N. 5 pag. 15[ Idei libri del mese! Il Libro del Mese , " .7-1 - - » - «e nucleare. E allora vien fatto di chiedersi come mai gli estensori del Rapporto sul pianeta non facciano alcun riferimento all'energia da fusione: si tratta di sfiducia nella possibilità di raggiungere l'obiettivo? Una sfiducia così profondamente radicata da far giudicare inutile dedicare all'argomento anche solo una mezza paginetta? In realtà la logica generale alla quale si ispira il Rapporto dovrebbe suscitare, di fronte alla fusione nucleare, una profonda diffidenza: infatti, come tutte le fonti energetiche terrestri, anche la fusione immetterebbe nell'ambiente energia destinata a trasformarsi in calore e quindi a modificare il clima. Ma la logica particolare con la quale il Rapporto considera la questione dell'inquinamento termico non agevola una corretta impostazione del problema. Il Rapporto sostiene che, di contro alla pericolosità e al costo elevato, il sistema nucleare ha il vantaggio di difendere il clima, e perciò il suggerimento di escluderlo dalle prospettive scaturisce soltanto dal confronto sfavorevole tra il vantaggio climatico e gli svantaggi denunciati. Questa valutazione, che il sistema nucleare implichi una difesa del clima, si basa su una concezione lacunosa dell'inquinamento termico: la concezione molto diffusa che l'inquinamento termico dipenda solo dall'effetto serra (mentre costituisce il prodotto di due fattori, l'effetto serra e la produzione di calore), che l'effetto serra dipenda solo dalla C02 (mentre dipende anche da altri vapori e gas, come il vapore acqueo), che una centrale elettrica produca C02 solo in maniera diretta, bruciando essa stessa combustibili fossili (mentre può indurre alla combustione di fossili in altri impiantì, e quindi provocare la produzione di C02 in maniera indiretta). Il luogo comune che il sistema nucleare difenda il clima dovrebbe essere verificato con calcoli che tenessero conto almeno dei seguenti fatti: a) a parità di energia elettrica erogata la quantità del calore disperso dalla centrale nucleare è maggiore (del 65% circa, secondo R. Dajoz) rispetto al calore disperso dalla centrale termoelettrica; b) la produzione di calore fa aumentare l'evaporazione e il vapore acqueo accentua l'effetto serra; c) la pericolosità della centrale nucleare fa sì che essa venga costruita lontano dall'abitato, e ciò ostacola l'utilizzo del calore residuo mediante il teleriscaldamento, costringendo a bruciare combustibili fossili, e a generare C02, quartieri e città che potrebbero farne a meno se in loro prossimità venisse costruita una centrale termoelettrica non inquinante (per esempio, a metano). In assenza di questi calcoli il giudizio che il nucleare difenda il clima, come sostiene il Rapporto, è una diceria non dimostrata. L'accettazione acritica della diceria non influisce sull'atteggiamento assunto dagli autori di fronte alle centrali nucleari a fissione, in quanto essi valutano preponderanti le questioni di sicurezza e di costo; ma li priva di strumenti crìtici t » t ! » » t * ini» Vi\ HllHM / nei confronti dei fautori della visione nucleare i quali — a causa di una visione tanto lacunosa quanto diffusa dell'inquinamento termico — non si accorgono della grande pericolosità di questa fonte energetica, che proprio per la disponibilità illimitata di combustibile spingerebbe a consumi energetici rapidamente crescenti e quindi a un inquinamento termico crescente: dovuto più alla produzione di calore che all'effetto serra, ma pur sempre crescente. Crescente per la crescita di uno dei due fattori più che per l'altro, ma pur sempre crescente. Convinti per intuizione che il risparmio energetico e il ricorso all'energia solare nelle sue varie forme siano le sole fonti energetiche indenni da inquinamento termico, ma sprovvisti degli strumenti concettuali e dei calcoli atti a dimostrarlo, gli autori del Rapporto non hanno strumenti critici di fronte alle prospettive della fusione nucleare. Questo potrebbe essere il motivo del totale silenzio del Rapporto intorno allo stato più avanzato degli studi sulla questione energetica. Un silenzio altrimenti inspiegabile. <3 nuove. Ma invertibili. Infatti, il rapporto del World Watch Institute individua e propone alcune azioni di "governo" che, se adottate con tempestività, possono contribuire a riportare sulla carreggiata di uno sviluppo "sostenibile" — che accolga i paradigmi dell'ecologia — il rapporto tra progresso economico ed gli equilibri dell'ecosistema. I campi di azione proposti sono essenzialmente tre: un intervento diretto alla salvaguardia dei suoli superficiali e del manto arboreo della terra; un impegno concertato per rallentare la crescita demografica soprattutto in quei paesi le cui popolazioni crescono ad un ritmo annuo compreso tra il 2% e il 4%; una politica tesa al rallentamento dell'accumulo di anidride carbonica e di costituenti minori nell'atmosfera che provocano una accelerazione del processo di riscaldamento della terra (il cosiddetto effetto serra). Nell'ambito di queste tre sfere di intervento possono individuarsi elementi di interconnessione tra sistemi economici e biosfera, a livello mondiale. Se si pensa al problema della stabilizzazione del clima per esempio, la natura sovra-nazionale del rapporto tra economia ed ecologia salta immediatamente all'occhio. Il processo di riscaldamento della terra, che minaccia di elevare entro il 2050 la temperatura media terrestre da 1,5 a 4,5 gradi centigradi, sta generando problemi spinosi per le classi politiche di molti paesi. Il rischio di dovere adattare l'economia globale ad un clima mutato non fa più parte di catastrofiche proiezioni fantascientifiche, e potrebbe richiedere invece, anche solo nel medio periodo, un forte impegno in investimenti correttivi. A tutt'oggi non si è ancora in grado di elaborare precisi modelli previsionali del mutamento climatico per singole regioni. Paradossalmente è più facile stimare i costi di adattamento a certe conseguenze "globali" del mutamento climatico, quali per esempio l'aumento del livello del mare, che non ad eventuali mutamenti di portata locale o nazionale. Gli ordini di grandezza di questi costi di adattamento alle conseguenze globali di un mutamento climatico sono abbastanza impressionanti. Alcuni paesi già spendono per difendersi dal mare più di quanto spendano per difendersi dalle aggressioni esterne. I Paesi Bassi, per esempio, ogni anno, per mantenere un complesso sistema di dighe e altre strutture atte a proteggerli dal mare, spendono il 6% del loro prodotto nazionale lordo. Le estensioni di costa che potrebbero ri-chedere protezione nei decenni a venire, se non si inverte l'avanzare dell'effetto serra, potrebbero raggiungere le migliaia di chilometri. Paesi più poveri dei Paesi Bassi (come 0 Bangladesh, per esempio, che ha continui problemi di inondazioni) non potranno certo permettersi la costruzione di costosi argini. Per stabilizzare il clima e ridurre l'effetto serra il rapporto del World Watch Institute propone di aumentare il grado di efficienza nell'impiego di energia e di rallentare il ritmo dei disboscamenti. In effetti l'accumulo di anidride carbonica nell'atmosfera, che è il responsabile principale dell'effetto serra, deriva dall'impiego di combustibili fossili (che nel 1987 hanno immesso 5,4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica nell'atmosfera) e dalla distruzione di foreste di vaste zone della terra (che, sempre nel 1987, ha liberato una quantità di anidride carbonica compresa tra il miliardo e i 2,6 miliardi di tonnellate. Eppure, a tutt'oggi nessun governo nazionale ha esplicitamente formulato una politica energetica tesa a ridurre le emissioni di carbonio. Inoltre, i dati sulla ricerca nel settore energetico non sono affatto rassicuranti. Nel 1988 i paesi Ocse spendevano 484 milioni di dollari nella ricerca nel campo delle energie rinnovabili e 622 milioni di dollari nella ricerca finalizzata all'efficienza energetica (rispetti- vamente 6,8 e 8,4% delle spese complessive per la ricerca energetica). Una somma abbastanza limitata, se confrontata ai 4,5 miliardi di dollari che annualmente vengono assegnati alla ricerca nelle tecnologie nucleari. Le minacce agli equilibri dell'eco- nomia mondiale (che potrebbero derivare da una nuova stretta nei prezzi degli approvvigionamenti di greggio) e agli equilibri ecologici dell'ecosistema costituiscono due grossi argomenti a sostegno di uno sforzo mondiale per incrementare, nell'ambito di uno sviluppo "sostenibile", l'efficienza energetica — intesa come sviluppo di fonti energetiche rinnovabili oltre che come risparmio energetico. Anche la difesa dei suoli superficiali e del manto arboreo è collegata a filo doppio con il concetto di "sostenibilità" dello sviluppo. In effetti le conseguenze a lungo termine di una serie di pressioni sui sistemi che presiedono alla vita, quali le foreste ed il suolo, possono alterare irrimediabilmente il sentiero di "sviluppo" di un'economia. Sebbene gli inventari del patrimonio forestale e delle riserve di humus non figurano tra le voci dei bilanci economici nazionali, proprio da questi dipende la capacità di autoalimentazione delle economie. La copertura arborea non è solo uno degli indicatori più evidenti dello "stato di salute della terra", è anche una risorsa economica fondamentale in quanto gli alberi sono parte integrante dei sistemi di base che sostengono la vita. Eppure, mentre le foreste tropicali si riducono di 11 milioni di ettari l'anno e solo nei paesi industrializzati 31 milioni di ettari sono già stati danneggiati dalle piogge acide e dall'inquinamento atmosferico, nessun paese riconosce alle foreste e all'humus il loro ruolo economico — oltre che biologico — fondamentale. E a questo proposito è interessante segnalare che nel rapporto del World Watch Institute vengono presentati alcuni calcoli per stimare l'entità dei costi necessari a salvaguardare questi sistemi economici di base. Benché viziato dalla mancanza di dati affidabili sia sui ritmi di deterioramento che sui costi di intervento, questo esercizio ha fornito un dato significativo: con 60 miliardi di dollari, meno di 6 miliardi di dollari l'anno per il resto di questo secolo, si potrebbe reintegrare la copertura arborea della terra. Ma i disboscamenti non potranno essere arrestati solo proteggendo le foreste superstiti e accelerando i rimboscamenti; occorre sottrarre molti paesi alla morsa della povertà che li induce tuttora — per far fronte ai bisogni immediati di sopravvivenza — a distruggere il loro patrimonio arboreo. Secondo un recente studio della Fao, nel 1980 nel mondo circa un miliardo e 200 milioni di persone, per soddisfare le esigenze primarie di sussistenza hanno tagliato grandi quantità di foreste, ad un ritmo più rapido di quello impiegato dalla natura per reintegrare il patrimonio boschivo. Non stupisce dunque che il rapporto del World Watch Institute individui un terzo grosso blocco di politiche per far fronte al deteriorarsi dello "stato di salute della Terra": le politiche per il contenimento del ritmo di crescita demografica mondiale. Anche qui il nesso tra sviluppo economico e compatibilità ambientali sembra essere evidente. Sia il futuro economico sia il futuro ambientale dei paesi le cui popolazioni crescono a ritmi "non sostenibili", è inestricabilmente connesso alle loro capacità di trasformare le proprie tradizioni riproduttive. Anche in questo caso lo sviluppo economico "sostenibile" è un obiettivo che unisce alle preoccupazioni per gli squilibri ambientali la sfida per un livello di vita dignitoso e umano per tanta parte del mondo.