N. 5 L'INDICE « » ■■dei libri delmeseBH Malavita in grande di Saverio Tutino Armi e droga. L'atto d'accusa del giudice Carlo Palermo, con un saggio introduttivo di Pino Arlacchi, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 160, Lit. 16.000. Da anni, chiunque abbia la capacità di reagire con un minimo di percezione sintetica alla lettura dei giornali ha potuto rendersi conto senza grande sforzo che il traffico illecito di armi s'intreccia con quello della droga. Con uno sforzo appena leggermente superiore. Il lettore comune dei giornali avrà intuito che entrambi questi traffici, poi, si mescolano con la macchina politica e soprattutto con quel prolungamento della politica in tempo di relativa pace che è il terrorismo. C'è anche chi ha provato a sostenere pubblicamente questa ipotesi; che certe deviazioni nell'occulto di poteri dello stato abbiano a volte strumentalizzato per fini antidemocratici i suddetti, loschi traffici internazionali. L'atto di accusa del giudice Palermo contro i responsabili del traffico internazionale di armi e i centri nevralgici del mercato dell'eroina aprì nel 1984 i primi spiragli di luce su fatti che prima s'intuivano, senza conoscerli. L'istruttoria di Palermo ebbe inizio nei primi anni Ottanta. Il risultato fu depositato il 15 novembre 1984. Il volumetto che adesso ne hanno tratto gli Editori Riuniti è più che un documento per un'ipotesi di lavoro. E materiale di studio dal quale si può ricavare la conferma di un teorema. Lo enuncia così Arlacchi: a partire dai primi anni Ottanta, un'evidente contrazione nel mercato mondiale degli armamenti aggravò gli squilibri già esistenti all'interno di queste grandi correnti affaristiche, dando impulso a un sempre crescente mercato illecito. L'aumento della quota dei trasferimenti clandestini ha comportato poi lo sviluppo di azioni scopertamente criminali; e per evidenti scopi di selvaggia concorrenza si è parallelamente incrementato "l'uso di personale specializzato nell'esercizio della violenza". Il linguaggio "casto" dello studioso conferma, così, l'intuizione "avventurosa" formulata fin dai tempi dell'attentato al papa. Era quello solo uno dei primi clamorosi episodi in cui si svelava un certo concorso di motivi scatenanti, una convergenza obbiettiva fra interessi mafiosi, "piduisti" e terroristici, legati in qualche modo ai traffici incrociati di armi e stupefacenti. Ma perché si rendeva necessario il ricorso al crimine (anche al clamoroso crimine politico), aumentando i rischi di un'attività già di per sé ampiamente illegale? Arlacchi dice: "per proteg- gere investimenti non tutelati dalle leggi, per scoraggiare concorrenti aggressivi, per esigere crediti ed eliminare testimoni ed oppositori". Io aggiungerei che l'organizzazione criminosa cominciava a operare anche per ostacolare la trasparenza di certi obbiettivi politici e favorire disegni opposti, adatti a stabilizzare tensioni, a mantenere torbida l'atmosfera, a coprire di cortine fumogene i percorsi mafiosi, nei punti nevralgici di illeciti traffici internazionali. La lettura di un'antologia di testimonianze, documenti e interrogatori quale è la scelta dei brani dell'istruttoria Palermo è in questo senso molto illuminante. L'immagine di certi intrighi e delle relative implicazioni diventa di una nitidezza impressionante. "Terrificante" è l'aggettivo che il giudice adopera, in quella parte della sentenza che si riferisce alle tangenti: "Tangenti per gli intermediari, tangenti per i governi, tangenti per i Servizi rappresentano solo il quadro finanziario o lo scheletro di operazioni le quali — siano esse di spionaggio o di controspionaggio o di spionaggio industriale o di effettive forniture militari — sempre risultano poste in essere con una gravità per i paesi interessati (quasi tutti in guerra), e con una forza di pressione anche solo politica, terrificanti". Questi paesi formavano un "impero". Il cuore di quell'impero fu per lungo tempo l'Argentina dei generali. Lungo una traccia che passava attraverso i continenti si sviluppò un terrorismo di stato, che prolungava fino a noi le sue suggestio- ni. L'Italia allora non era in guerra, ma quella particolare guerra si faceva sentire anche qui, con l'insorgere di fenomeni criminosi di tendenze apparentemente opposte, che convergevano sull'obbiettivo di corrodere i poteri dello stato democratico. Anche in Italia, certe deviazioni dei servizi sembravano agevolare il terrorismo per servirsene ai propri fini. Proviamo a seguire il ragionamento del giudice Palermo sul percorso di certe armi. Il suo schema d'interpretazione è stato recentemente ripreso, pari pari, dal pubblico ministero Nelson Salva-rani, nel processo celebrato a Venezia contro un certo numero di trafficanti: "Io sostengo la tesi" ha detto Salvara-ni "che l'intermediazione e i rapporti estero su estero sono penalmente rilevanti, per la semplice ragione che le armi possono tornare indietro: dall'estero all'interno. Le armi, cioè, possono essere usate da gruppi terroristici stranieri sul territorio del nostro paese e possono essere usate, ed è già accaduto, anche da gruppi terroristici nostrani". Questa ipotesi attende di essere chiarita meglio. Già sembra evidente che l'humus nel quale certi traffici potevano prosperare aveva bisogno del terrorismo come di un primario elemento. Il chiarimento ufficiale tarda, e per comprensibili motivi: ci si troverebbe ad indagare appunto sulle opportunità offerte da certi rami dei servizi al partito armato, una tesi che invece è solo accennata in un libro — molto contestato da certi settori politici — di Giorgio Galli, Storia del par- tito armato. Tale tesi è ostinatamente negletta o rifiutata sia da ideologisti di sinistra, sia da poteri che hanno evidentemente strumentalizzato certe dosi di terrorismo, al posto giusto e al momento giusto, per poi disfarsene con l'esilio, il carcere, il pentitismo, la dissociazione e magari per riutilizzarle adesso con la proposta del perdono e il relativo falso dibattito sui giornali e alla Tv che permette di accrescere la confusione. L'intrigo è complicato e non facile da capire. Qui torna utile il libretto degli Editori Riuniti. Il memoriale del capitano Angelo De Feo sul mercato delle armi è un documento importante per cogliere il bandolo della matassa. Già funzionario dei servizi di sicurezza militari, il De Feo ha visto con i propri occhi e ascoltato con le proprie orecchie. La sua testimonianza si riferisce — nella parte centrale — a un traffico di pistole Beretta, vendute alla Bulgaria, che poi vengono passate alla Turchia e infine all'Irak, da dove ritornano in Italia per armare terroristi, mentre i servizi di sicurezza chiudono un occhio ("ma che te ne frega a te dei turchi?" si sentì rispondere De Feo da un collega meno scrupoloso o più furbo o politicamente più informato di lui). Il lettore è condotto per mano a capire che quel traffico, evidentemente, non aveva solo fini commerciali. E la domanda che si pone è questa: sono mai state raffrontate la matricole delle armi sequestrate ai terroristi con quelle delle armi autorizzate all'esportazione, o lasciate passare attraverso i nostri porti, da certi settori dei nostri servizi? Non risulta. Eppure era lo stesso Sid che faceva propaganda alle nostre industrie di armamenti. Si dice che non si tratti di problemi morali, ma di scelte politiche. La sentenza del giudice Palermo, che dimo- stra la stretta sovrapposizione tra interessi, uomini e risorse del mercato delle armi con quelli del traffico internazionale delle droghe pesanti, non è stata accolta in tutte le sue linee dal tribunale di Venezia. Questi ha giudicato in gennaio una trentina di imputati per traffico illecito di armi e per associazione a delinquere. Vi sono state alcune condanne. Molti accusati sono stati assolti. Ma le tesi di fondo dell'istruttoria sono uscite confermate: l'intermediazione di armi acquisite all'estero e vendute fuori d'Italia — ha sancito quel tribunale — devono essere penalmente perseguite. Sappiamo dell'isolamento creato intorno al giudice Palermo a causa delle conclusioni alle quali era giunto. Sappiamo dell'attentato al quale sfuggì per miracolo in Sicilia, e del suo confino attuale in un ruolo di scarso rilievo al ministero di Grazia e Giustizia. Un'altra inchiesta ora è in corso, sulla pista politica della vicenda. E un altro giudice, Mastellone, è andato avanti sulla strada dei risvolti politici dei traffici d'armi. Ma a un certo punto, sui documenti del Sismi, anche lui è stato bloccato dal presidente Goria. Nel frattempo, il "personale specializzato nell'esercizio della violenza" ha ucciso in Europa, in due anni (1985-1986) una decina di militari e funzionari civili addetti, presso ministeri della Difesa o fabbriche nazionali di armi, alle autorizzazioni per l'export di questi prodotti. Si è parlato in proposito di un'agenzia criminale specializzata, che opera in Europa al servizio di chiunque abbia i mezzi per acquistarne i servigi. I "media" hanno preferito definirla genericamente "eu-roterrorismo". Italia, Francia, Spagna, Germania, Belgio e Svezia hanno avuto ciascuno uno o più morti, a questo livello, senza che mai sia stato scoperto un colpevole. E non è solo questo stillicidio di sangue di servitori dello Stato di alto grado militare o burocratico — un fenomeno continuo dallo stragismo mafioso a quello di marca mediorientale — che disegna contorni precisi del fatto criminoso. Quando a Fiumicino i carabinieri hanno scoperto il contrabbando di decine di tonnellate di bombe destinate all'Irak, i fabbricanti di armi avevano appena chiesto al governo italiano di abolire le restrizioni che rendono illeciti certi commerci. Le cronache sono piene di episodi simili sintomatici di una volontà generale di "deregolamentazione" che tende a dissolvere i compiti fra lecito e illecito nei rapporti internazionali. Questi episodi sono rivelatori di un pericolo più grave. Come conclude Arlacchi, certe connessioni ormai lampanti minacciano "le tradizionali possibilità di controllo della violenza e della provocazione su grande scala, detenute fino a qualche tempo fa dalle superpotenze". Che è come dire che presto la grande malavita non potrà più essere controllata. Questa immagine è netta, e immediatamente ne deriva la sensazione di conseguenze disastrose che si ritorcerebbero contro gli stessi poteri che hanno evocato il mostro, usandolo per un tratto come strumento politico. Nemesi che sgomenta, collocandosi a tutte le altre già evidenti prove negative su ciò che produce, nella natura e ti a gli uomini, un "progresso" puramente materiale, che sfugge al dominio della coscienza civile, per entrare nell'ordine dell'imprevedibile, sempre in agguato sulle incerte frontiere attuali dell'umanità. CliLIBRiX-SCUOLA distribuzione Casa Editrice Marietti Scuola spa Storia della letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni di ELIO GIOANOLA in appendice DIZIONARIO DI METRICA, POETICA E RETORICA di Giorgio Bertone pagg. 736, L. 33.000 Una storia letteraria fuori dagli schemi dello storicismo e dell'idealismo. 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