pag. 14 Briciole di sinistra di Anna Chiarloni Hans Magnus Enzensberger, In difesa della normalità e altri scritti, Studio Editoriale, Milano 1988, ed. orig. 1982, trad. dal tedesco di Claudio Groff, pp. 101, Lit. 15.000. Questa edizione delle Politische Brosamen (Briciole politiche) — pubblicate da Enzensberger nel 1982 — prende il titolo dall'ultimo dei sei saggi qui raccolti: In difesa della normalità . L'editore italiano ha dunque voluto siglare questo corrosivo libretto con il marchio della provocazione, accostando cioè il nome dell'intransigente polemista brechtiano — balzato cioè sulla scena letteraria tedesca degli anni '50 con la sua lirica Difesa dei lupi (dagli agnelli pavidi e conformisti) — ad un titolo che sa di comoda maggioranza silenziosa. L'accoppiata è stuzzicante e le aspettative del lettore non vengono certo deluse. S'incomincia con un attacco sarcastico al socialismo dei paesi dell'est. Una sequenza di brevi "storie vere" restituiscono con perfida comicità quei piccoli e grandi dissesti — domestici e ideologici — noti a chiunque abbia familiarità con la Rdt: il turismo di stato e la connessa, sistematica mancanza del tappo nella vasca da bagno degli alberghi (d'altra parte, ammicca l'autore, le autorità non possono mica pensare proprio a tutto!): le code nei negozi e l'incurabile feticismo per qualsiasi cianfrusaglia di marca occidentale: la disinformazione e l'arroganza della onnipotente burocrazia. Piccoli quadri di genere real-socialista che Enzensberger traccia con mano sicura, infrangendo bruscamente una convenzione tacita e diffusa nella sinistra tedesco-federale, quella di un prudente no comment a proposito dei guai politici ed economici dell'altra Germania. Ma Enzensberger non si limita a ironizzare sui cascami del regime vicino. Ci costruisce sopra, utilizzando i dati del reale, partendo insomma dal prodotto finale e ignorando consapevolmente qualsiasi griglia ideologica, una conclusione ben precisa, che suona all'in-circa così: visto e toccato con mano, il socialismo reale coincide col massimo sottosviluppo. Ne consegue che il Secondo (l'est europeo) e il Terzo Mondo si somigliano spaventosamente, proprio perché le esperienze sociali dei loro abitanti — dalla miseria quotidiana fino al rituale del potere — "quasi non si distinguono". E chi si volesse aggrappare a quel "quasi" sperando di far tornare i conti ideologici si sbaglia. Perché se la Romania asso- miglia al Paraguay, non si tratta per Enzensberger di un residuo del passato, ma piuttosto del fatto che a sessantacinque anni dalla rivoluzione d'ottobre "è ormai ora di considerare un'altra ipotesi: che siano cioè i regimi socialisti a produrre società sottosviluppate". Mazzate a est, mazzate a ovest: il bersaglio del secondo saggio è infatti l'economia dei paesi capitalisti, fondata — come sottolinea il titolo — sul principio della "mosca cieca". Il tema dell'irrazionalità del mondo economico è per così dire congenito in Enzensberger, nato in quel fatidico venerdì nero del 1929, come egli stesso ricorda in Curriculum vitae, una poesia dei primi anni sessanta che riconduceva il capitalismo tedesco-fe-derale alle sue origini americane. Ma se allora l'analisi disgustata del miracolo economico approdava ad una sorta di afasia, o a quelle radicali dichiarazioni di incomunicabilità che precedettero la fuga dall'opulenta "cloaca" tedesca verso l'esilio volontario in Norvegia, a vent'anni di distanza il tono si è fatto dialogico, talvolta bonario, comunque interlocutorio. Gli Installatori del Potere ad esempio — succosa descrizione del ruolo dei computers nelle elezioni americane — è un saggio che corre sulla filigrana di una conversazione occasionale, all'interno di una ben ovattata carrozza delle ferrovie federali. E qui l'autore non salta in cattedra, anzi fa un po' il babbeo che si lascia erudire da un addetto ai lavori, e il lettore con lui, alla scoperta di un modo nuovo di far politica, o meglio di non farla, all'americana appunto. Con tanto di sberleffo finale nei confronti di chi tenta una lettura ideologica, ossia europea, della nuova destra statunitense. E invece col tema dell'istruzione scolastica che Enzensberger riprende il tono dell'arringa. E il lettore italiano che ancora sognasse la realizzazio- ne effettiva della scuola dell'obbligo resta senza fiato: la vena anarchica, antiautoritaria di Enzensberger approda infatti all'abolizione della scuola pubblica e alla reistituzione ...del precettore. Basta dunque con la scuo-la-caserma, con la dispendiosa gabbia in cui quotidianamente viene rinchiusa e abbrutita la gioventù. E poiché piccolo è bello, tutti a casa, in forma di minigruppi autogestiti, senza un programma o un orario determinato, all'insegna della più genuina spontaneità. Il che può anche essere meglio dell'aula scolastica con la consueta orda di cinquanta scimmioni urlanti, salvo il fatto che il "precettore" è poi nell'utopia casareccia di Enzensberger una simbolica "Signorina Zim-merle", figura femminile e materna che ricorda tanto i tempi in cui mamme e bambini stavano a casa, irrevocabilmente annidati all'interno della singola maglia sociale. Certo che l'autore ha l'occhio attento alle femministe, la Zimmerle è infatti provvista di Volvo e di cassa scolastica — sintomi inequivocabili di nordica emancipazione — tuttavia la proposta resta rischiosa. Lo stesso Enzensberger sa benissimo che il sogno di certi genitori è un precettore che raduni attorno a sé solo "figli di dentisti", così da dare al pargolo un'educazione adeguata al proprio rango sociale, in modo cioè che in nessun caso egli venga a sapere qualcosa della realtà che lo circonda. E tuttavia Enzensberger confida nell'intelligenza e nella curiosità istintiva dei ragazzi. Sarà, ma allora il suo progetto non è poi così lontano da quello slogan di Ivan Illich da cui egli prende invece sdegnosamente le distanze: "Istruzione? no grazie!". E tuttavia il pregio di questi scritti sta nel rigore con cui si smontano e si verificano uno per uno i congegni ideologici della sinistra tedesca, dalla critica del benessere socialdemocratico — nel quale volentieri essa sguazza — al verbo della ragione ecologica; dall'obsoleta teoria della proletarizzazione della classe operaia — che intanto parte en masse per il Baltico o per Maiorca — al disgusto per il consumo. Salvo poi pretendere la piscina e l'autostrada, il teatro sovvenzionato e le cure termali per tutti. Ottenendole, persino. Ma allora l'odio per il benessere, nota Enzensberger, è l'alibi morale della nostra intellighentsia, comodamente allocata nella pingue ricchezza tedesco-federale. Una ricchezza dura a morire, conclude l'autore: tanto vale dunque "sopportare questo destino con un certo distacco e un pizzico d'ironia." Orecchie d'asino Nuccio Ordine, La cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Liguori, Napoli 1987, pp. 191, Lit. 22.000. Sulla pluralità di significati di cui si veste la figura dell'asino, in tutto un amplissimo arco di tempo che abbraccia intera la cultura occidentale, sarebbe possibile raccogliere una ricca bibliografia capace di mettere bene in luce l'impressionante ricorsività del tema. Se poi ci si sofferma a considerare come diverse letture e interpretazioni del-raasino" si addensino tra Quattro e Cinquecento (da Pontano a Machiavelli, da Aretino a Folengo), vale a dire in un momento in cui si pone, con grande ricchezza di articolazioni speculative, il problema della rappresentatività di figure di Giorgio Patrizi emblematiche (pittoriche o letterarie), si comprende facilmente come l'idea di analizzare la centralità e la produttività dell'emblema asinino è una chiave che schiude fondamentali problemi sia di ordine metodologico che di storia della cultura. Il libro che Nuccio Ordine dedica al ruolo complesso che il simbolo dell'asino occupa in due testi di Giordano Bruno, Spaccio della bestia trionfante (del 1584) e Cabala del cavallo pegaseo con l'annesso Asino cillenico (del 1585), è una precisa ricognizione di tutto l'arco dei problemi che accennavamo. Muovendo dalla tradizione — vastissima come si è detto — della letteratura sull'asino prima di Bruno, se ne coglie l'ambivalente connotazione che conduce il domesti- co animale via via a rappresentare l'umiltà, la forza, la tenacia, la fertilità, l'ignoranza, ma anche la sapienza: dalle divinità vediche al personaggio apuleiano Lucio, protagonista àeìYAsinus aureus, la grandezza delle orecchie ricorre a simboleggiare l'attitudine all'ascolto e alla conoscenza. Riguardo a questo nutrito e popolarissimo filone di valenze simboliche, Giordano Bruno si pone con una precisa rivendicazione di uno spazio originale: rispetto a quelle contrastanti significazioni attribuite alla figura ed anche rispetto a tradizioni a lui più vicine la riformulazione bruniana attinge ad una complessità problematica e linguistica di estrema complessità. Anzi, come giustamente mette in rilievo Ordine, è proprio questo desiderio di complicare i punti di vista, le prospettive della scrittura e della lettura, a costituire la fonte di quella tensione alla conoscenza e alla riflessione morale che ispira il testo di Bruno: così come identifica la figura poliedrica di un dedicatario certo idealizzato, Bruno elabora una peculiare organizzazione del mondo, dei discorsi e delle figure che lo parlano, all'insegna di una pluralità di dinamiche e di linguaggi che non permette mai di fissare l'ambito di una verità, forte e sicuro. Ma questa è già la conclusione a cui perviene l'interpretazione che Ordine dà del testo bramano, all'insegna di una "nuova alleanza" tra scienze della natura e scienze dell'uomo. Ma, ritornando al tema specifico dell'asino, nella Cabala s'intrecciano itinerari di senso che rimandano a polarità radicalmente opposte: se ha valore positivo la catena di connotazioni come fatica-umil-tà-tolleranza, assolutamente contigua è la catena di connotazioni ne- gative come ozio-arroganza-unidi-mensionalità. L'oscillare del senso, linguistico ed etico, dei simboli asinini, rimanda serratamente, nell'analisi di Ordine, all'orazione della Fortuna nello Spaccio bramano: il girare della ruota accompagna l'instabilità, la mutazione costante che è propria anche della figura dell'asino, oscillante tra prerogative umane e tratti bestiali. Le prime si addensano sul versante dell'agire e dell'errare che per Brano, dietro le suggestioni di Lucrezio, vuol dire sia muoversi senza meta sia non possedere la verità: ma proprio queste due condizioni sono quelle che presiedono alla conoscenza, che consentono all'uomo di uscire dall'immobilismo dell'ignoranza.