N. 5 pag. 131 Poesia Poeti Poesie vantissima dei poeti "sogna". Lo "sogna" e lo "finge" da quasi due secoli, anzi quei sogni e quella finzione, di lettori «simili e fraterni», che verranno «quando l'uomo sarà aiuto all'uomo» e così via, è uno dei temi capitali, della lirica «moderna». E cioè che i canti, un tempo rivolti alla freundliche Gedraenge, al folto degli amici, non debbano se non per sventura essere rivolti ormai alla "ignota moltitudine", alla unbekannte Mente, come lamentava Goethe nella dedica al Faust. Si trattava, nel 1797, è ovvio, della diffusione industriale della letteratura; e buona parte degli scrittori del secolo successivo, dichiarando di volere possedere pochi o magari nessun lettore non facevano che richiedere a quei pochi (o a quell'alter ego) la medesima pienezza e integrità umana che attribuivano a se stessi o alle età trascorse; mentre, ad esempio, per un U. Eco (diverso, in questo, da Goethe) la Menge non è unbekannte, anzi esplorata di continuo e analizzata, come la folla di un lager notturno, dai mobili riflettori demoscopici delle inchieste di mercato. La nostalgia di una società nella quale l'aristocrazia e il popolo parlassero una medesima lingua (e la formula che trent'anni fa impiegai per definire la nostalgia di Noventa; ma oggi potrei ripeterla con molto minore consenso) è nostalgia di una illusione; o di una speranza. Ricordate (cito nella versione di Giorgio Vigolo), l'Arcipelago di Hòlderlin: "Perché nelle braccia del padre riunito un popolo amante! Sia umanamente gioioso e uno spirito a tutti comune"... Ma ahimè, "ognuno nel fragore dell'officina / Solo ode se stesso... " Voglio dire che l'immagine di una estrema concretezza e varietà dei destinatari, raccolta in un comune orizzonte non solo esistenziale ma intellettuale (nel senso del tomistico intellectum che sequitur, non praece-dit, voluntas) è parte dell'Utopia del nostro secolo, quella che oppone agli idioletti e ai dialetti la prospettiva di una comunicazione, o lingua intellettuale, universale. Si dica semmai che dopo i cinquantacinque anni che passano fra quel testo di Hòlderlin e ì'Invitation au voyage bau-delairiana (dove si parla di una douce langue natale) non è più alle "braccia" paterne che i poeti si raccomanderanno bensì alla "lingua" materna, al nascondiglio dove si parla petél, e, con esattezza, proprio Zanzotto aveva sottolineato "i raccordi, le rime dell'abbietto col sublime". E la Madre-norma ossia madre ma anche legislatrice- Ma allora quei destinatari sono i medesimi per i poeti in lingua e per quelli in dialetto. Ci valga constatare (a) che una parte amplissima della produzione poetica "in lingua" quale oggi si scrive si distacca dalla lingua della prosa comunicativa o italiano scritto non solo di quanto l'istituzione poesia differisce dalla istituzione prosa ma per organizzate escursioni su e giù, lungo la scala diacronica, in funzione parodica o "comica", per frantumazioni e coacervi di origine avan-guardistica, per deliberati effetti da traduzione o citazione da stranieri o da tradizioni letterarie secondarie; e che in ciò fare non conta su destinatari reali diversi da quelli dei dialettali, perché si tratta pur sempre di filologi o letterati o aspiranti tali; (b) che "le esperienze di liricità pura", da tempo, secondo Mengaldo, "negate ai poeti in lingua" sono invece, in questi ultimi anni, ripercorse anche da buon numero di costoro, magari per una sorta di retroazione della nuova dialettalità, il "cuore-in-ma- no", che da Pascoli a noi è stato costitutivo di buona parte del lirismo dialettale, riproponendosi in molta ripresa intimistica e crepuscolare. E oltre alle usurate maschere del decadentismo e crepuscolarismo "storico", altre ce ne sono, in uso "postmoderno". Aggiungo che è difficile non scorgere un qualche parallelismo fra il revival neodialettale e l'universo ideologico liquidatorio-pen-titistico dell'ultimo decennio, con la sua doppia dimensione, quella positiva, di resistenza al mondo del consumo alienato, e quella negativa, di Si tratta di un romanzo originale e sorprendente per l'epoca in cui fu scritto; nei confronti di questo romanzo, in varia misura, tutti gli scrittori sudafricani sono indebitati ed esso mantiene tuttora intatto il suo fascino. Con Olive Schreiner la letteratura di lingua inglese in Sudafrica dichiara la propria indipendenza e l'immaginazione diventa locale: niente di più diverso dagli stereotipi della tradizione letteraria coloniale, fitta di avventure romantiche ed eccitanti di prodi guerrieri neri, in una terra piena di mistero e di strane usanze. "Racconti simili", ci dice la scrittrice, "possono essere scritti bene solo vivendo a Piccadilly o sullo Strand, ovvero là dove le doti della fantasia creativa, non ostacolate dal contatto con la realtà dei fatti, possono dispiegare in pieno le ali ". La realtà che conosceva a fondo, era quella che descrive nel romanzo: la provincia del Capo della sua infanzia, una comunità isolata, rurale che comincia a mostrare segni di cambiamento. In questo sfondo emergono i personaggi, adulti e bambini, e i loro conflitti. Domina nel gruppo degli adulti Tant'Sannie, la donna boera, grassa e soddisfatta, che conduce la propria fattoria con sistemi feudali e ha un approccio pragmatico al matrimonio, al sesso, alla religione: seppellisce un marito dopo l'altro, rassegnandosi alla volontà divina e si mette subito in cerca di un nuovo compagno che badi al bestiame e le dia figli. Al polo opposto sta Otto, il sovrintendente tedesco, personaggio basato sul padre della Schreiner, attaccato ai valori cristiani, idealista e sognatore, destinato a soccombere all'arrivo di Bonaparte Blenkins, imbroglione e profittatore, primo elemento estraneo che giunge a turbare lo scenario immobile e claustrofo-bico della fattoria. Ma i veri protagonisti sono Lyndall, Waldo e Em, che vediamo prima fanciulli e poi giovani adulti che lottano per superare le limitazioni dell'ambiente. La desolazione e la siccità del gibile "paternità". Tanto più che tale prosa, quale ci circonda dai mezzi di comunicazione di ogni sorta, è ormai la lingua a partire dalla quale inventiamo i nostri dialetti o gerghi o vernacoli; onnipotente matrigna. Solo quando avranno abbandonato l'autoinganno di poter ritornare "dove son quelli che amano ed amo" (per dirla con un verso di un loro androgino padre) o di farsi riassorbire "come una macchia dalla terra nata" (per dirla con un altro verso di un altro loro androgino precursore) la smetteranno di gestire lamentose Karoo trovano corrispondenza nel paesaggio interiore del mondo infantile. Lyndall è ribelle e anela alla bellezza, alla conoscenza e alla libertà; Waldo, il pastore, oppresso dall'ignoranza e dalla solitudine, cerca invano di scoprire i misteri della religione. Nella capacità di descrivere l'acuta sofferenza di queste ed altre esperienze, si rivela la visione del mondo della Schreiner: la vita è una battaglia che deve essere combattuta in ogni momento e il successo è nella lotta. Questa è anche la scelta di Lyndall: lascerà la fattoria con l'uomo che ama, rifiutando però il matrimonio cui antepone l'indipendenza e la libertà, ribellandosi ad un sistema che vuole condizionarla in quanto "donna, giovane, sola, la cosa più debole su questa terra, il cui unico pregio agli occhi del mondo era la sua bellezza", e seguirà nella tomba il suo bambino, vissuto solo poche ore. Anche l'evasione di Waldo sarà inutile, ma queste brevi vite trovano valore e significato nell'aver mostrato la strada agli altri. Solo Em sopravvive perché sposandosi, si sottomette al ruolo tradizionale della donna e rimane nella fattoria africana del Karoo, unica vera realtà in un romanzo che inizia e termina con un sogno. "C'è un legame sottile e reale che unisce tutti noi sudafricani e ci distingue dal resto del mondo: la nostra mescolanza di razze. La sola forma di organizzazione valida e naturale deve prendere atto di questa condizione. Se il Sudafrica del futuro dovrà rimanere roso internamente da odi razziali, allora il nostro destino è segnato: il nostro posto fra le grandi, libere nazioni della terra resterà vuoto". intima igiene e puri sentimenti all'ombra dei massacri. Di qui anche, la riprova della autenticità profetica di Loi che scrive Strolegh fra '70 e '71 e quindi legge in chiave di rovina del proprio passato un presente apparentemente in espansione sovversiva ma destinato alla sconfitta. In questo senso il va e vieni di Zanzotto (qui Mengaldo ha visto benissimo) è proprio indicativo della potenziale scomparsa di ogni vera differenza fra poesia in lingua e poesia in dialetto; quest'ultima — come tendenza di cultura non come singoli valori poetici — è solo, fra quelle della istituzione poetica, una forma più sofisticata, più elitaria, più tradizionalmente corporativa e conservatrice di altre, oggi come in altri secoli — fintanto che, almeno, discussioni come la presente non saranno tenute in genovese o in veneto o in milanese. Altro che la pascoliana "sintesi impossibile di un contadino della Lucchesia e di un filologo"! Ci sarà anche il "contadino", voglio ammetterlo; ma (come nella famosa storiella di quello che aveva trovato modo di far soldi con il paté di allodola, mettendoci, è vero, un po' di carne di cavallo; e a chi gli domandava in quale proporzione, rispondeva: "Oddio, metà e metà. Un cavallo, un'allodola; un cavallo, un'allodola") cresce la quota del filologo e diminuisce quella dell'allodola. L'aulica prosa italiana di ascendenza "rondista" (Longhi) era già impiegata "stilisticamente" da certo Pasolini e qualcosa di non troppo diverso fanno oggi molti degli autori che scrivono versi "in lingua" con l'eredità della prosa "alta" del passato secolo e con quella della storiografia, della saggistica e della critica che nel nostro l'ha proseguita. Scrivere "in italiano" vuol dire scrivere nell'italiano di ieri e volere che lo si avverta, ecco tutto. L'avvenire dei neodialettali (e non solo di costoro) è, secondo me, tutto nelle conseguenze di un confronto con la prosa; con la prosa ideologica, storica, filosofica, scientifica, con tutta la prosa — con la sua irrespin- o prepotenti accademie. Il "paradosso della lirica moderna" è tanto loro quanto della poesia in lingua. C'è un racconto di Mann dove, al tempo del primo dopogeurra, una vedova europea di alta cultura e di mezza età, innamorata di un giovane ufficiale americano leso nelle parti genitali, crede esito di un proprio riflusso di giovinezza l'emorragia che le annunzia un cancro. Non siamo molto più informati di lei, sulle nostre passioni e sul sangue dei nostri versi; anzi, può darsi (come scriveva Sereni citando Ungaretti) che ce ne voglia, di sangue marcio, per fare un poeta. Solo che non possiamo cessare di domandarne ragione a destinatari virtuali. Ma i veri destinatari virtuali, hanno, dice Mengaldo "un volto umano peculiarissi-mo". Certo: noi vi vediamo o prevediamo uniti i tratti del Padre e quelli della Madre. Se mai saranno, saranno (e lo si sarebbe dovuto sapere da un pezzo) molto semplicemente migliori di noi; e perciò nostri giudici. □ MARIETTI