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mi dei libri del mese wkè
Efficacia dell'empirismo
di Attilio Bartoli Langeli_
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me a questo dramma contribuisca la divisione e specializzazione dei linguaggi che è una caratteristica sempre più determinante del modo di comunicare contemporaneo. In un saggio su questo argomento, Roland Barthes ha descritto una situazione del tutto pinteriana: "Ci fissiamo nel linguaggio del nostro cantuccio sociale, professionale, e questa fissazione ha un valore nevrotico: essa ci consente di adattarci bene o male alla frantumazione della nostra società" (La division des langages, 1973). Di personaggi linguisticamente fissati, il cui rapporto con gli altri è fondato sulla difesa/offesa che consente la conoscenza di un gergo specialistico e settoriale, sono pieni i drammi pinteriani — dal Mick di II custode, che si impone macinando formule da manuale di arredamento e percorsi di autobus londinesi, al Disson di II té, che nasconde il senso del proprio fallimento dietro la nomenclatura tecnica dei passatempi di una buona famiglia borghese. Come nelle fisionomie composite dell'illusionismo barocco, la loro identità si costruisce, e si nega insieme, in un accumulo di stereotipi, frasi fatte e convenzioni proprie di un ruolo separato, col risultato che a emergere e a brillare sono puri virtuosismi verbali, mentre si oscura sempre di più il loro contesto, la "storia" individuale e collettiva, di personaggi e di uomini, che li teneva insieme nel teatro tradizionale.
Questo procedimento è bene illustrato in un testo come II bicchiere della staffa, cui ora limitiamo il nostro discorso, tralasciando il brevissimo Monologo che lo accompagna nel volumetto einaudiano. Il registro è politico, di una politica connotata in senso totalitario: dato l'anno della messinscena, il 1984, lo possiamo considerare una messa a punto dell'anti-utopia orwelliana — che, è il caso di ricordare, si rifaceva ai regimi comunisti solo come ai rozzi primordi della futura organizzazione planetaria. I personaggi sono quattro, ma solo uno di essi è sempre in scena, una specie di poliziotto-inquisitore che ha di fronte a turno gli altri tre — marito, moglie, e il loro figlio di sette anni.
Si direbbero scene di interrogatorio, se a parlare non fosse quasi sempre il poliziotto, che pone qualche domanda a caso, e aspetta la risposta come imbeccata per dar sfogo a una parlantina ansiosa e petulante, piatta rifinitura verbale dei ruoli di funzionario, patriota, credente, uomo d'azione e maschio nei quali ama presentarsi. Con un sobbalzo, riconosciamo che egli parla secondo modi e generi a noi del tutto familiari: il
volantino, la circolare burocratica, la pubblicità elettorale, la predica dal pulpito, il brindisi al banchetto ufficiale, la lettera che chiede il voto e promette miracoli. E a fronteggiare questo muro di vacuità solo i volti contusi delle vittime, il loro muto isolamento, la loro voglia di morire: di una loro vicenda non esistono che tracce inessenziali — sono intellettuali, e il bambino si è ribellato in qualche modo ai "soldati di Dio" — subito fagocitate dal flusso retorico e narcisistico del potere. Nulla essi hanno da rivelare, a nulla vengono forzati, e le parti dell'interrogatorio si capovolgono nell'epilogo: a rivelare qualcosa è il poliziotto, ed è che il bambino è stato tolto di mezzo.
Orwell non è lontano, ma è diventato iper-realistico, a un tempo più banale e più sinistro; non abbiamo più, come in 1984, la filosofia del potere totalitario esposta in ordinato, paradossale sistema dal capo della rivolta che è anche capo della polizia; abbiamo invece la distrazione continua, la fuga da ogni scambio reale, l'inutilità dell'interrogatorio stesso; abbiamo l'organizzazione del consenso che esibisce i suoi ingredienti più usuali, il suo linguaggio popolare, le sue tecniche dozzinali, il suo invito ad "adattarsi bene o male alla frantumazione della nostra società", contro uomini isolati e ridotti al silenzio, la cui sconfitta non può più tradursi in una storia.
Giorgio Raimondo Cardo-
na, La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, Laterza, Bari 1985, pp. 198, Lit. 19.000. Giorgio Raimondo Cardo-
na, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981, pp. 244, Lit. 17.000.
Cardona è specialista di molte cose, ma conviene presentarlo come specialista della scrittura. Non solo
nel senso che lo studioso si occupa dei fenomeni della scrittura (ne riparleremo), ma, intanto, nel senso che egli possiede una capacità di scrittura che ne fa, specialmente per chi impiega una settimana per terminare una recensione, un autentico fenomeno. La prolificità in sé non sarà caratteristica soltanto sua. Il fatto è che Cardona pubblica a getto continuo, con una progressione che fa prevedere ulteriori exploits a breve scadenza, non (solo) monografie o saggi, ma manuali, volumi di sintesi suTarghi settori tematici e disciplinari: un genere, questo, che dovrebbe essere occupato da autori di antico prestigio e matura esperienza, mentre Cardona è del '43. Dalla Introduzione all'etnolinguistica del 1976 (Il Mulino), passando per Antropologia della scrittura (Loescher, 1981), si arriva ora all'uscita quasi contemporanea di due libri, tra loro collegati: I sei lati del mondo, sul tema dei rapporti tra linguaggio e percezione, recensito qui da Dressler; e La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, nella Biblioteca Universale Laterza (n. 137) — definizione: "Quella che qui chiamiamo etnoscienza è la somma teorica dei saperi pratici sul mondo posseduti da una comunità: saperi che abbiano valore di sapere e non di credenza, esplicitabili se necessario, verificati attraverso l'esperienza, resi coerenti" (p. 36). Si dovranno aggiungere lavori di impegno e di ampiezza tematica non minori, come i due numeri monografici di "La ricerca folklorica" da lui curati, dedicati l'uno a Antropologia simbolica. Categorie culturali e segni linguistici (1981), l'altro a La scrittura: funzioni e ideologie (1982); o come il cospicuo saggio su Culture dell'oralità e culture della scrittura pubblicato nel secondo volume della Letteratura italiana, Einaudi (quello su Produzione e consumo) del 1983.
Tali operazioni, e specialmente i manuali, si giustificano per l'umile proposito di riempiere dei vuoti, e si qualificano dunque per l'originalità del tema o dell'angolazione o della trattazione. Ma anche per un'originalità formale, di scrittura appunto. La maniera manualistica di Cardona non è sorretta da quei criteri che l'opinione comune potrebbe ritenere intrinseci al genere-manuale: cioè sistematicità, completezza, progressione espositiva e definitoria. Invece c'è un assai libero procedere per accensioni spontanee (così appaiono) d'interesse, un seguire con uguale
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ne (sui canti LXXII-III), Marilla Bartilana (sui primo cantos e gli ultimi frammenti), Bianca Tarozzi (sui rapporti con A.E. Housman), e Giuliano Gramigna (sui "volti tra la folla" della famosissima In the Station of the Metro), e ancora (ricche) testimonianze di chi con Pound ha lavorato (o ha avuto ragione di conoscere): Giuliano Manera, Vanni Scheiviller, Giuseppe Santomaso.
Due generazioni di poundisti (italiani), alcuni tra i nomi più prestigiosi dell'americanistica italiana, a confronto tra loro e con la critica intemazionale, un lavoro di specialisti, ma non un lavoro esoterico, anzi la possibilità per chiunque ami la poesia del novecento di cogliere di scorcio un bilancio sintetico del lavoro che si viene facendo su questa figura centrale.
Rapallo, con una mostra e un bel catalogo, si è mossa verso una ben diversa sistemazione di un fenomeno complesso come quello dell'attività di Pound poeta e intellettuale. E un collocare rivelatore di questo poeta internazionale dentro il paesaggio ligure, un rapporto elegantemente delineato nel saggio di apertura ma soprattutto reso tangibile nel teso contrappunto tra versi poundiani e foto. Una collocazione dentro un paesaggio intellettuale in fondo di provincia a cui la partecipazione di Pound co-
me critico letterario e musicale e organizzatore di concerti, che il catalogo largamente documenta ristampando gli interventi al giornale locale, porta un soffio e una presenza internazionali (una messa in prospettiva a cui contribuiscono anche alcune testimonianze famose come la ristampa del "pacchetto per E. Pound" di W.B. Yeats del 1928 e l'articolo di Montale per il Corriere della Sera del 1945, e di altre meno famose ma di grande interesse).
I centenari sono inevitabilmente momenti di bilancio e di sistemazione; di questo riparla già da sola perfino la presenza tattile e visiva del raffinato volume mondadoriano dei Cantos, che completa le "gemelle" 1.400 pagine delle Opere Scelte pubblicate già nel 1970, segno entrambi di una antica e meritata fedeltà.
Eppure non manca una nota di malinconia nella sensazione che di Ezra Pound si vada ormai tranquillamente facendo un "classico sorte sublime e disperante per un intellettuale come lui, sorte che mi piacerebbe veder rimandata almeno fino al centenario della morte perché l'energia, le contraddizioni, la forza dei versi e degli umori, la tensione e lo sforzo verso un grande poema with history in it, che faccia i conti con la storia, che nutrono la poesia di Pound hanno ancora troppa vitalità di contraddizioni da offrire alla nostra pratica della poesia e alla nostra pratica della critica.
za e la rappresentazione del brutto non sono antitetici". Perché è poi qui, tutto il problema: che ì'indigna-tio poundiana, nei confronti della "danarolatria", ha un conclamato e esclusivo fondamento estetico, e nasce, partenogeneticamente, dalla religione della bellezza. È un'incarnazione da manuale dell'anticapitalismo estetizzante, fascisticamente estremizzato.
Pound è rimasto bloccato, per me, all'autocritica, mirabilmente ambigua e seducente, di Mauberley, la sua più autentica "persona": all'opposizione irresolubile di "alaba-ster" e di "a prose kinema". Per questo, se mi permetti la battuta, il capolavoro di Pound doveva scriverlo Eliot, per forza: è la Waste Land. Nei termini dei Cantos, posso pensare, allora, a due decisive "correzioni" a Eliot: "shelved" contro "sho-red" (Vili) e "bang" contro "whim-per" (LXXIV). Il "Possum" seppe
immediatamente situarsi, per così dire, al di là della "vita estetica". A Hugh Selwyn, invece, non è accaduto mai...
Con questo ho forse già risposto anche alle tue due domande successive. La necessità di "muoversi continuamente", di sperimentare senza tregua, era comunque, agli occhi di Pound, condizionata dalla fedeltà uxoria al suo Flaubert, alla sua "trae Penelope", e insomma al "sublime" ("in the old sense"), a "the classics in paraphrase". Comprendo benissimo che tu possa quindi preferire il primo Pound al Pound maturo: perché vedeva ancora con spietata lucidità, e con forte autoindignatio, il nodo che lo riteneva, disperatamente, e invalicabilmente, alla sua vera religione. Se adottassi l'atroce ma decisivo test del testo da salvare, sarei comunque esitante: Provincia deserta o il Canto XL V? Ma c'è una soluzione, di astuto e onesto compromesso: puntare sopra il Propertius, dove il "grande reazionario" si manifesta
meglio nella sua essenza di "grand rhétoriqueur". Perché la critica al "poetese", nella forma storicamente concreta e ineludibile della critica a Pound, occorre pure sottolinearlo, è stato Pound stesso a fondarla, per primo, in sé stesso.
Quanto al vecchio Pound, deluso dell'Italia (e dell'Europa), che non si sentiva più "al centro delle cose", a Pound che discorre dell'"organicità" dell'America, penso che occorrerebbe ritornare, al solito, al tema della "half savage country", e osservare che si chiudeva un cerchio, così, non soltanto personale, ma oggettivo. E che soltanto il "savage", finalmente, risulti "organico", per simili nostalgie, mi sembra perfettamente conseguente...
Rimane l'ultima tua domanda, relativa al "sodalizio" tra poeti, quale Pound ha potuto sperimentare e promuovere, e tanto intensamente. E tu mi chiedi se qualche cosa di simile si sia verificato, o sia oggi possibile, in Italia. Io credo, in generale,
che tutte le stagioni intense dell'arte (e non della poesia, soltanto) siano sempre state il fratto di "sodalizi", e se vuoi, modernamente parlando, di "ismi". Naturalmente, perché questo accada, non occorre questo suffisso, come non occorrono manifesti. Non occorrono nemmeno relazioni interpersonali particolarmente stringenti, direi. Pound avrebbe pensato intanto, alla luce del suo canone, ai suoi "classics" parafrasagli: ai suoi Augustei, alla sua Provenza, al "circolo" dantesco (e Eliot ai Metafisici inglesi, è ovvio).
Penso che i "novissimi" abbiano rappresentato, da ultimo, in Italia, il caso tipico di un gruppo di poeti che scoprono di essere un "sodalizio" — e non saranno gli ultimi, a dispetto dell'apocalittica etichetta, anche se, per ora, rimangono gli ultimi, nel tempo, e forse sono destinati a rimanerlo, per un po', ancora. Ma penso poi, soprattutto, a quegli esperimenti di "renga", molto iperplurilingui-stici, molto Weltliteratur, cui ho
partecipato negli anni Settanta, a Parigi (con Paz, Roubaud, Tomlin-son), a Rotterdam (con Amichai, Breytenbach, Popa) — e che meriterebbero di essere ripresi, e direi normalizzati e istituzionalizzati, come la forma naturale di ogni poesia nuova.
Del resto, anche tra i "novissimi", sul principio, ci fu un progetto lungamente accarezzato di un'opera collettiva, di un testo in cui confondere le nostre voci, cancellando accuratamente le tracce individuali. Oggi, i poeti sono una folla solitaria. Non so se sia peggiore il sostantivo o l'aggettivo. Certamente, è una situazione "half savage". E il peggio, sicuramente, è quell'"halP...
Sei d'accordo?
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