonti del "Fiore di virtù" e la teoria della 'nobiltà nel Duecento, il primo di una trilogia dedicata al Fiore. E op- portuno ricordare che spesso la scrit- trice si è occupata, e a lungo, di opere letterarie di livello medio o anche medio-basso (tale si può ritenere lo stesso Fiore) come le più adatte a in- ga, degli anziani De Roberto e Gu- glielmino, dei coetanei Centorbi e Villaroel, del giovane Aniante, dei giovanissimi Patti e Brancati, che lo ritrasse caricaturalmente nell'Anto- nio Bruners del suo acerbo Amico del vincitore(\9i2). Come informa Sgroi nel saggio in appendice ai Fuochi, Bruno fu instancabile: formatosi nel- la Firenze di "Lacerba" e delle "Giubbe rosse", nel '15 fondò a Ca- tania la rivista "Pickwick" che De Robertis su "La Voce" giudicò come l'unica rivista "degna di considera- zione uscita in Italia in questi ultimi tempi", sulla quale scrissero Franchi e Titta Rosa, Onofri e Soffici; tra- duttore finissimo di Baudelaire (an- che sul "Corriere di Sicilia" dal '14 al '27), Laforgue e Mallarmé, critico acuto (nel '27 sul "Corriere" coglie- va tutta l'importanza di Proust), fu anche polemista gagliardo e icastico, come attesta Un bel poeta di provincia (1921) ove, nella persona del Villa- roel, veniva processato, con grande lucidità, non solo il provincialismo etneo, ma anche quello italiano. Della qualità di poeta e prosatore del Bruno fa fede questo Fuochi di bengala, che accorpa, in italiano e in francese, versi, note di diario, im- pressioni di viaggio, considerazioni sulle arti, con ardimento futurista, tra spericolatezze tipografiche e pi- rotecnica paroliberistica. Si tratta certo di un libro figlio di quell'Italia che dall'avventura libica era sprofon- data nel conflitto mondiale, di quel- l'Italia di italiani che avevano tenuto in gran conto i Guido da Verona e i Marinetti, che avevano imitato l'ini- mitabile D'Annunzio. Ma, come no- tava lo stesso Settimelli nella razzo- prefazione, al futurismo del Bruno si opponeva fieramente il suo buon gu- sto, di intellettuale decadente, ag- giungiamo, che venerava sopra tutti Verga. Lo stesso Verga, del resto, gli aveva preconizzato il molto che avrebbe potuto dare "senza gli acro- batismi futuristi", di cui non aveva bisogno perché il futuro era già in lui. Bruno ne era perfettamente con- sapevole: "Così — per guarirmi — un tempo mi sforzai di seguire i futu- risti di Milano ... Ma il mio passato fu sempre con me — camicia di Nes- so intessuta di fiori appassiti, di ve- nerdì santi, di profumi evocatori, di fiale, di trini, e di evanescenze": un passato che di continuo si sporge sui crepacci e le fenditure di alcune belle pagine, affacciato sul futuro della mi- gliore prosa d'arte. Ma l'ossessione centrale che tutte queste pagine go- verna è quella della donna, che, pur se talvolta in panni esotici, logori e stinti, della belle dame sans merci, conferisce la luce di un'ebbra e dolce infelicità, una luce spesso all'acetile- ne di una radente, formidabile iro- nia: "M'accorgo con disgusto di pi- gliarmi sul serio. Un intellettuale fra i più avanguardia di Catania, che ha pagato fra i primi l'abbonamento a Pickwick, chiedeva qualche giorno fa chi di noi si celava col pseudonimo Stefano Mallarmé". La Traduzione Metti Rulfo in italiolo di Dario Puccini Juan Rulfo, La pianura in fiamme, a cura di Francisca Perujo, Einaudi, Torino 1990, pp. 177, Lit 18.000. Per favore, non fatemi fare la Cassandra che piange su tutte le cattive traduzioni! Anche pres- so la nuova Einaudi (è di questa casa, ora molto trascurata, lo scempio di cui qui mi occupo) sono uscite buone traduzioni: per esempio, dei libri di narrativa di Cristina Peri Rossi e di Alvaro Mu- tis, e, credo, di Celasolo per limitarmi al mio campo e alle cose più recenti. E lo dico o lo dirò: per scrivere finalmente qualcosa in senso positi- vo. Ma il brutto, in questo caso, è che lo scrittore messicano Juan Rulfo, maestro riconosciuto di tutta la migliore narrativa ispanoamericana di questi anni, ha avuto una sfortuna nera in Italia, e così nera che si rischia di parlare di lui, per i suoi libri, come di un fantasma o di un equivoco grossolano, tanto più che la sua opera è composta di soli due volumi: il romanzo Pedro Pàramo, dalle cui pagine tremende e allucinate qualcosa arriva pur sempre attraverso le maglie sporche e ostruite delle versioni-, e questi racconti concisi e vibratili di La pianura in fiamme, che per la pri- ma volta apparvero, presso Mondadori, in una traduzione che tanto intendeva conservare il pre- sunto "colore locale" da seminare il testo di tan- ti "usted", di tanti "sombreros" e di tante "se- riori tas" neppure virgolettati. Un Messico di ma- niera, a cominciare dal titolo cambiato (Morte al Messico). Purtroppo la traduzione che ora presento non si può neanche chiamare tale perché è appena una trasposizione di vocaboli successivi dallo spagnolo a una sorta di italiolo (quello di Hele- nìo Herrerà), alcune volte incomprensibile persi- no a chi ricorda vagamente l'originale. Perché certo è assai arduo tradurre Rulfo, ma la lingua letteraria italiana — mettiamo da Verga a Calvi- no — ha sufficienti mezzi e risorse per giungere a un 'approssimazione delicata e attenta al linguag- gio scarno, sussurrato, quasi pudico, essenziale dello scrittore messicano. Basta rispettare le due lingue e non confonderle. Ma questo è il guaio del bilinguismo: che soltanto in casi rarissimi e molto sofferti, sofferti in vita e cultura, può giun- gere alla contemporanea buona scrittura tanto nella lingua madre quanto nella lingua acquisita. Non ho dubbi che Francisca Perujo — e lo so bene — conosca alla perfezione Rulfo, e ne può un metodo di ricerca destinato a di- venire esemplare, quanto per i risul- tati finali in cui escono trasfigurati singole figure o interi periodi storici. Il saggio di apertura, Modelli e an- timodelli nella cultura medievale (1978), il più recente, è uno sguardo sull'Europa medievale, applicazione novatori domenicani o francescani che si limitano a qualche pragmatico aggiustamento: tanta è la vischiosità del modello mentale rispetto alle tra- sformazioni del reale. Ad ogni mo- dello si contrappone comunque un antimodello funzionale al primo: qui, al mondo dell'etica cristiana tendere gli interessi, le correnti, il senso stesso di una cultura, al di qua delle ascensioni mirabili e solitarie dei geni. Ma, per tornare a noi, dalle prime pagine il saggio sembrerebbe riguardare un normale problema di fonti, da secoli palestra di filologi ed eruditi, se non fosse per la logica con k aniTkh i aniTrh < amTkh.ianiTrhi aniTr mi. aniTrm i.aniTrm i aniTrh < aniTrmi aniTrh i.aniTrm i aniTrk.<:aniTrnxaniTrk