riNDMCF « ■ dei libri del mesebh _Finestra sul Mondo_ La questione ebraica in Ungheria Dopo alcuni decenni gli intellettuali ungheresi tornano a discutere uno dei problemi cruciali della storia recente del loro paese: la questione ebraica. Il silenzio è stato rotto per la prima volta nel 1984 da un volume di saggi e materiali curato, per le importanti edizioni Gondolat di Budapest, da Peter Hanàk, uno dei più autorevoli storici dell'Ungheria moderna (Questione ebraica, assimilazione, antisemitismo). Gli fa seguito ora una monumentale antologia (La questione ebraica nell'Europa Orientale e Centrale) di contributi di studiosi contemporanei della questione ebraica (da Rodinson a Horkheimer, a Michael Polànyi, a Lòwy, a McCagg), raccolti e introdotti da Robert Simon in un'edizione, a tiratura limitata, dell'università Lorànd Eotvòs di Budapest. Infine, gli "Ac-tes de la recherche en sciences socia-les" di Parigi hanno pubblicato di recente (n. 56, marzo 1985) una serie di articoli di sociologi ungheresi, che illustrano non solo lo stato attuale dell'antisemitismo nel loro paese, ma anche le condizioni dell'ebraismo ungherese fra le due guerre. La questione ebraica conserva oggi in Ungheria la sua crucialità perché vive nel paese una cospicua comunità (circa 100.000 persone di cui 80.000 nella sola Budapest) che, all'inizio del secolo, era dieci volte più numerosa. Nella "grande Ungheria" infatti (dal 1867 al 1918, l'"età del dualismo") gli ebrei erano circa un milione e nella capitale costituivano il 20 per cento della popolazione complessiva. Favorita da una legislazione liberale, l'immigrazione ebraica nella seconda metà del secolo scorso sopperì a un'endemica carenza della società ungherese, agraria e feudale: quella di uno strato di borghesia finanziaria, commerciale e anche impreditoriale. Gli ebrei si magiarizzarono rapidamente, adottarono la lingua e la cultura ungheresi e diedero, quindi, un enorme contributo alla nascita della cultura primonovecentesca (si pensi non solo a I.ukàcs, ma ai fratelli Polànyi, a S ? > Jor Ferenczi, a Ferenc Mol Con i ■ tisgregazione dell'impero si chiude per gli ebrei ungheresi l'età, relativamente felice, dell'assimilazione: nella "piccola Ungheria", nata dal Trattato del Trianon del 1920 e ridotta a un terzo del territorio d'anteguerra, gli ebrei diventano rapidamente per l'opinione pubblica i responsabili maggiori della catastrofe della nazione, colpevoli di aver introdotto nel paese il liberalismo, il cosmopolitismo e, peggio, il socialismo. Sembrava necessario espungere dalla coscienza nazionale tutte Te correnti di pensiero "non magiare", e il lavoro di "purificazione" culminò nell'opera di un importante storico della cultura, Gyula Farkas, autore di L'età dell'assimilazione nella letteratura ungherese 1867-1914, nel 1939. Negli anni Venti e Trenta l'Ungheria, che era stata a lungo la terra d'elezione dell'ebraismo dell'Europa centrale, assistè con indifferenza all'applicazione di leggi antiebraiche e poi alla deportazione in massa, che causò la morte di 570.000 degli 830.000 ebrei che vivevano nei confini del Trianon. Nell'Ungheria liberata dall'Armata Rossa (il cui intervento salvò la vita ai 70.000 ebrei del ghetto di Budapest) il comunismo prometteva di cancellare ogni traccia dell'aborrito passato e di rimuovere le ragioni dell'antisemitismo cancellando le distinzioni di classe. Così, mentre i loro correligionari emigravano in massa verso l'Europa occidentale o verso Israele dai paesi confinanti, entrati nella sfera di influenza sovietica, in Ungheria gli ebrei in parte si identificarono con gli ideali della nuova società rivoluzionaria, in parte tollerarono, come un male minore, rispetto agli orrori del passato, persino gli eccessi dello stalinismo. Molti ebrei collaborarono attivamente alla costruzione del socialismo e fu così che, nel tentativo di perseguire una nuova, totale, assimilazione, l'ebraismo ungherese attirò su di sé l'odio di quanti ebbero a soffrire per gli "errori" del socialismo, i quali finirono per considerarlo poco meno che complice di un esercito invasore. La rivoluzione del 1956 vide preoccupanti rigurgiti di antisemitismo e segnò per gli ebrei la fine di un'illusione: a migliaia essi lasciarono il paese e quanti vi rimasero non si identificarono più con il regime, scelsero il destino di una "minoranza silenziosa" in mezzo a una società che politicamente li tollera, ma (lo attestano alcuni articoli e interviste pubblicati negli "Actes") vede sopravvivere molti residui pericolosi dell'antico pregiudizio. Il socialismo non ha dunque estirpato l'antisemitismo, come semplicisticamente profetizzavano gli intellettuali marxisti nel dopoguerra di Gianpiero Cavaglià (nel volume curato da Hanàk possiamo leggere l'articolo dello storico Erik Molnàr, che nel 1946 dischiudeva agli ebrei ungheresi la radiosa prospettiva della nuova assimilazione, demonizzando il sionismo e i suoi propositi contrari all'assimilazione) e ciò innanzitutto perché nell'Europa centro-orientale nata da Yalta si perpetua l'"umiliazione" dei vari nazionalismi. In tal senso l'analisi più lucida della questione ebraica ungherese rimane quella che ne diede Istvàn Bibó nel 1948, in un ampio saggio che viene ora ripubblicato nel volume curato da Hanàk. Non basta dire, osserva Bibó, che l'antisemitismo era nato in Ungheria come deviazione dell'odio di classe proletario e piccolo borghese nei confronti del capitale e dei residui feudali, perché resta comunque irrisolta la questione, fondamentale, del come e perché sia stato possibile incanalare le tensioni di classe proprio in quella direzione. Nel suo lungo excursus sulla storia ' dell'ebraismo Bibó giunge a conclusioni sorprendentemente vicine a quelle che stava traendo, quasi contemporaneamente a lui, Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo e che pongono le premesse per un nuovo modo, meno schematico, di guardare alla questione ebraica: da pregiudizio religioso, qual era nel Medioevo, l'antisemitismo diventa nell'età moderna pregiudizio morale, vale a dire che gli ebrei appaiono psicologicamente diversi ai non ebrei. Bibó spiega i caratteri peculiari della questione ebraica nel paese riconducendoli alle peculiarità del nazionalismo ungherese. Questo è, diversamente dai moderni nazionalismi dell'Europa occidentale, di tipo culturale e considera "buoni ungheresi" non tanto coloro che appartengono a una razza magiara o vivono nei confini di un certo stato, ma piuttosto coloro che condividono certi valori ideologici, sedimentati nella letteratura e nella civilizzazione del passato. Quando le istituzioni politiche consentono a questo nazionalismo di espandersi, esso può svolgere una funzione assimilatrice non priva di caratteri positivi. Ma quando, per esempio nella piccola Ungheria del Trianon che lasciava fuori dai confini milioni di ungheresi, questo nazionalismo viene umiliato e la sua sopravvivenza si trova in pericolo, esso si trasforma in un'ideologia xenofoba, che espunge da sé, come per una perversa crisi di rigetto, i dannosi elementi non magiari. Le tesi di Bibó non ebbero all'epoca risonanza, ma la discussione sulla questione ebraica che si riapre oggi in Ungheria prende le mosse dai suoi studi. Così fa anche Robert Simon nel suo saggio La questione ebraica come paradigma dello sviluppo inuguale, in cui cerca di spiegare come la società ungherese ottocentesca, arretrata e semifeudale, abbia potuto assimilare solo superficialmente gli ebrei, perché offriva loro un quadro ideologico-culturale che era definito dal nazionalismo della media e piccola nobiltà. All'introduzione di Simon fa seguito una silloge di brani di autori che hanno affrontato la questione ebraica da diversi punti di vista: il materialismo di Abraham Léon, il marxismo critico di Horkheimer e Adorno, l'utopismo di Ernst Bloch, l'approccio sociologico di Polànyi, Lòwy e McCagg. Non mancano poi alcuni interventi storici sulla questione, come quelli di Rosa Luxem-burg e Lev Trockij, ma uno dei pregi maggiori dell'antologia è l'ampia scelta di capitoli da un libro che destò molto scalpore in Ungheria quando fu pubblicato nel 1917: A zsidók ùtja (Il cammino degli ebrei) di Péter Agoston, che indicava come unico rimedio all'antisemitismo, che stava rinascendo, la conversione di massa. Il libro suscitò all'epoca un importante dibattito, a cui parteciparono intellettuali e scrittori di primo piano; i materiali del dibattito vengono ora in parte ripubblicati in questa antologia e in quella curata da Hanàk, e costituiscono una fonte importantissima per ricostruire le origini e i termini ideologici della questione ebraica nell'Ungheria novecentesca. Non è certo un caso che il riesame della questione ebraica avvenga in Ungheria proprio ora e cioè dopo che, da alcuni anni, la storiografia ha dato l'avvio a una revisione del passato absburgico della nazione, riconoscendone gli aspetti positivi e abbandonando la retorica (in voga negli anni dello stalinismo) dell'impero come "prigione dei popoli". E questa una prova ulteriore del fatto che questione ebraica e questione nazionale sono indissolubili in Ungheria e che l'antisemitismo può essere debellato ovviamente soltanto se la coscienza nazionale è aperta, tollerante e democratica. Purtroppo sussistono ancora oggi molto ostacoli al pieno sviluppo di una coscienza nazionale del genere, perché, se all'interno del paese sembrano aprirsi spazi di democratizzazione, gli ungheresi sono risospinti verso il vecchio nazionalismo intollerante dall'esistenza, fuori dai confini, di una grossa minoranza magiara perseguitata (nella Transilvania romena). La "miseria dei piccoli stati dell'Europa orientale" (è il titolo di un importante libro di Bibó) è fatta anche di povertà di spazi di discussione: all'Ungheria è ancor oggi negato un nazionalismo democratico, perché l'assetto internazionale tiene desto lo spettro che da secoli assilla la sua civiltà, quello del nemzethaldl, della morte della nazione, ed essa continua a difendersene distinguendo tra veri e falsi magiari. Zsidókérdés Kelet-és Kòzép-Európàban, a cura di Robert Simon, Università Lorànd Eotvòs, Budapest 1985, pp. 526, s.i.p. L'antisémitisme, in "Actes de la recherche en sciences sociales", n. 56, marzo 1985, pp. 3-68. Zsidókérdés, asszimilàciò, antisze-mitizmus, a cura di Péter Hanàk, Gondolat, Budapest 1984, pp. 382, ft. 58. Imbarazzo a Budapest di Gian Giacomo Migone Durante un breve soggiorno ungherese, che aveva tuttaltro scopo, mi è capitata tra le mani l'antologia curata da Robert Simon e Ferenc Miszlivetz e mi sono fatto spiegare il problema politico e culturale che ha sollevato. Questo denso volume (quasi mille pagine, se stampate in un corpo meno piccolo) — un'antologia di scritti storici sull'antisemitismo nell'Europa dell'est e in Ungheria — è stato pubblicato da una casa editrice universitaria, come sarebbe stato logico in qualsiasi paese, anche dell'occidente. Meno usuale è il fatto che, dopo una settimana, la prima tiratura, di 2500 copie, era già stata esaurita. Anche se ciò avveniva nei giorni precedenti le feste natalizie, quell'antologia non aveva proprio le caratteristiche della strenna. Non vi sono stati aperti interventi di censura, anche se il capo del dipartimento del marxismo del ministero della cultura ha preso tre significativi provvedimenti. Per via telefonica ha avvertito le librerie che non sarebbe stato opportuno diffondere una eventuale ristampa. Inoltre, lo stesso dipartimento ha nominato un'apposita commissione per studiare il caso, con l'evidente intenzione di formulare una linea di comportamento da assumere di fronte ad una ripresa di iniziativa e di dibattito sulla questione dell'antisemitismo. Infine, i due curatori del libro sono stati invitati a fornire delle spiegazioni sulle motivazioni della loro iniziativa. Perché tanta preoccupazione, ma anche tanto imbarazzo nella scelta delle forme di intervento da parte di un regime che, se è tra i meno illiberali del patto di Varsavia, tuttavia rivendica apertamente il diritto di determinare la circolazione della carta stampata? Naturalmente il tema dell'antisemitismo continua ad essere scottante, anche se ufficialmente, proprio in occasione dell'uscita del libro in questione, ci si ostina a sostenere che è "inesistente nell'Ungheria di oggi". In realtà esso catalizza conflitti latenti (più raramente espliciti) all'interno di settori intellettuali e professionali, come quello medico, della letteratura e delle arti figurative, della musica. Inoltre, esso accentua il contrasto tra l'Ungheria urbana e quella rurale, non di rado esaltata dagli ambienti più conservatori del regime come alla radice dell'"essenza popolare del paese". Infine, è evidente la vulnerabilità della politica sovietica — che, in generale, per la sua impopolarità, deve essere subita ma non discussa — a questo riguardo. Nello stesso tempo il tema è di natura tale da rendere estremamente disagevoli reazioni censorie dure ed esplicite: è, cioè, tale da prestarsi ad un uso tattico da parte di chi vuole allargare gli spazi di libertà intellettuale. Tutto ciò avviene in un clima di cauto ottimismo da parte di chi è convinto che la tendenza verso una maggiore liberalizzazione sia lenta ma inesorabile (purché condotta con grande prudenza, di cui questa antologia è per l'appunto una manifestazione).