L'INDICE n ■■dei libri del meseHH L'Autore risponde_ Novecento conflittuale Non è facile rispondere a un recensore perché si corre sempre il rischio non solo di intervenire nello spazio interpretativo che gli spetta di diritto, comunque egli ne faccia uso, ma anche di sovrapporre al disegno di un discorso concluso l'intenzionalità, il proposito che l'autore aveva in mente nel suo progetto e che forse non è riuscito a esprimere. L'estetica della ricezione esige in fondo un ethos oggettivo, per quanto ogni ermeneutica che vi si associa debba poi fare i conti con il non detto, ossia con le ellissi di ogni scrittura, anche quella di un saggio storiografico o erudito. Quando infine il lettore critico, come è accaduto a Giulio Ferro-ni nel discutere il mio contributo per il Novecento Garzanti, non manca di riconoscimento e addirittura di lodi, la possibilità di una replica diviene ancor più problematica: a meno che non si traduca in un ringraziamento, tutt'altro che convenzionale,per la generosità della sua attenzione, e insieme in un dialogo su ciò che divide il recensito da colui che lo recensisce. Ogni tanto conviene mettere a raffronto procedure, categorie, convenzioni, e qualche volta anche storie personali. Comprendere significa proprio dialogare, percepire e assumere le differenze dell'altro. Non sta a me, ora, di sottoporre a una controprova l'immagine che Fer-roni riproduce del mio itinerario "sinuoso" attraverso la "modernità" progettuale o riflessa del Novecento italiano. Che egli accetti o sottolinei certi nodi, certi episodi più di altri, è un atto non solo ragionevole ma addirittura dovuto, anche se può portare a una semplificazione di molti "particolari", che pure sono parte essenziale del quadro nel suo movimento intrecciato di "richiami" o di "analogie". Persuade meno, invece, la deduzione riduttiva ma paradigmatica di "una dialettica tra modernità e tradizione, tra ricerca del nuovo e continuità col passato", che sarebbe il fondamento di tutta l'analisi diacronica, poiché in realtà, sempre che l'autore non cada in un abbaglio prospettico e autoreferenziale, ciò che viene posto all'origine delle "poetiche della modernità" e della "vita letteraria" è il rapporto contraddittorio, la discordanza strutturale tra modernità e modernizzazione, con conseguenze che giungono sino ad oggi, in piena età postindustriale. Così la ricerca delle proprie radici, da parte delle generazioni novecentesche, si ripete nel tempo, mentre la società italiana si trasforma profondamente, come un confronto quasi obbligato con le immagini e le avventure del primo Novecento, come una domanda, spesso polemica ma sempre vitale, sul senso del nuovo dopo la rottura irreversibile della fin de siècle imperialistica. Ed è ovvio, allora, che la riflessione letteraria non possa andare disgiunta da quella, per così dire, sociologica, così come l'ethos della forma rimanda, anche quando sembra negarlo, all'universo drammatico della storia e dei suoi conflitti. Restava poi all'interprete di non sconfinare in territori assegnati ad altri e di delegare ai documenti, con la spregiudicatezza di una "erudizione" funzionalmente allusiva, questa sorta di polisemia o bivocalità storiografica. Anche un saggio critico, tanto più se all'interno di una impresa a più mani, deve cercare di convertire i suoi obblighi pragmatici in principio immanente della propria costruzione, rispettando, senza nascondersene le difficoltà, la logica duplice del ragionamento e del racconto, del fatto e di Ezio Raimondi del giudizio. Ma a questo punto, dopo aver segnalato il "gusto barocco per la proliferazione" (dove barocco non equivale certo a senso architettonico), Ferroni, con l'occhio rivolto soprattutto al terzo capitolo "più rapido, e forse un po' sfasato rispetto ai due precedenti", osserva, non più sul pia- no delle "illuminazioni inedite" ma su quello dei principi, delle opzioni globali, che alla fine la "storiografia dialogica pluralistica" di Raimondi, nonostante la sua ricchezza di temi contrapposti o divergenti, sacrifica proprio la "dimensione conflittuale ed antagonistica": il risultato sarebbe un "organico e quasi pacificato corpo intellettuale" senza fratture, una "maschera unitaria della modernità", un "panorama inquieto ma solidale e conciliato", quasi un ritorno a "un consenso omologante, a un equilibrio in cui tutte le posizioni abbiano un loro riconosciuto spazio istituzionale". Può darsi che sia così, di là dalle intenzioni del soggetto sotto giudizio, che deve prendere atto, per parte sua, di questa oggettivazione ermeneutica. E tuttavia viene da chiedersi, se mi è consentito ora il ruolo di secondo lettore, che cosa intenda Ferroni per pluralismo e per conflittualità, dal momento che egli confonde un sistema, un insieme dinamico e Buttante di relazioni e di differenze, di contrasti, di aporie, con la nozione idealistica di un organismo, di una totalità conciliata, retrospettivamente concorde. Stabilire dei legami o delle corrispondenze non significa affatto cancellare i conflitti e certi accostamenti, come dovrebbe risultare da una semplice lettura delle pagine in questione, possono equivalere a figure di contrasto, a paradossi dialettici, ad antitesi fattuali. Naturalmente c'è modo e modo di presentarle, magari ricorrendo alla "dispositio" dell'ironia, a quella implicita, se non altro, nel montaggio dei documenti e degli esempi. E spesso l'ironia può avere un movente polemico, che però si misura con l'etica della finitezza dialogica, della ragione probabile e quindi non dogmatica. Anche l'uso di Serra, che nel terzo capitolo è visto attraverso la rifrazione di Debenedetti, con un anticipato riferimento gramsciano, ubbidisce di fatto a una intenzione polemica e ironica, che non accetta la figura istituzionalizzata dalla tradizione novecentesca, compresa la sua interna replica negativa, e avvalora piuttosto il paradigma anomalo dell'osservatore inattuale — proprio nell'accezione nietzschiana —, della monade critica che dietro il testo scopre il mercato e il pubblico. La sociologia della letteratura può nascere, dopo il positivismo e la rimozione idealistica, dall'inquietudine gnoseologica di un kantiano moderno, irriducibile alle illusioni di una storia che progredisce all'infinito senza vittime e senza lacerazioni. Di qui allora, continuando sino agli anni trionfanti dei mass-media, il tentativo di passare dalle poetiche e dalla loro implicita apparecchiatura retorica all'universo reale dei lettori, ai nuovi soggetti del consumo letterario: di nuovo, si capisce, nei limiti imposti di una descrizione di scorcio, per figure e temi essenziali. Senonché a giudizio di Ferroni questi "richiami al pubblico restano indeterminati" in quanto "lasciano fuori tiro le stratificazioni conflittuali tra pubblici diversi, tra pubblici possibili e pubblico reale, e gli effetti di deformazione che sul rapporto col pubblico operano i mass-media e i poteri che fi controllano". Una "ottica militante" deve spingersi sino a un "pubblico altro" inventato, quando sarà possibile, da "qualche voce conflittuale, qualche scrittore che sappia porsi contro il nuovo genere di consenso". Per la verità, anche il saggista messo così in discussione dice qualcosa di simile, ma in un altro modo e in un altro lessico, certo meno sicuro e perentorio, senza il rigorismo di una dialettica bloccata a priori, persino sulle opzioni del futuro. Egli non è affatto "aperto e disponibile" al post-moderno o al neo-barocco, come scrive il recensore, ma si limita a registrare un fenomeno tematizzato in questo tramonto di secolo, prendendone le distanze attraverso un'altra idea di barocco, sempre che non s'illuda nella sua strategia argomentativa, e assegnando alla letteratura, nell' orizzonte del desiderio e del rischio diagnostico personale, non la formazione obliqua del consenso ma il luogo d'eccezione, dell'anomalia che investe anche il lettore, dove la distrazione, e il termine non a caso è mutuato da Benjamin, può alla fine trascendere se stessa. Perché altrimenti, al termine di un percorso costruito sulla "citazione allusiva", sul "gusto per particolari in apparenza marginali ma carichi di senso", chiamare in appello Hòlderlin o Orwell? Sarebbe proprio strano che una "storiografia pluralistica", la quale non prevede una sintesi teleologica, dopo aver rivendicato una parte primaria anche agli eretici e ai vinti mettesse tra parentesi, nel suo epilogo provvisorio, la dura fattualità del conflitto, del fraintendimento, della contrapposizione non negoziabile. Ma questo, inutile dirlo, è un problema le cui radici si trovano fuori della letteratura, in quello che Bachtin chiama il contesto della parola, il suo complemento e la sua matrice sociale. In ultima analisi, a parte i riscontri e i dissensi specifici di ogni lettura attiva, ciò che divide Ferroni dal suo interlocutore delle Poetiche della modernità è forse la nozione di pluralismo dialogico, che a lui suona sospetta se non si correla e non si subordina a quella di conflitto, mentre gli interessa meno il ruolo degli uomini, il paesaggio conflittuale nella sua molteplicità di voci e di intenzioni, il dialogo teso e difficile che scaturisce, dissonante ma vivo, dallo scontro dei "punti di vista", dei "mondi vitali" in cui si incarnano sempre le ideologie. La complessità non si può ordinare in un modello meccanico di opposizioni, con un giudizio prestabilito che può ridurre al minimo l'istruttoria dei documenti o accoglierla soltanto come prova secondaria di un abile intreccio erudito. Diceva Lucien Febvre che lo storico non è un giudice o un procuratore d'ufficio, ma un interprete che deve "far capire", e capire significa sempre distinguere l'individualità dell'altro entro una struttura dialogica che non ignora la minaccia, la tentazione continua della violenza. Che poi Ferroni sia d'accordo, anche su una sigla così pacifica e datata, è tut-t'un altro discorso. Intanto, prendendo congedo a mia volta, non mi rimane che ringraziarlo per l'occasione di un dialogo che spero non inutile. Il ringraziamento, a maggior ragione, va esteso ai suoi promotori, così tempestivi e ospitali. Pier Paolo Pasolini IL PORTICO DELLA MORTE prefazione di Cesare Segre XXX + 320 pagine, 28.000 lire Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini distribuito da Garzanti 0 dell'ultimo Moravia (escluso, spero, 1934). Criteri che confondono la diagnosi e la terapia. Moravia rappresenta in modo anatomico i rapporti sessuali, per descrivere il nostro deserto e per suscitare una reazione. E vi riesce. Dove mai si provano più sdegni e rivolte se non di fronte agl'impietosi e freddi romanzi dell'ultimo Moravia? Sciascia rappresenta in modo anatomico il potere, non solo mafioso, perché per lui il potere, oltre che essere qualcosa di molto concreto, è anche una forza quasi metafisica. Non si tratta comunque di nichilismo, ma del coraggio di fissare ad occhi nudi una realtà più inquietante. In entrambi i casi si produce una catarsi, in Moravia morale, in Sciascia intellettuale (oltre che artistica, certo), che a me sembra molto più educativa, anche in vista dell'azione, d'una più lineare ed esplicita presa di posizione. . I ! ' •! r» IM L14 S3" Fantascuola Prefazione dì Memo Ludi 200 pagine. 20.000 lire Diciotto fantastici racconti su come non dovrebbe essere la scuola del Duemila. Dislrihimoni' Coccinella l ibri f. Pramcro \l Castalia