N.5 pag. 38| Letteratura Arthur Schnitzler, Commedia delle parole, Edizioni SE, Milano 1986, ed. orig. 1915, trad. dal tedesco e prefazione di Giuseppe Farese, pp. 124, Lit. 13.000. Arthur Schnitzler ha colto l'esistenza come gioco e mascheramento, come inganno e illusione: un malinconico sentimento che egli trasferisce nella vita di coppia, in un balletto a due che si tinge di violenza ed empietà nello spazio delirante degli egoismi. Ed eccoci così alla Commedia delle parole del 1915, un ciclo di tre atti unici indipendenti fra di loro, ma con affinità che il critico danese G. Brandes individuò nella rappresentazione del tessuto labirintico delle tendenze erotiche e di come i vincoli matrimoniali inibiscano e avvincano i cuori. Le tre coppie che qui si affrontano in spazi da Kam-merspiel (atrio di stazione, stanza da pranzo, camera d'albergo, veri carceri d'invenzione per anime estraniate) appartengono alla borghesia intellettuale dell'epoca: un medico affermato che ha racchiuso cinicamente in sé per dieci anni la coscienza del tradimento della moglie, un istrionico attore, vuoto ed infantile, che coltiva la menzogna e recita con la consorte la commedia della fedeltà, e un narcisistico scrittore che, tradito dalla moglie, per maschile orgoglio la riguadagna a sé con lucido e protervo esibizionismo. "Il matrimonio è la scuola della solitudine", scrisse l'autore in un aforisma, che ben si presta a riassumere l'epilogo di tali schermaglie. C'è chi fugge come Klara, la moglie del medico, chi invece resta, sfibrato dalla disillusione. Ma per tutti il sipario scende sul vuoto della vita, sulle parole svilite dalla menzogna. L. Forte Arthur Schnitzler, Il dottor Grasler medico termale, Mondadori, Milano 1985, ed. orig. 1917, trad. dal tedesco di Giuseppe Farese, pp. 144, Lit. 6.000. Con la solita mano leggera A. Schnitzler ha tratteggiato in questo racconto, scritto dopo una prima stesura del 1911 fra il gennaio e l'ottobre 1914, il ritratto di un uomo ormai maturo che dopo la morte inaspettata della sorella per suicidio si vede confrontato con la solitudine. Il dottor Grasler, medico termale, che da anni divide la sua attività professionale fra le isole Canarie e una piccola città balneare tedesca, tenta perciò durante i mesi estivi trascorsi in patria di rompere il cerchio della solitudine e della vecchiaia che sente stringersi intorno a lui. Ma l'incontro con due giovani donne, i due episodi chiave della novella, si risolvono in un fallimento a causa della patologica indecisione dell'uomo, che rimane prigioniero del proprio filisteismo pedante. Vanità e pregiudizi sociali gli impediscono di accettare un rapporto stabile con una di esse. Così alla fine Grasler sarà facile preda di una giovane vedova che sa sfruttare la sua disperazione. Il quadro psicologico assai differenziato del protagonista conferisce a questo racconto una qualità estetica che non ha perso il suo fascino. A. Reininger Anna Seghers, Transito, Edizioni e/o, Roma 1985, ed. orig. 1963, trad. dal tedesco di Mario Ramous e Anita Raja, pp. 225, Lit. 22.000. Transito è l'autorizzazione a "passare attraverso un paese senza fermarsi qualora sia certo che non ci si vuole rimanere", ed è anche il contraltare, nell'Europa impazzita della seconda guerra mondiale, del permesso di soggiorno cui, soltanto pochi anni prima, anelava l'agrimenso- re K. (Si veda in proposito la novella Incontro a Praga della stessa autrice). Ma transito è anche la condizione sospesa in cui Anna Seghers, transfuga dalla Germania e in attesa di imbarco per il Messico, nel 1943, quasi in sincronia con gli avvenimenti narrati, scrisse lo straordinario romanzo in cui, in un turbine di vicende solo apparentemente lineari, è adombrata la tragica storia dello scrittore austriaco Ernst Weiss. Al termine del viaggio atteso non c'è soltanto un riparo dalla furia perse-cutrice della guerra, ma anche qualcosa di non prevedibile: l'esito, forse, delle esistenze individuali e dei destini continentali. Nell'attesa del fatidico visto si consuma in un balletto di sonnambuli un groviglio di sterili vicende sentimentali; proprio queste, per la loro insensatezza, costituiscono, secondo l'espressione usata da Christa Wolf nel saggio introduttivo, inedito in Germania, che accompagna l'edizione italiana, "una delle misteriose, oscure, fonti di energia di questo romanzo". L. Rastello Knut Hamsun Schiavi dell'amore a cura di M. Rosolini e U. Pannunzio, L'Argonauta, Latina 1985, trad. dal norvegese di Clemente Giannelli, pp. 101, Lit. 12.000 Hamsun (1859-1952), scrittore norvegese di grande successo nel primo '900, premio Nobel per la letteratura nel 1920, fu autore di drammi e romanzi centrati su protagonisti che trovano in un'interiorità istintuale, ritmata dalle leggi della natura, il senso ultimo dell'esistenza. I sette racconti qui raccolti risalgono agli anni 1897-1903. Natale in montagna rivela la matrice agreste di Hamsun, la sua predilezione per i personaggi lega- ti alla terra, all'avvicendarsi delle stagioni, ai riti e ai costumi del luogo natio. Ne nascono scorci — oggi interessanti proprio perché preindustriali — di un mondo nordico e grevemente patriarcale, in cui "con l'aiuto di Dio c'è un rimedio a ogni male". Gli altri racconti s'inscrivono invece nel decadentismo europeo fine secolo. I protagonisti, attratti dal fascino enigmatico del sesso, sospinti dalla forza selvaggia del destino, sono appunto "schiavi d'amore". Ci sono donne frementi con cappello nero e frustino, amori repentini che divampano grazie a scudisciate in volto, passioni che erompono spazzando ogni convenzione sociale. Qua e là trapela la lettura di Nietzsche, addomesticato però da un'aria di provincia scandinava e da una narrazione affabulante, retrospettiva, di chi racconta col senno di poi. L'italiano di Giannelli fa talvolta sorridere: c'è un tale che cammina tutto contento coi suoi piedi (p. 19), una schiava d'amore che non andò, ma corse a prendere tre bicchieri (p. 8) e anche una gamba rotta che diventa inflessibile (p. 65). Ma la parte più sorprendente di questo libretto è la postfazione, scritta a quattro mani dai curatori della collana: un esempio interessante di come oggi si possa — per la modica spesa di L. 12.000 — disinformare il lettore, disorganizzando la Storia, letteraria e non. In sette pagine di "Note di Commento" ci si potrebbe infatti aspettare un profilo di Hamsun, magari con l'indicazione che il Nostro, con la sua mistica della natura, finì poi in braccio al nazismo. Invece no, anzi. Prima si riproduce un elogio fremente di Altenberg che — morendo nel '19 — non ebbe modo di prendere nota delle involuzioni successive. Poi lo si cita sostenendo che "l'umanità sarebbe migliore, soltanto vi fossero al mondo lettori fedeli di quei grandi, di quelli che hanno anticipato l'esito finale degli stadi di sviluppo del cervello umano". Ma non basta. Depistando il lettore desideroso di raccapezzarsi con un'esibizione ammiccante di grandi nomi messi li a casaccio, da Leopardi a Borges, da Kraus a Walser, con un tono divinatorio, elusivo, fondato sull'empatia — che rimanda, non a caso, alla critica antistorica del primo '900 — Rosolino e Pannunzio invitano a una lettura emozionale, surriscaldata, che sia insomma "forma della felicità". Provare per credere. A. Chiarloni Peter Szondi, La poetica di Hegel e Schelling, Einaudi, Torino 1986, trad. dal tedesco di Anna Marietti Solmi, pp. 333, Lit. 18.000. Szond. i>ato a Budapest nel 1929 e scomparso prematuramente nel 1971, allievo di Emil Steiger all'Università di Zurigo, può senza dubbio essere considerato uno dei più profondi studiosi del romanticismo e dell'idealismo. Molto noti sono i suoi studi sulle poetiche dell'idealismo e sulla struttura del dramma (Theorie des modemen Dramas), lavoro che lo rese celebre in tutta Europa all'età di ventisette anni. Il volume raccoglie i risultati degli ultimi studi di Szondi che integrano l'ipotesi critica sviluppata nei suoi due testi più importanti, Versucb uber das Tragiscbe, e Satz und Gegensatz. I due lunghi scritti ("La teoria hegeliana della poesia", "La poetica dei ge- neri di Schelling"), concepiti originariamente come lezioni all'Università di Berlino nei primi anni Sessanta, hanno il valore di esaurienti commenti all'Estetica di Hegel, analizzata nelle sue varie sezioni, e alla filosofia dell'identità di Schelling, collegata (secondo un'ipotesi critica già sperimentata da Szondi in altri suoi studi) con la teoria schellinghiana dell'arte e del tragico. G. Costa Galeotto del Carretto, Li sei contenti. Commedia, a cura di Maria Luisa Doglio, Centro Studi Piemontesi, Torino 1985, pp. 56, s.i.p. Un marito che simula una lunga cerimonia di autocastrazione di fronte agli spettatori per ottenere il perdono della moglie tradita; sei personaggi che alla fine dell'opera si dichiarano contenti del groviglio di relazioni erotiche che hanno allacciato, e rivendicano il diritto di "sollazzarsi" a proprio talento, in piena libertà sessuale. Questa, ridotta all'osso, la vicenda molto osé della quasi ignorata commedia della fine del Quattrocento, scritta da Galeotto del Carretto, di cui Maria Luisa Doglio ha curato una bella edizione. La commedia era stata liquidata con fastidio, tra i risentimenti moralistici degli studiosi dell'Ottocento, che vi vedevano ad esempio una delle "più sfacciate e turpi commedie del secolo XVI", volta a "suscitare le grasse risa degli impudichi spettato- C. Marazzini Aldo Rosselli, a pranzo con Lukàcs, Edizioni Theo-ria, Roma 1986, pp. 84, Lit. 6.000. Il noto scrittore rievoca garbatamente il soggiorno di Lukacs (spesso ospite della sua famiglia) a Firenze nel 1956. Per il ragazzo che egli allora era il personaggio famoso che ca- pita in una città più provinciale di quanto si creda, chiusa in una "soffocante geometria", porta una ventata di internazionalismo non si sa bene se borghese o proletario. Da una parte è alquanto compassato e professorale e il ragazzo se lo immagina sprofondato in reciproci "inchini intellettuali" nei suoi rari incontri con l'ammiratissimo Thomas Mann; dall'altra è circondato dall'aureola della repubblica ungherese dei consigli e di Storia e coscienza di classe. In questa contraddizione il ragazzo impara insensibilmente, anche in base al modo di mangiare o al vestire corretto ma trasandato, a diffidare della grandezza pur riconoscendola. Non mi pare proprio che Lukàcs avesse "mani da operaio" ed escluderei che parlasse il latino in modo da confondere il parroco del Duomo di Siena con il suo povero latinuccio ecclesiastico: temo che qui Rosselli abbia proiettato sul filosofo il suo classicismo (che del resto, secondo le tradizioni tedesche, era molto più greco che latino, chi sapeva bene il latino era il suo antagonista Brecht). Inoltre Rosselli rimproverava alla sua ragazza di ignorare opere di Lukàcs pubblicate anche vent'anni dopo il 1956. Ma sarebbe assurdo prendere alla lettera il gradevole libretto. Non è un contributo alla biografia del filosofo, bensì un momento di sviluppo dell'autocoscienza a contatto con un personaggio insieme monumentale e poco convincente come gli ideali del mondo da cui Rosselli proveniva e da cui voleva oscuramente emanciparsi. C. Cases LA STORIA I grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea 10 VOLUMI direttori Nicola Tranfaglia e Massimo Firpo con la collaborazione di oltre duecento autori italiani e stranieri Sono usciti Volume secondo: Il Medioevo-2. Popoli e strutture politiche Volume quarto: L'Età Moderna - 2. La vita religiosa e la cultura Volume nono: L'Età Contemporanea-4. Dal primo al secondo dopoguerra UTETn 020101010202000200020002020102010101000102010200020102009153000102020200000202020101020200010102020001