' • -Ì&rtsìi'' pag- Il Libro del Mese Spinoza nel ghetto Marek Edelman, Hanna krall, Il ghetto di Varsavia, memoria e storia dell'insurrezione, Città Nuova, Roma 1985, ed. orig. 1983, trad. dal francese di Meriem Meghnagi, introd. di David Meghnagi, prefaz. di Pierre Vidal-Naquet, pp. 177, Lit. 10.000. Marek Edelman fu uno dei dirigenti militari dell'insurrezione del ghetto di Varsavia e ne è oggi l'unico vivente superstite. Con un ritardo di quaranta anni si pubblica adesso in Italia la traduzione del diario che egli scrisse subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e che consegna alla storia quell'evento memorabile nella nuda essenzialità dei fatti. Il volume contiene inoltre l'intervista che Edelman dette nel 1977 alla scrittrice Hanna Krall per rievocare quel lungo percorso attraverso la morte e il retaggio che esso impresse nella vita successiva del dottor Edelman, cardiologo impegnato a salvare la vita dei suoi pazienti di fronte alle "meschinerie" dell'Eterno ("Arrivareprima del buon Dio"). Edelman, militante dell'organizzazione giovanile socialista ebraica e poi del Bund, aveva diciott'anni quando i nazisti invasero la Polonia nel 1939, ne aveva ventidue, ed era il più vecchio delle poche decine di giovani che nel 1943 organizzarono la resistenza nel ghetto di Varsavia. Il ghetto fin dall'inverno 1940 era il serbatoio in cui i nazisti avevano ammucchiato in condizioni orribili di miseria, fame, malattia, la carne umana degli ebrei destinati alla deportazione nei campi di sterminio. Quando questi cominciarono a funzionare in grande stile (1942), ogni giorno 10.000 esseri umani venivano trascinati nella piazza dove attendevano i camion. Un consiglio ebraico e una polizia ebraica, installati dai nazisti, dovevano fornire il carico: 7 teste per ogni poliziotto ebreo. Edelman ne vide deportare 400.000, "vedere 400.000 persone spedite al gas, può disfugcerti*: ma egli lottò ogni giorno , ■ salvare anche una sola vita umana, per convincere quegli infelici a resistere, per trovare le armi per combattere. Fu solo la disperazione a spingere lui e gli altri? Ad un certo punto, sembra ammetterlo: "Si trattava sempre di morire, mai di vivere. Mi domando persino se possiamo chiamare questo un dramma. Il dramma implica una scelta, bisogna che qualcosa dipenda da te. Ora, là tutto era fissato prima". Ma un giorno vedrà un piccolo ebreo issato su una botte, cui un ufficiale nazista sta tagliando la barba fra il dileggio dei presenti: Edelman non si lascerà mettere su una botte, "bisogna saper scegliere il proprio modo di morire". La consuetudine con la morte stimola un modo nuovo di vivere la solidarietà fra gli uomini: sopravvivere vale solo a lenire la morte altrui, morire solo a proteggerne la vita. Valori umani consueti sono stravolti, altri (più alti?) sorgono dal fondo dell'orrore. "Ero senza pietà", dirà Edelman: il presidente del consiglio ebraico si dà la morte; "non avrebbe dovuto" dice Edelman "era il solo uomo che avrebbe potuto gridare forte la verità. Bisognava morire, ma prima chiamare la gente a battersi. Lo avrebbero creduto. Ma egli si è suicidato. E la sola ragione per la quale noi gliene vogliamo, per aver fatto della sua morte un fatto personale". Ruth, una ragazza alta, magnifica, con una pelle di pesca, si è sparata sette pallottole prima di riuscire ad uccidersi... "ci ha sprecato sei pallottole", dice Edelman. Ogni pallottola può uccidere un carnefice, salvare una vittima; anche nel darsi la morte non può essere ammesso alcun egoi- di Aldo Natoli che bisognava restare. Così, quando la guerra è scoppiata e quelli sono rimasti e hanno vissuto quello che hanno vissuto, potevo forse partire? E poi, ho accompagnato 400.000 persone sulla piazza della deportazione... sono sfilati davanti a me... Come potevo partire?". Un uomo simile non poteva che vivere ai margini del "socialismo reale" polacco, fino a quando, avendo aderito a Solidarnosh, dopo il dicembre 1981, fu per qualche tempo internato. Nel 1983 si rifiuta di partecipare, quaranta anni dopo, alla commemorazione ufficiale dell'in- La rivolta dell'utopia di Anna Foa AA.W., Gli ebrei dell'Europa orientale dall'utopia alla rivolta, a cura di Marco Bru-nazzi e Anna Maria Fubini, Edizioni di Comunità, Milano 1985, pp. 241, Lit. 25.000. Utopia e rivolta nel mondo ebraico dell'Europa orientale tra la fine del secolo scorso e lo sterminio nazista, questi i due suggestivi poli intomo a cui ruotano i contributi raccolti in questo volume, che rappresentano gli atti dell'omonimo convegno tenutosi a Torino nel gennaio 1984. L'utopia è qui quella del Bund, e del suo progetto politico che seppe congiungere istanze rivoluzionarie e istanze di autonomia nazional culturale, quasi ad indicare una terza possibile strada tra assimilazione e richiamo esclusivo all'identità ebraica in quanto tale. Ma oltre al Bund, questi saggi descrivono il mondo assai differenziato del sionismo nell'Europa orientale, ed ancora i dilemmi dei rivoluzionari ebrei e la loro universalistica negazione dell'identità ebraica. Attraverso questi percorsi (si vedano i saggi di Frankel, Getzler, Bunzl, Diner, Finzi), si delinea il quadro di una vita politica ricca ed intensa, in cui un'intera generazione di ebrei, per strade diverse ed anche contrastanti, si pose il problema di una sua piena partecipazione alla storia ed alle sue trasformazioni, e del rapporto tra questo progetto di mutamento ed il suo essere, la sua ebraicità. Utopia, in questo senso, sembra essere non tanto la soluzione politica scelta in quanto tale, ma il rapporto tra assimilazione ed identità che questa soluzione prospettava. E utopia, tragicamente, diviene il progetto politico nel momento in cui l'imprevedibile, l'incomprensibile, lo sterminio, si abbatte su questa realtà travolgendola. Ed ecco emergere l'altro polo del problema, la rivolta, (Vaccarino, Gebert, Levin, Kriegel) che è qui, naturalmente, quella del ghetto di Varsavia e degli altri ghetti che si ribellarono al nazismo, ma anche quella che trovò espressione nella forte partecipazione ebraica ai movimenti di Resistenza, che i saggi del volume analizzano a sfatare il mito della passività ebraica, ed anche — perché no? la resistenza quotidiana, costante, l'attività di sopravvivenza, il richiamo alla vita nelle condizioni più tragiche, entro la morte stessa. Quanto, in questa esperienza, fosse stretto il legame tra utopia e rivolta o, se si preferisce, tra progetto politico e capacità di ribellione, è cosa che emerge con grande evidenza in tutti questi contributi. Più diffìcile definire i percorsi di tutto ciò, anche perché sappiamo che non si trattò di una strada trionfale verso la vita, ma di un modo più ricco e dignitoso di assumersi la morte. Quel che è certo, è che nella rivolta trovarono la loro espressione tutte le diverse utopie di quel momento tanto tragico e complesso. Come sottolinea nella sua introduzione Primo Levi, "solo nell'unica resistenza europea condotta fino all'estremo senza la luce della speranza, i fratelli nemici, bundisti e sionisti e comunisti, hanno trovato concordia nell'unità d'azione". Come sempre di fronte al passato, le domande che noi poniamo sono quelle dell'oggi. Scrive Meghnagi in uno dei saggi più densi di questa raccolta, riferendosi a queste diverse ed opposte scelte politiche, che "su tutti il cataclisma si sarebbe abbattuto: e la sua violenza fu tale che ancora oggi l'anima ebraica cerca, infranta, un equilibrio nuovo, un luogo in cui radicarsi e un punto da cui tornare a specchiarsi nel processo di mutamento di cui è parte". ■ H H B smo. Poche centinaia di giovani del-l'"Organizzazione ebraica di combattimento" si batteranno male armati dal dicembre 1942 fino alla metà di maggio 1943 contro i carri armati di reparti delle SS. Anche i boia muoiono; i nazisti cadono a centinaia nella lotta di strada e casa per casa. Solo il fuoco riuscirà a domare la resistenza del ghetto, una pagina indimenticabile della nuova storia. Edelman e pochi altri riusciranno miracolosamente a salvarsi. Edelman ritorna alla vita, "quando si conosce bene la morte, si hanno più responsabilità di fronte alla vita", dirà. Riprende i suoi studi di medicina, lavorerà come cardiologo in un ospedale di Lodz. Non ha voluto lasciare la Polonia, così come aveva rifiutato di partire già all'inizio della guerra. Dirà a Hanna Krall: "Smetti di farmi stupide domande come 'perché non sei partito?'. Prima della guerra dicevo agli ebrei che il loro posto era qui, in Polonia. Che sarebbe arrivato il socialismo e Ebreo e polacco, socialista, aveva festeggiato li 1° maggio del 1943, nel fuoco del combattimento, cantando l'Internazionale; cantando l'Internazionale aveva seppellito cinque compagni caduti, in una tomba, al numero 30 di via Franciszkanska ("Mi crederai? Bisognava avere un ramo di follia per cantare in un cortile di via Franciszkanska). E il suo rimanere in Polonia era come cantare ancora l'Internazionale con lo spirito "folle" di allora, affermare che gli uomini saranno liberi ed eguali, al di sopra delle frontiere e delle divisioni di classe e di razza. L'universalità del suo umanesimo farà sì che egli non consentirà ad emergere come rappresentante dell'ebraismo, né in ciò che rimane della diaspora polacca, né sulle vie del sionismo. D'altro canto il suo modo di concepire la solidarietà fra gli uomini, il rispetto per ciò che appare sacro nel rapporto fra la vita e la morte, sembrano avere radici nel profondo dell'etica dell'ebraismo, spogliata dei riti, laica (si pensa a Spinoza). surrezione del ghetto. Non ebbe mai alcuna simpatia e comprensione per ì monumenti e i discorsi che idealizzavano gli eroi ("erano brutti e sporchi", disse una volta), come pure non indulse mai, anzi respinse il patetico nelle storie individuali. L'eroismo è una categoria che non si addice a chi vive la propria vita al più alto livello di partecipazione al bene e al male della vita altrui, come è accaduto ad Edelman. Nel suo essere medico continua, dice, la lotta contro la morte, per la vita, iniziata nel ghetto di Varsavia. "La vita di una persona, uno su quattrocentomila. Assolutamente irrisorio. Ma poiché una vita rappresenta il cento per cento per ognuno, forse questo ha comunque un senso". "Si tratta unicamente di proteggere la fiamma", conclude. Eroi e monumenti di Stefano Levi Della Torre L'eroica sconfitta del ghetto di Varsavia fu uno dei primi atti della resistenza europea al nazismo, il primo passo di risalita mosso dal fondo della catastrofe. La rivolta (dicembre 1942/maggio 1943) di cui Edelman fu un dirigente ed un protagonista, non si faceva illusioni, fu anzi un atto contro l'illusione, un tentativo estremo di gridare la verità del genocidio a cui il mondo e la stessa massa degli ebrei non riuscivano a credere. Non volevano credere. Le informazioni sulla progressione dello sterminio, che via via raggiungono faticosamente il ghetto isolato — dalle prime camere a gas di Chel-mno del febbraio 1941, al massacro di ebrei tedeschi nella foresta di Lublino, fino alle notizie da Treblinka, il campo di sterminio che ingoiò quasi tutti i cinquecentomila ebrei ammassati nel ghetto di Varsavia — stentano ad essere credute: "Tutti quelli che si abbarbicano alla vita non credono che essa gli possa essere strappata in questo modo". E neanche all'esterno del ghetto ci credono. La ragione alimenta l'illusione: "cercano di convincersi reciprocamente che nemmeno i tedeschi possono massacrare senza ragione centinaia di migliaia di persone, specie nel momento in cui hanno così bisogno di forza lavoro". Questo era un modo dei nazisti: compiere il non credibile circondandolo di eufemismi ("trasferimenti all'est" invece di "sterminio") o di indizi contraddittori: "i tedeschi sono veramente magnanimi: essi permettono alle famiglie persino di ricevere lettere". Restava così uno spiraglio alle speranze illusorie, e la deportazione verso la morte procedeva senza attrito, sospinta dal terrore ma anche lubrificata dall'illusione delle vittime. Quell'illusione era l'alleata dei nazisti; distruggerla è uno dei compiti principali che i militanti delle diverse organizzazioni politiche giovanili (bundisti, sionisti, comunisti) si pongono: "Il 22 luglio (1942), dopo l'affissione dell'avviso 'Trasferimento della popolazione all'est', abbiamo attaccato nella stessa notte dei volantini che dicevano: 'il trasferimento è la morte'". Di pagina in pagina si ripercorre la progressione dell'orrore: dalla costi- □