pag.22 Vietnam senza pentimenti di Aldo Natoli Stanley Karnow, Storia della ■uerra del Vietnam, Rizzoli, Mi-ano 1985, ed. orig. 1983, trad. dall'inglese di Piero Bairati, pp. 540, Lit. 40.000. Stanley Karnow, free lance del giornalismo americano (da "Time" a "Life" dal "Washington Post" a "New Republic"), ha scritto questa Storia della guerra del Vietnam parallelamente alla collaborazione come "corrispondente principale" alla omonima serie televisiva realizzata dalla Wgbh, la rete televisiva pubblica di Boston, nel 1982. Era l'anno di Rambo; non si poteva immaginare contravveleno più efficace alla campagna reaganiana di cancellazione dei traumi provocati nella coscienza americana da quella tragica avventura. L'inchiesta televisiva ebbe un vasto ascolto e fornì grande copia di materiali immunizzanti rispetto al rilancio dei nuovi miti di supremazia. Se questa fosse l'intenzione, non potrei dire. Karnow si era interessato dell'Indocina fin dai tempi della guerra perduta dai francesi e, successivamente, aveva seguito sul posto tutte le fasi dell'intervento Usa in Vietnam. Era dunque uno specialista; durante l'organizzazione dell'inchiesta sapeva dove mettere le mani per tirar fuori documenti e testimonianze da ciò che restava del personale politico e militare che in quegli anni (fra il 1960 e il 1973) aveva fatto scattare con la guerra la trappola di PRATICHE EDITRICE J. David Bolter L'UOMO DI TURING La cultura occidentale nell'età del computer pp. 320 L. 27.000 Me er Schapiro PAROLE E IMMAGINI La lettera e il simbolo nell'illustrazione di un testo pp. 120 l. 13.000 Stefano Ferrari PSICOANALISI ARTE E LETTERATURA Bibliografia generale 1900-1983 pp. 550 L. 40.000 MARCEL L'HERBIER a cura di Michele Canosa Testi di Marcel L'Herbier, Michelangelo Antonioni, Adolf Loos, Luigi Pirandello, Noci Burch e altri pp. 180, ili. L. 16.000 ARCHITETTURA E TERREMOTI A cura del gruppo di ricerca del Dipartimento di Costruzioni dell'Università di Firenze coordinato da Salvatore Di Pasquale pp. 250, ili. L. 40.000 Distribuzione PDE in tutta Italia cui il paese era rimasto prigioniero fino alla infelice conclusione. Sarebbe stato un vero peccato se Karnow non avesse utilizzato la propria esperienza e l'immensa quantità di materiali di cui disponeva per scrivere un libro. Ma il libro fu da lui concepito fin dall'inizio come strettamente collegato all'inchiesta televisiva, destinato a chiarire e a spiegare origini, e nessi dei documenti filmati, la cui drammaticità non era di per sé sufficiente per risalire fino alle cause rea- non spettò mai, né all'origine, né alla conclusione, una parola decisiva. Infatti nel racconto di Karnow, il primato del fattore politico è indiscutibile; i militari appaiono come consiglieri (su questioni sempre limitate e circoscritte) ed esecutori; i rappresentanti del potere economico non appaiono mai; forse questa è la più grossa lacuna nella storia di Karnow, ma ci si può chiedere se essi non siano già incorporati nel personale politico. Karnow tace su questo punto, forse per lui è solo una domanda retorica. Il coinvolgimento degli Stati Uniti in Indocina era già iniziato con Truman e con Eisenhower, quando questi avevano prestato aiuto ai sudvietnamita), il cinismo e i dollari profusi da costui nello sterminio di Diem e dei suoi. Qualche settimana più tardi, lo stesso Kennedy veniva assassinato a Dallas. Nel suo caso il mandante non è stato individuato. Il suo successore, L.B. Johnson era un politicante astuto e meschino, pavido e sensibilissimo rispetto agli umori del corpo elettorale. Nei tre anni di Kennedy le pressioni dei militari per un diretto invervento in Vietnam (si era già parlato di 100.000 uomini) erano cresciute e fra i civili il ministro della difesa McNamara, affrontava l'"impresa Vietnam" con la spavalda efficienza del grande manager. Fra la propria irresolutezza e le spinte che gli veni- Undici viaggi in Indocina di Massimo Locke VALERIO PelliZZARI, Vietnam senza memoria, Vallecchi, Firenze 1985, pp. 218, Lit. 18.000. "Vendere emozioni è più facile che vendere notizie", scrive Valerio Pellizzari nella prima riga del suo libro sul Vietnam. Un buon inizio perché chiarisce subito il problema più grave dei rapporti tra il Vietnam e l'Occidente: un eccesso di emozioni ed una scarsità di notizie. Dico questo perché, anche quando la guerra di Indocina era tutti i giorni in tutte le prime pagine dei giornali e schiere di giornalisti americani ed europei seguivano ogni passo delle imprese dei marines, degli intrighi di palazzo di Saigon o cercavano di decifrare la politica dell'ufficio politico di Hanoi, le vere notizie erano poche. Poi, dopo il 1975, finita la guerra e unificato il paese, la scarsità è diventata assoluta anche perché le emozioni avevano cambiato se- So. Gli eroici combattenti per la libertà del ■o paese erano improvvisamente diventati occhiuti e crudeli burocrati capaci di ogni nefandezza compresa quella di invadere un paese vicino, come è avvenuto con la Cambogia. Ora il pregio del libro di Pellizzari è quello di fornire molte notizie e molte informazioni frutto di undici viaggi in Vietnam, Cambogia e Laos compiuti tra il 1978 e il 1985, cioè proprio negli anni bui nei quali all'embargo giornalistico decretato dall'Occidente corrispondeva una chiusura strettissima ai reporters stranieri da parte delle autorità vietnamite. Pellizzari descrive senza compiacenze tutti gli aspetti negativi del Vietnam di oggi: lo smisurato e fastidioso burocratismo, la durezza nei confronti di quanti avevano avuto a che fare col vecchio regime rinchiusi in campi di rieducazione o trattati ancora da cittadini di secon- da classe. Altrettanto severo è con gli errori (o supposti tali) commessi nella gestione dell'economia e della politica estera. Ma con questo non cade nella faciloneria di tanti che dimenticano quanto sia grande il peso del passato su questo paese piccolo e sottosviluppato e quante siano le responsabilità di coloro, dai francesi agli americani, che del Vietnam hanno fatto un campo di battaglia per generazioni intere. Entrare nel merito dei singoli giudizi potrebbe però provocare lunghe discussioni. Non convince per esempio l'interpretazione del conflitto tra Vietnam e Cina come frutto di una scelta unilaterale vietnamita, quasi una volontà di allineamento all'Urss, e non come il risultato di una complicatissima serie di spinte e controspinte politiche interne e internazionali delle quali in fondo il Vietnam indipendente è più vittima che protagonista. Altre discussioni potrebbero nascere sulle cause del mancato o troppo lento decollo economico della regione, o sulla dinamica che portò all'invasione e alla permanenza dell'esercito vietnamita in Cambogia. Ma con tutto questo il libro di Pellizzari resta una miniera di osservazioni dal vivo, preziose per chiunque voglia capire meglio cosa è successo al paese-mito degli anni sessanta. E al di là di tutto ciò, non si può non essere d'accordo con le pagine finali del libro, dove Pellizzari ironizza sulla persistente mitologia indocinese e sulla persistente tendenza — così diffusa tra amici e nemici del Vietnam — a giudicare sulla base di una loro ideologia "rarefatta e dissolta", senza cercare di capire, sulla base di fatti e notizie, che chi vuole, magari con fatica, può trovare e raccontare, come dimostra questo libro. li della vicenda. La letteratura americana sulla guerra del Vietnam, memorialistica, documenti, saggi, è sterminata (Karnow ne dà in appendice una scelta assai ricca). Inoltre le tappe principali della escalation militare, con le relative infrazioni commesse dal potere a spese dell'ordinamento istituzionale, erano state documentate clamorosamente dalla pubblicazione delle Carte del Pentagono nel 1971. Non ci si aspettava dunque che Karnow ci fornisse rivelazioni sconvolgenti. Il suo merito principale consiste nell'aver messo a disposizione del grande pubblico un libro di lettura facile e, talora, avvincente, che ricostruisce senza veli la storia dell'aggressione americana all'Indocina. Ed è un americano a proiettare le luci accecanti e crudeli sotto le quali sfilano tre presidenti americani. J.F. Kennedy, L.B. Johnson, R. Nixon, con i loro collaboratori, ispiratori e complici e, dietro di loro, un drappello di alti ufficiali, in realtà non più che un gruppo di pressione cui francesi nella speranza di evitarne la sconfitta. Successivamente era stata l'amministrazione Eisenhower a intervenire direttamente nel Vietnam del sud per impedire l'attuazione degli accordi di Ginevra e installarvi un regime fantoccio anticomunista. Ma la presenza di poche migliaia di "consiglieri" militari americani non costituiva ancora un fatto compiuto irreversibile. Fu Kennedy, con il suo staff a compiere quel passo decisivo, aumentando fino a 20.000 i "consiglieri" americani, affidando loro la direzione delle operazioni antiguerriglia che, attraverso la costituzione dei "villaggi strategici", coinvolgevano l'intera popolazione contadina; infine, autorizzando personalmente l'organizzazione del complotto che portò all'assassinio del primo ministro Diem a Saigon (ottobre 1963). Karnow mette in luce, una luce sinistra, il ruolo di mandante svolto da Kennedy, le istruzioni da lui impartite a H. Cabot Lodge che fu l'esecutore (non proprio il boia, questa compito fu lasciato a un mercenario fu strategico. Fu allora che buona parte degli inquilini della Casa Bianca e del Pentagono persero la fiducia nella vittoria. McNamara (e non fu il solo) si dimise. Johnson perse la testa e abdicò. Ma, nel frattempo, il fatto nuovo era costituito dal risveglio attivo della opinione pubblica americana. Il Tèt aveva sfondato le retrovie della macchina bellica americana. Il successore di Johnson poteva essere eletto solo promettendo la pace, sia pure "con onore", come fece Nixon. Sebbene Nixon avesse dichiarato: "Non sarò il primo presidente degli Stati Uniti che perde una guerra", né lui, né Kissinger credettero mai che fosse possibile vincerla. Tanto meno potevano vincere sul fronte interno ostile alla guerra, che adesso giungeva fino ai gangli più delicati dell'amministrazione. La fuga di notizie che portò alla pubblicazione delle "Carte del Pentagono" (1971) ne fu la prova più evidente. Non potendo più sperare in una soluzione sul campo, Nixon e vano da questa parte, Johnson, qualunque fossero le sue esitazioni, non poteva che soggiacere. Non c'è alcuna prova che lui stesso o McNamara abbiano avuto parte attiva nella preparazione dell'incidente del golfo del Tonchino, ma nell'ambiente della Casa Bianca vi erano altri personaggi che non sarebbero stati tormentati da scrupoli (W. Bundy, W. Rostow). Da quel momento Johnson fu in balia dei "falchi" e, mentre iniziavano i bombardamenti sistematici sul Vietnam del nord, un esercito americano di oltre 500.000 uomini operava nel Sud fra il 1965 e la fine del 1967. Il Vietnam divenne il laboratorio ideale per l'industria della guerra totale. Non era stato detto che doveva essere ridotto "all'età della pietra"? Un colpo mortale alla fiducia americana nella propria strapotenza fu inferto dalle forze di liberazione vietnamite con l'offensiva del Tèt (febbraio 1968). Karnow osserva giustamente che se il successo militare fu soltanto tattico, quello politico Kissinger per combattere l'opposizione interna infransero elementari regole della vita democratica; per raggiungere un accordo con i vietnamiti ricorsero agli inganni e ai ricatti della diplomazia: isolare i loro avversari dalla Cina e dall'Urss. Ma il ritorno a casa dei boys fu seguito poco dopo dal Watergate e più tardi l'ambasciatore Graham Martin sarebbe fuggito da Saigon dopo avere impacchettato la bandiera americana. Altro che "trnore". Nella breve prefazione a quest'opera Karnow ha scritto: "Nel mio libro non ho voluto difendere alcuna causa". Forse voleva dire che scrivere la storia rispettando rigorosamente la verità dei fatti permetterebbe di non stare né da una parte, né dall'altra, essere imparziale. Ma nel caso della guerra del Vietnam essere imparziale non significa forse necessariamente, anche se non intenzionalmente, stare dalla parte della lotta di liberazione? Questo libro, se ce ne fosse stato bisogno, è l'ennesima prova della giustezza della guerra vietnamita contro l'aggressione americana. Tanto più autorevole in quanto proviene dalla coscienza critica del popolo degli Stati Uniti. Karnow ha comprensione e rispetto per il movimento di liberazione vietnamita, anche se non sempre ne intende tutte le ragioni. Dopo la fine della guerra, all'inizio degli anni '80, nella fase di preparazione dell'inchiesta televisiva e di questo libro, ha soggiornato per qualche mese in Vietnam, alla ricerca di protagonisti, politici e militari e di testimonianze. Ne ha fatto un uso esemplare: intendo dire che un giornalista qualsiasi non avrebbe forse esitato ad introdurre considerazioni relative a infelici avvenimenti successivi a quella guerra e che avrebbero potuto appannare lo smalto di quella vittoria. Karnow non l'ha fatto. Questo potrà essere, domani, il compito di altri storici. Intanto la verità sulla guerra del Vietnam deve essere trasmessa nella sua interezza, come lezione per il futuro, contro riflussi e pentimenti, soprattutto contro la rinascita del mito della superpotenza e della superdistruzione. Non so se Karnow abbia voluto dire questo, ma il suo libro lo dice.