■K» 5 L'NPICF 34 ■■dei libri del mesehhi Verità e significato di Cesare Piandola IL LATO DELL'OMBRA collana di narrativa Djibril Tamsir Niane SUNDIATA Le gesta mitiche del grande condottiero mandingo raccontate da un «griot». Peter Abrahams DIRE LIBERTÀ a cura di I. Vivan La formazione di un giovane meticcio sudafricano attraverso il dramma dell'apartheid. Driss Chraibi NASCITA ALL'ALBA introduzione di M. El Houssì L'avventura leggendaria dell'Islam ad occidente sotto la guida di Tariq, capo berbero islamizzato. Bessie Head LA DONNA DEI TESORI a cura di M.A. Saracino In tredici racconti brevi della vita di ogni giorno, le vicende di figure femminili di grande bellezza e umanità. Hampaté Ba L'INTERPRETE BRICCONE introduzione di L. Nissim La storia di Wangrin che riesce a raggiungere la ricchezza grazie al suo lavoro di interprete, ma perde la sua identità culturale d'origine. Thomas Mofolo CHAKA introduzione di J. Wilkinson Il grande eroe zulu raccontato da uno scrittore del suo popolo in un romanzo che assume tratti di drammaticità che, in Europa, solo il teatro di Shakespeare seppe raggiungere. Maryse Condé LE MURAGLIE DI TERRA introduzione di D.T. Niane Le drammatiche vicende della famiglia Traorè sullo sfondo della conquista islamica della città di Segù e della tratta degli schiavi. EDIZIONI LAVORO Via Boncompagni, 19 - Roma Tel. (06) 4951885-4746420 Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, ed. orig. 1978, trad. dall'inglese di Giorgio Zanetti, pp. 617, Lit. 50.000. The Life of the Mind (uscita ora in accurata traduzione, preceduta da un ampio saggio introduttivo di Alessandro Dal Lago, da un prefazione dell'amica e curatrice del lascito letterario Mary McCarthy, e completata da una ricca bibliografia a cura di Simona Forti) si può considerare il testamento filosofico di H. Arendt, frutto degli ultimi corsi tenuti nei primi anni Settanta all'Università di Chicago e alla New School of Social Research di New York, nonché di una serie di conferenze nel quadro della Gifford Lectures dell'università scozzese di Aberdeen, interrotte dalla improvvisa scomparsa avvenuta nel 1975. Si tratta di un'opera filosofica in senso stretto, che nasce dal desiderio di completare sistematicamente l'esplorazione delle dimensioni dell'esistenza che l'allieva di Heidegger e Jaspers aveva iniziato con Vita Adiva (Milano, Bompiani, 1964; ed. orig. 1958). La vita attiva comprendeva l'ambito del lavoro (attività diretta al consumo e al ricambio organico con la natura; subordinazione alla necessità biologica), della fabbricazione (creazione del mondo artificiale degli oggetti e degli strumenti, subordinazione alle costrinzioni tecnico-scien-tifiche), infine dell'azione vera e pro- pria (l'autonomia e la libertà che si manifestano nella dimensione politica, quando non è inquinata dai bisogni materiali e non è ridotta a tecnica di dominio, ma è fine fn sé e per sé, godimento della "felicità pubblica"). Ma se, come recita Ugo di San Vittore, "Duae sunt vitae, activa et contemplativa", occorreva esplorare la "vita della mente" nelle tre attività spirituali fondamentali del hios theòretikos: pensare, volere e giudicare, cui sono dedicate le tre parti dell'opera, con l'avvertenza che mentre le parti sul pensare e il volere sono compiute, anche se la seconda non è stata rielaborata per la pubblicazione, la parte sul giudicare è presente solo con alcune anticipazioni nel corso della discussione e con alcuni frammenti raccolti dalla McCarthy in appendice, tratti da lezioni universitarie sulla filosofia politica di Kant. Secondo H. Arendt non solo le attività della mente appartengono alla "vita contemplativa", con un rapporto problematico e più di dissidio che di unità con la "vita attiva", ma anche "non si possono dedurre l'una dall'altra e sebbene posseggano certe caratteristiche comuni non si possono ridurre a un comune denominatore" (p. 151). Esse sono plurali e inoltre sono incondizionate: non hanno altro fine che il puro esercizio della ragione, della volontà, del giudizio; "certamente, gli oggetti del mio pensare, del mio volere o giudicare, i contenuti dell'attività della mente, sono dati nel mondo o vengono dalla mia vita in questo mon- do, ma essi, in quanto tali, non condizionano le attività della mente" (p. 153). "Tre attività spirituali fondamentali" (p. 150): benché, credo giustamente, il traduttore italiano abbia reso Mind con "mente" e non con "spirito", diversamente dalle traduzioni tedesca e francese, per evitare richiami a uno storicistico Geist, hegeliano o diltheiano, del tutto estraneo al dizionario filosofico della antistoricista H. Arendt, è da sottolineare che, per l'altrettanto antimaterialista H. Arendt, si tratta di attività spirituali distinte e contrapposte a quelle dell'anima e del corpo; sono attività che si svolgono in una regione immateriale ed hanno a che fare con thou- ght-things (enti di pensiero): "l'assenza di tali chiasmi e incroci — caratteristici del rapporto anima-corpo — costituisce l'aspetto decisivo dei fenomeni spirituali" (p. 114), afferma contro Merleau-Ponty, cui pure riconosce il merito di avere indagato la relazione tra visibile e invisibile. La preliminare separazione tra "mente" e "anima" permette alla Arendt di tagliar fuori in partenza qualsiasi riferimento ai risultati delle scienze umane che non sia occasionalmente polemico ("La psicologia, psicologia del profondo o psicoanalisi, non scopre che gli umori mutevoli, gli alti e bassi della vita psichica, e i suoi risultati e le sue scoperte non sono in sé particolarmente attraenti né molto significativi", p. 116), e di porsi all'interno della problematica strettamente filosofica delle facoltà spirituali e del loro rapporto, a partire dall'impostazione data alla questione in Platone e Aristotele ("Il più sobrio dei grandi pensatori", p. 323). Ciò che unisce il mondo dei sensi, delle apparenze, del visibile, alla dimensione a-spazia- le e invisibile della mente è il linguaggio e la sua capacità di produrre metafore: "tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire, congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto di origine" (p. 190), contesto che, heideggeriana-mente, è insieme poetico e filosofico. La Arendt si muove dunque, con un fitto intreccio di rimandi, all'interno del contesto concettuale della metafisica, per quanto approvi il verdetto nietzscheano sulla fine di quella tradizione e sulla fallacia dell'opposizione tra "essere" e "apparire": respinge vigorosamente la teoria dei due mondi lasciata in eredità dal platonismo e afferma il "valore della superficie", critica con la stessa radicalità dei filosofi di Oxford le ipostasi metafisiche, siano esse il mondo delle idee, l'ego cartesiano e husserliano, l'"arcobaleno dei concetti" dell'idealismo tedesco. Ma mentre gli empiristi vedono nelle fallacie metafisiche errori logici o questioni prive di senso, la tradizione metafisica viene recuperata dalla Arendt non nelle sue soluzioni, non più plausibili, ma come indizio di reali esperienze "connaturate alla condizione paradossale di un essere vivente che, sebbene sia parte del mondo delle apparenze, è in possesso d'una facoltà, la capacità di pensare, che permette alla mente di ritrarsi dal mondo" (p. 128). Non si tratta per la Arendt di un'attività eccezionale che contrappone il filosofo agli altri uomini. Dalla stessa radice, la capacità di stupore (thaumazein), nascono sia il pensiero filosofico sia il comune ritrarsi dal mondo della vita quotidiana e dal suo fitto tessuto di significati consolidati in abitudini e comportamenti anonimi; ritrarsi che accade quando siamo distratti, immaginiamo, ci immergiamo nei ricordi. Una delle sollecitazioni a intraprendere la ricerca sui poteri della mente è indicata dalla Arendt nel problema della "banalità del male", che aveva toccato con mano in occasione del processo Eichmann (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964; ed. orig. 1963). Il criminale nazista appariva un essere del tutto ordinario, dominato dalla routine e dai clichés, come tutti, ma più degli altri segnato dalla "mancanza di pensiero", cioè della comune capacità a prendere le distanze dalla realtà per interrogarsi intomo al suo significato: un potere che ha qualcosa a che fare con l'etica, cioè con il mondo dei valori e dei significati. Non che il pensiero ci faccia conoscere il bene e il male, e nemmeno il vero e il falso. Qui incontriamo una tesi forte del libro. Le fallacie metafisiche hanno origine nella confusione tra ragione e intelletto, che la Arendt assume non in senso hegeliano ma quasi kantiano (un Kant reinterpretato secondo la lettura datane da Eric Weil). "Il bisogno di ragione non è ispirato dalla ricerca di verità ma dalla ricerca di significato. E verità e significato non sono la stessa cosa" (p. 97, corsivi dell'autrice). Come ha commentato acutamente Agnes Heller (in La Politica, sett. 1986) conoscenza per la Arendt equivale a scienza e questa a techné strumentale; le attività superiori, spirituali, come il pensare o l'agire politico autentico, sono in linea di diritto del tutto disinteressate. Il pensiero ha il suo modello in Socrate (pp. 259-289), cioè in un interrogare che è, diversamente dalla ratio strumentale, fine a se stesso e non ha altro risultato che la distruzione di "tutti i criteri fissati, i valori condivisi, le unità di misura del bene e del male, insomma tutti i costumi e le regole di condotta di cui si tratta nella morale e nell'etica" (p. 269). Il pensiero insomma permette di prendere le distanze dalla hegeliana eticità e apre indirettamente, ma solo in- 0 L'altra metà della politica di Pier Paolo Portinaro André enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Edizioni Lavoro, Roma 1987, ed. orig. 1984, trad. dal francese di Rodolfo Granafei, pp. 238, Lit. 20.000. Due dati dell'esperienza e della riflessione hanno segnato l'intera parabola intellettuale di Hannah Arendt, la più indomita e luminosa militante della ragione fra quegli eredi della filosofia classica tedesca che in questo secolo hanno ancora osato interrogarsi sulla natura della politica, su quell'ambito dell'agire umano da cui l'uomo sembrava ormai essere stato spodestato. Il primo fu l'epifania dell'antipolitica, quella perversione estrema del dominio che lei stessa qualificò e analizzò come totalitarismo. Il secondo può essere riassunto dalla constatazione che nella più generale crisi della modernità di cui tale perversione non rappresentò che la punta estrema, si consumò il divorzio tra filosofia e politica. Con Marx la grande tradizione occidentale del pensiero politico, che in Platone aveva avuto il suo iniziatore, era giunta a termine. Così, i grandi filosofi venuti dopo Hegel, Kier kegaard e Nietzsche, Husserl e Heidegger, avrebbero mostrato una singolare incomprensione, talora persino avversione, nei confronti della politica. Soprattutto per questo motivo, e non solo in polemica con un precoce sviluppo filosofico che aveva sacrificato le ragioni libertarie della prassi a quelle autoritarie del dominio, la Arendt amava dichiarare di sentirsi estranea alla cerchia dei filosofi. Il peso di questi fattori nell'intreccio di fili che la legano al proprio tempo mi sembra essere stato ben colto dal lavoro di André Enegrén (a mio gusto la migliore monografia, fra le non poche apparse in questi ultimi anni, quasi ovunque ma non da noi, sulla grande allieva di Heidegger e Jaspers). Il titolo umile e un po'anodino, benché non fuorviante, non lascia forse presagire la ricchezza e la finezza della lettura filosofica che vi è tentata: ma il libro poco trascura della vasta produzione dell'autrice di The Human Condition e The Life of the Mind — due fra le opere maggiori della filosofia del Novecento: anzi, se si volesse fare un rilievo, andrebbe osservato che sono piuttosto gli scritti suoi più immediatamente politici — ad esempio sul sionismo e sullo stato d'Israele — ad essere stati tralasciati a vantaggio di un esame accurato delle categorie filosofiche chiave del suo discorso (lavoro, opera, azione, spazio pubblico, tradizione, rivoluzione, fondazione). L'autore non esita a rilevare le asperità dottrinali, le forzature storiche o le "audacie interpretative" della Arendt, ma lo fa con garbo e discrezione, senza insistervi troppo, lasciando trasparire la sua simpatia per quell'approccio radicale ai problemi, per quel portare al limite l'osservazione fenomenologica, per quel rispondere interrogando che ne modula l'andatura di pensiero. E riesce convincente, almeno dal punto di vista filosofico, laddove centra la sua lettura sulla nozione di tradizione e fa del concetto di memoria una chiave d'accesso privilegiata agli aspetti più "remoti" del pensiero di Hannah Arendt. Se si volesse dare una definizione di questa originale filosofia si potrebbe forse parlare di un'ermeneutica del non-più come non-ancora: Enegrén ci addita una simile interpretazione argomentando che per la Arendt "liberare il passato resta l'unico modo per liberarsi dal passato" (p. 214). L'adeguata comprensione di quegli aspetti che fanno della sua filosofia una "metafisica dell'inaugurale" ancor tutta calata nella tradizione sgombra il campo da qualsiasi sbrigativa compa 0