N 3i pag 14 Hde> libri del meseHI sicché il loro tempo di lettura è inferiore a quello d'un romanzo d'una certa ampiezza, e contenuto da quella continuità narrativa ch'essi nonostante tutto hanno. Se sia continuità del "racconto della tribù", come Pound definì kiplinghianamente il poema, o della stessa attività di raccontare non so, propendo per la seconda soluzione. Storia per ipotesi del mondo, i Cantos sono in definitiva storia d'una scrittura, nonché come s'è visto vita d'un uomo. Sono un poema lirico che ha bisogno di ampie campiture epiche per risaltare più fulgidamente: "Nell'oscurità l'oro raccoglie la luce intorno a sé", come dice un verso ricorrente. Non mancano le parti grigie: credo sia stato Eliot ad avvertire che Pound diviene particolarmente impenetrabile quando attacca la storia americana (canti di Adams, 62-71, di Benton, 88-9). A confronto la storia cinese è uno spasso (canti 52-61, 85-86, con tutti i begli "ideogrammi" stampati in mezzo alla pagina (il lettore si consoli con la notizia che essi risultano non meno incomprensibili ad un cinese che a un italiano). Ma sarebbe difficile sostenere che certi capitoli dell'Ulisse possano leggersi per divertimento, e sono poche le pagine in cui l'occhietto di Pound non si accenda e ammicchi a chi sa intenderlo, come uno scolaro in vacanza che s'imbarchi a malincuore per la strada di tanti tomi. Uno scolaro che è anche un professore alquanto picchiatello. Le sezioni di canti che si dicevano sono infatti quasi tutte leggibili come le dispense d'un corso di lezioni su taluni testi base. Lezioni in cui l'insegnante sfoglia i libri di testo (di difficile reperibilità, va detto subito, ma così sono molti testi di corsi sul postmoderno), li legge, traduce, commenta, ironizza, inserendo qualche ricordo personale e qualche barzelletta. È così che si fa all'università, ed è così che il vecchio Ez gestisce la sua unica cattedra perpetua, i Cantos. Ascoltarne una lezione senza avere il libro di testo sottomano non è cosa saggia, il lettore è avvisato. A meno che non stia al gioco dei ritmi, della materialità del linguaggio, o veda quelle pagine storiche appunto come sfondo alla folgorazione lirica. Quando, come a Pisa, i libri gli vengono quasi a mancare, il professore su >plisee con la memoria, e ali ; < ab.»iai-:o decine di pagine di ricci di abbastanza casuali, ma furbissimi per quel tono ch'essi creano: "ho bisogno di più tinte nel mio paesaggio", confessa Ezra. A volte pare anche di sentire l'horror vacui del professore che teme di non avere abbastanza materiale per il suo corso, e allora si dilunga su dettagli irri- Sui Cantos poundiani, e sul loro valore per la poesia italiana, la redazione de "L'Indice" ha interpellato Edoardo Sanguineti, con una lettera firmata da Franco Marenco. In essa si ponevano sei domande che qui sintetizziamo: 1. Pound è davvero, come scriveva Giovanni Raboni nel 1981, il "testimone totale", il modello per una generazione di poeti italiani, cui ha mostrato che "tutto è compatibile e into-nabile con la poesia, tutto è contenibile (materialmente contenibile) nello spazio di un testo poetico"? 2. Più in generale, come si confronta con la nostra tradizione poetica l'inclusività poundiana, che ha fatto levanti, addirittura rilegge certe pagine più o meno per errore. Così Pound avrà avuto qualche angoscia in relazione alla necessità di trovare materia per 100 o 120 canti, e ne ha riempito più d'uno di materiale di riporto, a basso prezzo. Ma come succede spesso in questi casi, ci si accorge che il tempo per svolgere un corso non è mai troppo bensì troppo poco, e nelle ultime lezioni ci si affanna a infilare tutto quello che non si ha fatto in tempo a dire prima. È di nuovo il caso dei Pisani, scritti con il pensiero d'una esecuzione forse prossima, come quello di Villon. Prima, per riempire le ore, un po' si finge e un po' si crede che certe minuzie siano im- parlare Montale di "un festival di cose", e Pasolini degli "alti e bassi di una conversazione fra intellettuali"? 3. Come è stata seguita la raccomandazione di Pound al poeta moderno, di "muoversi continuamente", di sperimentare in stili diversi? 4. Il Pound autocritico di Hugh Sel-wyn Mauberley non è miglior modello del Pound declamatorio dei Cantos? 5. Quale significato dobbiamo dare alla "delusione" di Pound nei confronti dell'Europa del dopoguerra, e all'accusa per cui l'europeo è incapace di capire l'"organicità" dell'America? 6. Sono ripetibili oggi gli intensissimi scambi tra poeti di cui Pound fu animatore per tutta la vita? portanti, e così Pound con la sua "storia" un po' crede e un po' è il primo a dubitare del suo interesse. Guardiamo la bella sezione del 1955, Rock-Drill (Perforatrice di roccia), tutta sussiegosa e anche idiota in quel perforarci di notizie e verità sulla congiura del giudaismo internazionale. Poi scopriamo che l'immagine centrale di queste pagine è quella della dea-gabbiano Leucotea che salva Ulisse dalla tempesta, scherzando: "Il mio bikini vale la tua chiatta". "Dall'ottuso limite al di là del dolore, m'elevasti". Dunque Pound ha preso la misura esatta della sua pseudostoria, sa quanto importa. Un bikini solo la vale proprio tutta. Ma anch'essa è necessaria. Rispondo alla tua lettera con una lettera, non soltanto perché mi sembra questa la forma più naturale e più economica, in relazione alle tue interrogazioni poundiane, ma anche perché mi piace — e spero che a te non dispiaccia — ridare un po' di vita a quel modesto minigenere saggistico che è l'epistola critica. Non so se ancora sopravviva come comunicazione privata. Certo, in pubblico, assume esclusivamente, ormai, e marginalmente, forme polemiche. Nelle due prime tue domande, mi poni, richiamandoti a alcuni giudizi eterogenei, ma sostanzialmente convergenti, il tema dell'onnivora onnicomprensività della poesia di Pound, e insomma il sogno di una scrittura poetica che possa raccogliere in sé, come un contenitore sconfinato, la totalità delle "parole" e delle "cose", risolvendosi in una sorta di globale enciclopedia del reale. Ora, nessuno come Pound, probabilmente, ha incarnato questa utopia di una dicibilità interminabile in versi. È celebre l'uscita di Mussolini che a Pound che gli consegna una copia dei canti 1-30 nel 1933 dice, come riferisce il canto 41, "Ma qvesto è divertente" (dove la "v" in "qvesto" allude tanto alla romanità quanto alla consonantizzazione romagnola da Pound riscontrata in bocca al duce). Sarà stato un giudizio di comodo, buttato lì tanto per dire qualcosa, ma lo si può ancora sottoscrivere. Il duce qualche volta ha ragione. □ Nessuno, probabilmente, dopo Dante. E mi pare evidente che, dopo Pound (e dopo Eliot), abbiamo tutti incominciato a leggere Dante in modi nuovi. Non parlo del nostro debito possibile nei confronti delle loro testimonianze critiche. Penso proprio alle loro pratiche di scrittura. Il che può spiegare perché Pound (e Eliot) abbiano assunto, per la cultura italiana, un significato diverso, e più ricco, che per qualunque altra cultura poetica. Con un paradosso fatale, di conseguenza: che il loro compito essenziale, additato un simile Dante "nostro contemporaneo", necessariamente si deprime. Quando ci hanno rivelato il "miglior fabbro", abbiamo minore bisogno delle loro suggestioni, e possiamo ricorrere direttamente alla Commedia, scavalcandoci i Cantos, all'in-dietro, piuttosto tranquillamente. Qui non mi soffermo, basta un accenno, sulla congiunzione di Lupa e di Usura, e sopra tutto quello che lega, al di là di quel mito di conteni- n 1984 di Pinter di Franco Marenco harold Pinter, Il bicchiere della staffa e Monologo, Einaudi, Torino 1985, ed. or. 1984 e 1973, trad. dall'inglese di Laura Del Bono e Elio Nissim, pp. VIII-30, Lit. 4.000. C'è voluto un bel po' per capire Pinter. All'inizio, di fronte alla monomaniaca imperturbabilità del suo stile ci siamo affannati a sistemarlo, a catalogarlo secondo le categorie più probabili — l'assurdo, l'alienazione, la minaccia, persino l'ebrai-cità, e così via astraendo — senza che nessuna ci convincesse. Cercavamo disperatamente delle chiavi socio-psico-antropo-ideo-logiche che stringessero significati finalmente certi, e risolvessero il problema una volta per tutte. Ma il problema non si lasciava risolvere, e dopo avere spiato invano per i buchi delle nostre vecchie serrature storcevamo il naso, impermaliti da tanta enigmaticità. Finché, alla lunga, non abbiamo centrato l'attenzione proprio sul nostro disorientamento, e ci siamo accorti che quella reazione di spettatori delusi altro non era che la materia stessa della nostra comunicazione quotidiana, con i vuoti, le difficoltà, le frustrazioni che Pinter innalza a un diapason drammatico. Quel che ci presenta la sua scena non è il dire compiuto e consapevole della tradizione letteraria, l'enunciazione filosofica del teatro delle idee, ma il non dire, le banalità, i ritegni dei rapporti più disarticolati e disimpegnati, e ogni giorno più comuni. Se solo lo avessimo ascoltato quando enunciava, prestissimo, la sua poetica: "Voi ed io, i personaggi che crescono sulla pagina, per la maggior parte del tempo restiamo inespressivi, reticenti, incostanti, elusivi, evasivi, impacciati, svogliati. Ma è da questi attributi che nasce un linguaggio. Un linguaggio in cui sotto ciò che viene detto si dice un'altra cosa" (Writingfor the theatre, 1964). La sua monolitica maniera si basa non sulla esplicitazione ma sull'occultamento delle intenzioni e dei significati generali. Se esiste un dramma della parola piena, Pinter — e con lui, direi, l'austriaco Handke — dimostra che può esistere un dramma—e che dramma — della parola vuota. Ora ci interessa in particolare co- tore globale, come stazioni inaugurale e terminale, la storia della "da-narolatria" borghese, nelle simmetrie speculari di questi due "grandi reazionari", e del loro "realismo". E non indugio sopra le ragioni per le quali nella Commedia risulta proprio strutturalmente praticabile una apertura totale, anche se chiusamente classificatoria, sopra la realtà, e questo riesca irrealizzabile, per Pound, a dispetto, o in forza, di una costruzione "in progress". Voglio piuttosto ricordarti l'importanza che Pound assegnava a quella che potremmo definire come la "questione Stendhal", cioè al problema delle "capacità" (proprio nel senso di attitudine a contenere, a assumere in sé) della prosa e della poesia. E da questo punto, se vuoi, che dipende un po' tutto il problema del "poete-se" moderno. E su questo punto è illuminante l'affermazione di Pound, per cui "il culto della bellez- s> Intervento Caro Marenco,.. di Edoardo Sanguineti Pound tra Venezia e Rapallo di Guido Carboni I2H m MS •.SW-- Venezia e Rapallo sono, è noto, due luoghi focali di quel rapporto complesso e in senso pieno "fatale" che la vita e la poesia di Ezra Pound hanno avuto con l'Italia. A Venezia Pound ha pubblicato, nel 1908, la sua prima raccoltaci versi A lume spento e a Venezia ha deciso di chiudere la sua vita e di rimanere. Rapallo è il centro della sua attività italiana dal 1925 fino al 1945, gli anni dei messaggi alla radio a favore dell'Italia mussoliniana che lo condurranno al campo di concentramento, all'accusa di alto tradimento, alla dichiarazione di infermità mentale e alla poesia dei Cantos Pisani. E giusto quindi che queste due città gli abbiano dedicato due omaggi insieme complementari e speculari. Giocando d'anticipo sul centenario la Fondazione Cini gli ha organizzato un convegno i cui atti ci vengono tempestivamente offerti. Dalle questioni di poetica alle analisi testuali, dai contributi alla storia personale ai collegamenti con le arti figurative e la storia della cultura sarebbe impossibile rendere giustizia in poco spazio alla fitta rete di analisi offerta da questo tentativo di bilancio, per valutare il posto e il ruolo di Pound in quella tradizione del moderno che egli tanto ha contribuito a fonda- re. Sintesi di larga prospettiva come quelle di Sergio Perosa ("maschere, epica della storia e dell'io"), Wolfgang Kaempler (sulla "onnipresenza del tempo" nella poesia poundiana), Alfredo Rizzardi (sulle immagini), Desmond O'Grady e David Anderson (sulla teoria e la pratica di Pound traduttore), di Nemi D'Agostino (sui rapporti con Dante) e di Marcello Pa-gnini (sulla "episteme del novecento e acculturazione selvaggia"); di Lionello Lanciotti (sui rapporti con la Cina) e di Agostino Lombardo (sulla americanità di questo poeta espatriato quasi per eccellenza). Ma anche molte messe a punto su momenti e problemi più dettagliati; legati a Venezia, come quelli di Walton Litz, Mary de Rachewiltz, Rosella Mamoli, Michael Alexander e Massimo Bacigalupo, o a specifici momenti dell'opera come Maria Luisa Ardizzo-