N. 3 pag. 23 MB La classe solidale di Adriana Lay VITTORIO FOA, La Gerusalemme rimandata, Rosenberg e Sel-lier, Torino 1985, pp. 334, Lit. 30.000. All'ingresso del T.U.C, in Great Russel Street, una brutta statua del genere realismo socialista rappresenta un uomo prestante chino ad aiutare, quasi a raccogliere da terra una persona dall'apparenza debole e sofferente. È un gesto umano di pietà, ma anche un grido di rivendicazione; è l'emblema visivo in cui si esprime in maniera sommaria, ma anche imponente, la convinzione, che nella storia inglese ha avuto un'importanza così profonda, che sulla solidarietà sia costruito il movimento operaio. E l'analisi della solidarietà operaia costituisce uno dei nodi centrali della riflessione di Foa e uno degli stimoli maggiori della sua ricerca. Sarebbe inutile cercare in questo libro una struttura tradizionale che è estranea al disegno dell'autore. Già dal sottotitolo, Domande di oggi agli inglesi del primo novecento, Foa ci avverte di aver scelto una serie di percorsi non narrativi per comunicare il risultato del confronto con il passato che le asprezze torbide e le sconfitte mascherate del presente lo hanno indotto a fare. Le sue domande sono molte e dirette a interlocutori diversi per appartenenza di classe e per cultura anche all'interno della stessa classe: operai, classe dirigente, intellettuali. Esse investono soprattutto il rapporto tra sedicenti guide pensanti e presunti esecutori passivi, alla ricerca della radice di una autonoma cultura operaia, di una creatività politica a tutti i livelli dell'esperienza del lavoro. E ancora l'indagine di Foa vuol verificare il terreno generale e particolare sul quale può essere cresciuta la cultura del conflitto sociale sotto la duplice forma della "lenta accumulazione del rifiuto" e dell'immediatezza dello scontro diretto, spesso di grandi proporzioni per estensione territoriale e rilevanza dei problemi in gioco. È merito di Foa aver condotto queste verifiche attraverso l'analisi di entrambe le forze antagoniste, quindi sia sui comportamenti degli operai sia sugli atteggiamenti e i programmi delle classi dirigenti. Sulla guerra e sull'immediato dopoguerra le domande si infittiscono e mutano, nuovi interrogativi sorgono sul comportamento operaio, sull'adattamento a un contesto cambiato, sulla posizione di classe della quasi totalità dei lavoratori che esprime un'adesione così incondizionata alla guerra, sulla violenta opposizione alla disciplina militare del lavoro, percepita consapevolmente come peggioramento generale del quadro politico e sociale, da parte di operai che spesso erano corsi ad arruolarsi. Potrebbe essere un'esplicitazione, e quindi una forzatura, ma probabilmente non un travisamento formulare così la domanda generale di Foa agli inglesi del primo novecento: che cosa rimane dell'attività umana spesa nella costruzione di un movimento dopo che esso è stato sconfitto? che senso si può attribuire alle lotte in cui gli uomini hanno investito il proprio tempo, la propria vita, dopo che gli obiettivi sono stati mancati? Il fatto che non tutte le domande abbiano una risposta, non toglie che esse possano essere legittime, talvolta doverose. Questo è vero in generale, ed è vero con particolare forza per questo libro. Talora Foa risponde cambiando felicemente la prospettiva da cui guardare il problema, per esempio nel caso degli operai di fronte alla guerra, in cui la strada è indicata dal giusto sospetto che non abbia senso parlare di "contraddizione nella coscienza operaia". La riflessione di Foa su questo è chiara: le esperienze sono diversificate anche all'interno della stessa classe, e le esperienze non sono mai univoche; ci sono incoerenze, ma anche reazioni diverse in diversi contesti, e la diversità di comportamento può anche riflettere la riappropriazione di quegli "irriducibili spazi di libertà" che Foa, forse con eccesso di ottimismo liberale, va riscoprendo non da ora nei comportamenti della classe operaia. Talora Foa invece non risponde, o risponde solo in parte, mantenendo un'equilibrata e tradizionale prudenza nell'affrontare il problema. È il caso della solidarietà da cui siamo partiti, uno degli elementi più interessanti, ma anche tra i più irrisolti, nonostante l'apparenza, della sua riflessione. Sulla solidarietà operaia apparentemente tutti sono d'accordo, e le discussioni si accendono piuttosto sui dettagli dei suoi riti e dei suoi miti. Che la solidarietà sia un elemento costitutivo dell'"auto-noma cultura operaia" nessuno mette in dubbio, e proprio perciò la concettualizzazione è scarsa e imprecisa. Qualche ragionamento per esclusione gioverebbe, anche perché questo è uno dei terreni su cui si è esercitata la ricerca delle continuità culturali tra la classe operaia, i gruppi popolari pre-industriali, i gruppi portatori di culture solidaristiche di matrice religiosa. Si intende che tutte queste continuità o contiguità sono in parte vere, e in parte ancora maggiore rilevanti per capire. Quella che tende a sfuggire è la differenza, il carattere specifico della solidarietà presso gli operai industriali. Questa solidarietà non è dono e non è scambio. Sia che dono e scambio ci appaiano quali rapporti nettamente distinti, come tende ad avvenire — almeno dal punto di vista normativo — nelle culture industriali, sia che ci appaiano maussianamente indistinguibili — come pare avvenga nelle culture pre-industriali — è possibile identificare una solidarietà della classe operaia, che non è gratuita, ma non è nemmeno un'obbligazione personale. È il riconoscimento di un interesse generale, talora immediato, talora differito, rivolto a un gruppo esclusivo, e tuttavia tendenzialmente universalistico, capace cioè di giovare a tutti; un riconoscimento che è possibile solo in un contesto caratterizzato dall'aspettativa di beni crescenti e non di beni limitati. Nel libro di Foa, spesso tra le righe e al di là delle parole, la solidarietà diventa la trama, il legame costante, il senso stesso dell'azione operaia, "un principio che animò il mondo proletario e gli sviluppi della sua coscienza". E tuttavia Foa non spende molte parole per cercare di definire questo principio; quello che solidarietà significa per lui si evince dal racconto, dalla rilevanza e dalla carica emotiva che proviene anche da singoli fatti, quando un'intera città è coinvolta nella lotta contro la rappresaglia padronale nei confronti di un portuale, o quando un gruppo di operai inglesi compie un lungo viaggio per portare un segno di solidarietà ai lavoratori irlandesi in sciopero. Ma è l'aiuto, o il segno di aiuto, al portuale o agli scioperanti irlandesi, o al ferroviere che rifiuta l'ingerenza padronale a definire il contenuto della solidarietà? O non è un interesse più generale, di uno scambio impersonale, parallelo e contrario a quello del denaro, che traduce una lotta specifica in un progetto di mutamento sociale? In questo senso la nozione di solidarietà può essere graduata, la solidarietà ristretta o allargata, ma sempre distinta dall'obbligazione personale che caratterizza la generosità tra poveri delle società agrarie. Se questo è vero bisogna distinguere i diversi livelli in cui si esprime l'atteggiamento solidale dei lavoratori. Mi sembra che a proposito di comunità minerarie, o nella lotta per la gestione della vita quotidiana, e soprattutto per quanto riguarda la cultura delle don- ne operaie, esista nella ricerca di Foa il rischio di sovrapporre questo concetto di solidarietà ad atteggiamenti che mantengono caratteri propri del dono-scambio delle società agrarie. È invece perfettamente convincente la constatazione di Foa quando afferma che la solidarietà, "esperienza di ineguagliato valore", è al tempo stesso "fragile ed evanescente" per il movimento operaio inglese di inizio secolo, che non sempre la praticava, e per i suoi antagonisti, che invece ne intrawedevano e ne temevano i possibili effetti a lunga scadenza e cercavano di spezzarne il tessuto nel breve periodo. Se non si percepiscono i molti aspetti che si annidano nelle pieghe di un comportamento di solidarietà, si finisce per trascurare un elemento importante: la forza di coesione di quel principio che consentì al proletariato inglese di tenersi per molti anni in equilibrio tra la tentazione permanente di integrazione nei valori delle classi medie e l'attenzione quotidiana per i più minuti interessi collettivi; e che consentì pure a diversi gruppi operai di ritrovare un'unità verticale e di superare la frantumazione gerarchica dell'età vittoriana in una ricomposizione di interessi generali che non ha cancellato però la pluralità degli atteggiamenti, le differenze, i contrasti. Se fu prevalentemente la mutata organizzazione del lavoro a scolorire le profonde differenziazioni nella struttura del proletariato nel corso del primo ventennio del secolo, la pratica, quotidiana o eccezionale che fosse, di quel principio di solidarietà rappresentò il terreno unitario sul quale il movimento operaio inglese costruì gli altri elementi, le altre ipotesi della propria cultura. Il problema democratico del controllo, per esempio, quel "filo rosso" che Foa indica quale contenuto fondamentale della cultura operaia, non sembra pensabile senza un quadro programmato di solidarietà genera- Tutti questi elementi consentono a Vittorio Foa di guardare al di là della sconfitta. Egli pensa che la tensione continua per mantenere la propria identità culturale, le idee e i contenuti nati in questi primi decenni del secolo abbiano determinato una realtà irreversibile. E se questa realtà è certamente un'eredità di quegli anni di lotta, le riflessioni di Foa e le sue conclusioni assumono un aspetto un po' consolatorio. Forse le sconfitte troppo radicali, le aspirazioni così interamente frustrate riducono i margini per prospettive future e lasciano intrawedere lo spettro di una Gerusalemme definitivamente annientata. □ Ma fu una sconfitta? e quale? di Luciano Lama Ascoltare Vittorio Foa è sempre istruttivo. Puoi non essere d'accordo su questo o su quello, ma non ha grande importanza. Apprendi sempre qualcosa, magari su te stesso, e tanto più quando ti è capitato di fare il medesimo mestiere per tanti anni. Chi, fra i politici, i sindacalisti, non ha sentito e sente, per esempio, quel bisogno di una riflessione calma e distaccata da cui ha preso le mosse Vittorio per scrivere questo suo libro di storia? E non si tratta soltanto della necessità personale di riconquistare il senso della prospettiva uscendo un attimo dalle urgenze delle "questioni", per ritornarvi subito dopo con la testa più chiara e le idee più salde. Si tratta anche di riflettere — come dice Vittorio — con un orizzonte più ampio sulle domande maturate nel lavoro quotidiano. Vorrei sottolineare, però, due punti di sostanza. Il primo è che questa riflessione non viene suggerita da domande a loro volta quotidiane: in realtà, qui Vittorio si chiede se non sia il caso di cambiare le "nostre categorie di analisi e di interpretazione" della società. Il secondo è che la risposta non la si va a cercare, secondo le buone tradizioni della sinistra, nella storia della rivoluzione sovietica, e nemmeno, secondo tradizioni altrettanto buone — visto che si tratta della "sconfitta" della rivoluzione in occidente — nella storia della socialdemocrazia tedesca. Le "domande di oggi" Vittorio Foa le rivolge, per nulla innocentemente, "agli inglesi del primo novecento". Un movimento operaio ricco di grandi tradizioni di lotta e di cultura come quello inglese cede alla guerra, alla difesa della patria nella prima guerra mondiale. Dopo un sommovimento consiliare, rimanda definitivamente la sua Gerusalemme e, nonostante la tempesta sociale dell'immediato dopoguerra, viene sconfit- to. All'inizio degli anni venti, quando per tutta l'Europa vanno sorgendo partiti comunisti che aspirano a "fare come in Russia", in realtà non si sta vivendo, invece, una sconfitta che conclude "un'intera fase storica, con la conseguente necessità di rivederne a fondo le premesse e gli sviluppi, anche sul piano teorico?" Se ho capito bene, allora, il bisogno di aggiornamento teorico non nasce soltanto dal cambiamento delle condizioni della produzione e della vita sociale, ma anche dalla costatazione di una sconfitta e della fine di un periodo storico. Forse le cose stanno proprio così. Tuttavia a me sembra che segnare come una sconfitta la mancata rivoluzione in occidente, dopo quella russa del 1917, sia troppo e troppo poco allo stesso tempo. Troppo, perché non è detto che l'avanzamento del movimento operaio verso la trasformazione della società debba necessariamente passare attraverso la rivoluzione come conquista violenta del potere. D'altra parte, non è neppure detto che una rivoluzione risolva di per sé i problemi nel modo giusto. E quindi troppo poco limitarsi a rilevare la mancata rivoluzione per affermare la sconfitta, se c'è stata, del movimento operaio all'inizio degli anni venti. Questa, se c'è stata, va vista come conseguenza di un errore: voler, appunto, essere per forza rivoluzionari in un unico modo. La posizione di Vittorio Foa nella sua complessità è molto lontana da tale schematismo. Egli ci insegna, semmai, la ricchezza del dubbio, anche se dovesse essere avvertito come "la caduta (o il logoramento) di certezze". Quello che conta — ed è un ultimo suggerimento di questo libro che non posso tralasciare — è che la certezza del futuro si manifesti non in un modello di società futura, ma nella capacità di battersi nel presente. STORIA D'ITALIA diretta da Giuseppe Galasso Volume diciottesimo. Tomo primo. L'ITALIA DI NAPOLEONE DALLA CISALPINA AL REGNO di Carlo Zaghi Pagine XVI - 816 con 25 tavole fuori testo UTET