» o liete, letterarie o umane dei settanta anni di Natalia Ginzburg , penso a uno sviluppo coerente del suo lavoro creativo. In questo la vedo diversa da tanti intellettuali che onorano (e sono onorati) col loro nome in una lista, ma che restano solo se stessi, con la loro perizia professionale e non si compromettono veramente con la politica, non si sporcano le mani. Natalia non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani, è sempre stata schierata. La seconda guerra dei trent'anni (1914-1945) e soprattutto le grandiose e tragiche vicende fra il 1933 e il 1945 sono sempre sullo sfondo dei suoi romanzi e racconti, ne sono parte inscindibile, accompagnamento inseparabile dal continuum delle esperienze personali e famigliari dei diversi attori. Ricordo la rabbia che mi prese quando, nel 1963, Asor Rosa, su un bel settimanale che usciva allora, "Mondo Nuovo", accusò Lessico famigliare di snobismo perché esibiva la famigliarità dell'autrice con persone importanti. Fui tentato di mettermi a tavolino per ricordare al critico il paradigma dello snobismo nel citare personaggi importanti per vergognarsi di frequentarli, come Swann in casa Verdurin. In Natalia, al contrario, non vi è ombra di snobismo. Nel Lessico famigliare, come In tutti i nostri ieri, come nelle Voci della sera, le persone con nome e cognome oppure introdottesi travestite nel racconto, sono famigliari, parenti, amici o conoscenti le cui vicende personali si intrecciano con le vicende pubbliche in una creazione che non è una somma di eventi sovrapposti ma una unità. Per cui lo sfondo cessa di essere tale, è una componente decisiva del racconto, insieme colle gioie, coi dolori, con le delusioni, con le tragedie dei personaggi. Torino, Ivrea, l'Abruzzo, Roma sono scenari nei quali la Ginzburg muove i suoi attori in un tempo in cui ero lontano, ma mi riconosco sempre e subito: con quegli attori piango la caduta di Parigi e vivo le persecuzioni razziali o politiche. Anche in un libro di infelicità, di dolore acuto, È stato così, libro diverso dagli altri e anche discusso, mi riconosco appieno, in quella Roma dell'immediato dopoguerra in cui, dopo tanti sogni di purezza e di saldatura fra la vita quotidiana finalmente libera e l'impegno morale della resistenza, mi accorgevo che tutto, io compreso, diventava piccolo e meschino: un periodo che nella memoria mi appare come uno dei più squallidi della mia vita e che mi fa ritrovare in È stato così. Rileggere tutti insieme (e in parte dei libri del mese anche leggere per la prima volta) tutti i suoi scritti dal 1941 al 1965, porta a una dimensione diversa: più che ai libri viene da pensare all'autrice, alla persona Natalia Ginzburg. Spesso mi pare di averla sempre conosciuta, cosa del tutto comprensibile. In realtà vi deve essere stato un inizio. Devo avere incontrato quella ragazza bruna, dal viso lungo e di pelle oscura, in compagnia della sua bella ed elegante madre Lidia. Abitavamo entrambi in quella zona fra corso Siccardi (ora Galileo Ferraris) e la ferrovia, come tanti antifascisti di quegli anni. Lei era allora, per me, la figlia più giovane di un illustre scienziato, anatomico e istologo, Giuseppe Levi. Ma subito dopo, e per molto tempo, Natalia fu per me la sorella del mio amico-fratello, Alberto, legato ad una amicizia che sarebbe durata fino alla sua morte, nel 1969, morte cui non mi sono mai rassegnato. Era anche la sorella di Mario, mio collega di cospirazione politica in Giustizia e Libertà. Poi Natalia divenne per me la moglie del mio amico-maestro, Leone Ginzburg: si sposarono quando io stavo in carcere e non li vidi mai insieme ma pensai sempre a loro, cercando di immaginare la loro vita e i loro bambini. Quando nacque il primo figlio, Carlo, lo seppi da mia madre, in un colloquio a Regina Coeli; mi disse: "Natalia ha avuto un bambino, si chiama Carlo, come lo zio», alludendo a Rosselli che era stato assassinato allora dai fascisti. Sognavo allora che quando sarei uscito avrei fatto una grande festa per tutti i bambini dei miei amici che erano nati durante la mia carcerazione; mi sarei fatto aiutare da mia madre perché non avevo idea di come si fa una festa per i bambini. Ma quando uscii c'erano altre cose cui pensare. Rividi Natalia a Roma, dopo la morte di Leone e la liberazione, in preda a una profonda infelicità. Io avevo sposato Lisetta e poco dopo Natalia sposò Gabriele Baldini. Ci vedevamo in incontri di coppia. Natalia era dunque sempre figlia, o sorella, o moglie, o un pezzo di coppia. Solo negli ultimi anni la vedo come lei, Wtfeg1 Tullio Pericoli: Natalia Ginzburg senza mediazioni. E allora mi pare di riconoscermi ancor meglio nei suoi scritti, di sentire il suo mondo, di lei donna e poeta, con una vita così remota dalla mia, come un mondo mio. Il confino in Abruzzo ricordato con tanta nostalgia nell'autunno del 1944, nel ricordo dei tempi felici perduti, l'Abruzzo di La strada che va in città. La Torino di Pavese, che sento ancora più tenera e forte quando penso che la Ginzburg, secondo me, non è mai stata pavesiana, come non è mai stata neorealista, perché non ha mai concesso nulla alla moda e per questo tutto è sempre nuovo nel suo ciclo creativo proprio perché tutto continua. Ancora: la guerra e la resistenza in Tutti i nostri ieri. Ancora sono emozionato, in Lessico famigliare, quando Natalia si piega sul tempo del carcere, sui carcerati: "Sembravano sempre più lontani, irraggiungibili e miracolosi; sembravano sprofondare in una lontananza sempre più buia, che assomigliava alla lontananza dei morti". In una nota del 1964 la Ginzburg spiega che non si deve scrivere per caso, "lasciarsi andare al gioco della pura osservazione e invenzione, che si muove fuori di noi... Scrivere non per caso è dire soltanto di quello che amiamo. La memoria è amorosa, non è mai casuale, essa affonda le sue radici nella stessa nostra vita... è sempre appassionata e imperiosa". Questo farebbe pensare che Natalia Ginzburg è tutta nei suoi libri. È proprio qui che nascono problemi. Natalia non parla del suo passato e quando è interrogata risponde poco e con difficoltà. Ho chiesto ai suoi figli se parla con loro di se stessa e della sua vita, mi hanno detto di no. D'i uno che scrive molto del suo mondo verrebbe da dire: che bisogno ha di parlare se tutto è già scritto? Invece non è così. La tristezza di Natalia non è spiegata, è la tristezza che si legge nel suo sguardo e nei suoi movimenti, è 1 a tristezza che pervade i suoi scritti. Essa è come il risvolto persino di un racconto pieno di gioia e di amore come Luì e io, il racconto della sua vita con Gabriele. La Ginzburg parla, sempre nella nota del 1964, del rapporto dello scrittore con l'infelicità: l'infelicità non deve essere "una interrogazione lagrimosa e ansiosa, bensì una consapevolezza assoluta, inesorabile e mortale". Ma il dubbio resta. La tristezza non può, in questo caso, essere un fenomeno umorale e non può comunque essere attribuita solo a specifici eventi. Essa vela un giudizio sul mondo che resta oscuro. È un silenzio che nasce insieme alla scrittura. E, come dice Natalia, "il silenzio dello scrivere". Forse dobbiamo accontentarci di leggere e non cercare altro. vo, quando avrebbe potuto essere indifferentemente il trafficante d'armi, o lo spacciatore, o "la portinaia perché gli pestava l'erba". Come Gadda, Stefano Benni assume, in un mondo in cui questo non è più di moda, i tratti del moralista per la sua fedeltà ad una visione del mondo, che ovviamente non è quella di Gadda ma piuttosto analoga a quella che era di moda nell'"indimenticabile" '68. Il riferimento della struttura del romanzo a Gadda è particolarmente interessante perché depurato di ogni elemento mimetico, banalmente imitativo. Come è facile intuire, il linguaggio di Benni resta esattamente opposto a quello di Gadda, allusivo ed immateriale quanto l'altro era descrittivo e materico. Benni tende infatti a mascherare da favola ogni realismo. In questa intenzione leggo una seconda traccia significativa. Penso ad una certa letteratura suda- mericana, in particolare al Diario della guerra al maiale di Bioy Casa-res, ricordato del resto dal protagonista Lucio Lucertola, professore in pensione, anziano come è anziano, ed anche lui minacciato — spinto alla morte dall'oppressione della società contro gli anziani, il protagonista del romanzo di Bioy Casares. O ai "gialli" di H. Bustos Domecq, scritti a quattro mani da Borges e Bioy Casares. Comunque, la ricerca di Benni trova i suoi principali fondamenti in Benni stesso, che rimane, anche come romanziere, uno che sa scrivere per ì giornali e non rinnega questa sua qualità. Pone in cima al romanzo uno straordinario effetto di lontananza, in cui il nostro presente è visto come se fosse guardato da lontane epoche future, che chiameranno la nostra era "del Vecchio con la caffettiera (dal nome del più antico reperto trovato)". "Il paesaggio era molto diverso dal nostro. In agglomerati di abitazioni chiamati attà vivevano milioni di uomini entro case altissime e uguali". E poi, all'interno di queste coordinate, sa esercitare, sempre con controllo e con misura, sapendo bene che la battuta è efficace quando non la si ricerca continuamente, le sue notevoli capacità di inventore verbale e di finissimo umorista. Se l'umorismo è la consapevolezza della distanza tra le nostre aspirazioni ed il nostro comportamento, bisogna saper osservare, con affetto ma senza sentimentalismi, la cronaca e la quotidianeità come sono e non come le vorremmo. Saper registrare, ad esempio, otto anni dopo Castelporziano, l'"Estate Astuta, manifestazione che ogni anno riconcilia i cittadini con la città, dà adito a polemiche, rivitalizza (per alcuni), logora (per altri), i monumenti del centro storico..." □ Collana di letteratura fantastica Anna Rinonapoli Cavalieri del Tau Romanzo Pagg. 172 - £. 12.000 Renato Pestriniero Il nido al di là dell'ombra Romanzo vincitore del Premio Tolkien Pagg. 1U - £. 10.000 Marino Solfanelli Editore 66100 Chieti - Via G. Vitocolonna 12 — Tel. (0871) 63210