N. 4 pag. 11 brano di Seferis, e si dichiara placato se non soddisfatto del tutto della so- luzione perifrastica astratta Quel- che-è-desolato, più ingegnosa che con- vincente per l'eccesso di esplicitazio- ne, che al solito tiene per le dande il lettore impedendogli di integrare per conto suo. L'episodio è significa- tivo della mens ceronettiana. E il ri- sultato complessivo è che, nelle ver- sioni di molti brani di moderni, la dialettica a corto circuito fra esisten- za e metafisica che ne è costitutiva si sbilancia a favore del pronuncia- mento metafisico. "Cos'è il poeta? Un vuoto", suona la chiusa di un Se- feris qui tradotto. Ebbene, non biso- gna riempire troppo i vuoti. Con tutto questo non s'intende mettere in dubbio il livello delle ver- sioni di Ceronetti, generalmente as- sai alto: la sua capacità di ri-creare _i testi più varii è fuori discussione. E lecito però mettere in discussione il senso generale del "libro". Neppure si vuole insinuare che il traduttore sia necessariamente a miglior agio con poeti e testi "congeniali": come, a tacere di Bibbia e Corano, l'ottimo frammento di Nietzsche, Zola, Her- nàndez; e Villon, alla cui resa cupa- mente canagliesca senza dubbio ha giovato l'esperienza del traduttore di Catullo, Marziale, Giovenale; o che la congenialità agisca già a senso unico a livello di selezione (certo, l'unico Mallarmé è un Mallarmé, ab origine, fortemente baudelairiano; e l'unico Verlaine, va da sé, è il male- detto, non lo squisito melodista). Al contrario: una delle sorprese più po- sitive, per il mio gusto, di questa let- tura è stato, in blocco, il Kavàfis. Un esempio per tutti, il mirabile saluto ad Alessandria di p. 58. Qui tutto è a posto, anche il gioco delle virgole ("E Alessandria, che parte", "Un'e- stasi verrà, per te, suprema"). Vor- remmo che Ceronetti avesse più spesso trovato, e cercato, questa so- brietà d'accenti. Tessa contro corrente di Franco Loi Delio Tessa, L'é el dì di mort, alegher! De là del mur, a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino 1985, pp. 585, Lit. 35.000. La poesia in Italia ha uno strano destino. La forza dei luoghi comuni assegna all'Italia una virtuale voca- zione alla poesia. Eppure se c'è un paese in cui la poesia ha decisamente poca popolarità è il nostro. Basta controllare le tirature dei libri di poesia e confrontarle con quelle di altri Paesi, specialmente dell'est eu- ropeo. Tra le tante altre, questa im- popolarità ha anche una causa lin- guistica. Essendo la poesia una for- ma di comunicazione emozionale, e non razionale o convenzionale, ha bisogno di unità per essere recepita ad ogni livello. Invece la separazione linguistica è una delle caratteristiche della nostra società, sia in senso ver- ticale — tra lingua egemone e dialet- ti, quindi un esasperato culturalismo e intellettualismo della poesia italia- na, e becerismo e sentimentalismo della poesia dialettale — sia in senso orizzontale — i diversi dialetti tra lo- ro. Occorre anche osservare che po- chi tra i parlanti in dialetto sanno leggere e scrivere la lingua che parla- no. Forse, su questo versante, si po- trebbero rinvenire molte delle ragio- ni che motivano anche la decadenza del teatro. La fortuna della poesia è dunque affidata in Italia alle classi colte, e la sua sfortuna alla scuola. Questo, del- l'allontanamento degli italiani dalla poesia attraverso la scuola, è un pa- radosso sperimentato da chiunque, e ha forse fondamento su una conce- zione enfatizzata e retorica della poesia, ma anche su quell'ostraci- smo alle lingue e alle realtà popolari che ha distinto una certa politica di malinteso italianismo. Soltanto in questi ultimi vent'anni si sta cam- biando orientamento, e, negli ulti- mi, qualcosa di rivoluzionario sta avvenendo nella geografia linguisti- ca degli italiani. Su questo quadro generale di im- popolarità della poesia, quindi di scorrere l'edizione. Ma è tanto più opportuna, quando si pensa che il critico Pier Vincenzo Mengaldo era costretto a scrivere, presentando il Tessa in una sua diffusa antologia: "Diciamo senz'altro che il disinte- resse per questo poeta, uno dei più grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio, è una ver- gogna della critica italiana". Il retroterra di questo "disinteres- se" abbiamo tentato di delinearlo, per quanto riguarda il gusto e la lin- gua. Ma ci sono altri motivi rinveni- bili nella sostanza stessa della poesia del Tessa. Li riassume magistralmen- te lo stesso Mengaldo, quando affer- ma, alla voce Tessa del suo Poeti ita- liani del Novecento, uscito anni fa da Tessa ha della vita: un angosciato at- taccamento alla propria pena che ri- lutta alla baudelairiana 'fraicheur du tombeau'", scrive acutamente Isella. Il fatto è che questa "epica alla rove- scia" e questo "senso strozzato e an- simante [...] della vita" coincidono con l'ascesa e le fortune dello spirito fascista, che proprio in quel tempo si adopera al recupero del neoclassi- cismo al modo proprio di ogni ma- lerba dittatoriale o imperiale — ten- tativi esemplati in ogni contrada d'I- talia dai Piacentini, Sironi, D'An- nunzio, ecc. E qui non sto facendo un accostamento di valore o deprez- zando quelle esperienze, ma sempli- cemente raffronti di gusti, di orien- tamenti ideologici, di personalità ■■■■■ Fiabe e testimonianze di Maria Teresa Fenoglio_ Giuliano Naria, I giardini di Atrebil. Fia- be, quasi fiabe, sogni, racconti, prefaz. di Clara Gali iini, Manifestolibri, Roma 1985, pp. 161, Lit. 10.000. L'impressione immediata che si ricava alla lettura dei primi brani di questa raccolta di fia- be, scritte da Giuliano Naria in carcere, e pre- sentate con sottile competenza e acuta parteci- pazione da Clara Gallini, è quella di una spe- rimentata sapienza linguistica, l'arte delle pa- role. Naria ha tra le mani un materiale, quello fiabesco, che conosce bene, e che manipola con sicurezza, aprendolo all'ironia e all'auto-iro- nia. In tutta la prima parte della raccolta, per- ciò, siamo presi dentro un divertissement in- tenso, in un mondo popolato da esseri arruffoni e gentili, dormiglioni e trasformisti. La bella non sposa il principe, ma un innocente drago che cuoce fiori di zucca, o un panda. L'eroe si incanta di fronte a sette minestre, e gli è conces- so tranquillamente di sbrodolarsi. Prevalgono le situazioni anti-eroiche: nessun "campione" risplende di gesta, poiché il "nostro " è un eroe che apprezza i piaceri del ventre caldo, della cuccia accogliente e dei sogni ingenui. Se i luo- ghi manipolati richiamano quelli della fiaba tradizionale, il vero dramma è sempre evitato, co sì la vera paura e il vero pericolo (vale a dire ciò che nella fiaba è il cammino iniziatico): la materia invece si colloca in una misura quoti- diana e intermedia, pacificatoria e serale, auto- consolatoria e gentile. Il luogo fiabesco è un pre- testo per stabilire un dialogo a tu per tu col bambino, per ribadire con lui una rassicurante complicità. In questa parte iniziale, che si rivelerà ben presto come il primo atto di una vicenda inte- riore dell'autore, Naria sembra voler ribadire un "restiamocene piccoli, io e te", grazie al qua- le il "cattivo mondo degli adulti"può essere te- nuto lontano, o esorcizzato. La scena però gra- datamente cambia; ne è un indizio quel certo gusto per le metamorfosi, che nel paesaggio fan- tastico di Giuliano non hanno (forse voluta- mente) il senso del percorso verso l'individua- zione, come nella fiaba classica, ma quello di trasformazioni inarrestabili e progressive in forme tutte egualmente illusorie, tanto da far pensare a una vera e propria sparizione della so- stanza fisica degli oggetti. L'impressione è, a questo punto, che tutto accada perché nulla in realtà accade: il nostro eroe viene attratto irresi- stibilmente dal ritorno al mare, nel regno della "eternullità". La sapienza del linguaggio, la sug- gestione del materiale, manipolano una sostan- za esperienziale che si comprende drammatica e angosciante: Giuliano ci ha trasportato entro i confini di quella "situazione estrema " (il Lager, secondo Bettelheim, il manicomio, e il carcere di massima sicurezza) in cui l'essere completa- mente in balia della imprevedibile volontà dell'altro conduce a un progressivo ritiro all'in- terno del sogno, che diventa infine il sognarsi di chi ha perduto la "chiave del tempo, della me- moria e dei ricordi". I racconti di Naria consentono quindi una doppia lettura: presi singolarmente, costituisco- no una apprezzabile produzione letteraria, del- la quale colpiscono la ricchezza immaginifica e il linguaggio. Nel loro insieme, e nel loro evol- versi, invece, essi sono una testimonianza inte- riore: di come il desiderio umano, impedito a esprimersi, possa all'inizio trovare la strada dell'invenzione del dialogo, ma venga poi a di- rigersi, quasi per riassorbimento, verso l'immu- tabilità e la perdita dei confimi. scelte di gusto e di affinità retoriz- zanti, si può in qualche modo com- prendere l'isolamento di alcuni tra i nostri maggiori poeti, e la quasi tota- le ignoranza attorno ad altri, che hanno la sorte di scrivere in dialetto. C'è voluto un filologo come Dante Isella per assicurare Carlo Porta alla storia letteraria italiana, e c'è voluto l'amore di uno studioso come Gior- gio Vigolo per fornire una sistema- zione dell'opera di Giuseppe Gioa- chino Belli — e non si può sottacere che sino a pochi anni fa questi due grandi poeti erano annoverati a fati- ca, e in disparte, fra i minori delle nostre storie e delle nostre antologie scolastiche. Dobbiamo ora a Dante Isella l'edizione critica di un altro escluso della nostra letteratura: il milanese Delio Tessa. Il volume ap- pena uscito, col titolo L'é el dì di mort, alegher!, presenta in accurata veste Einaudi un corpus poetico or- mai introvabile nelle nostre libre- rie. L'importanza di questo lavoro dell'Isella si commenta da sé. Basta Mondadori: "È soprattutto in causa il 'radicale pessimismo antropologi- co' di Tessa (Fortini)" e la sua "epica alla rovescia — da avvicinarsi a quel- l'antiditirambo che Soldi, solai di Giacomo Noventa". La poesia del Tessa è infatti una poesia di frantumazione e di morte. Tutto sembra spezzarsi e vocare la morte, attorno a lui e in lui, e basta scorrere i suoi temi per intuire la profonda avversione di gusto e di vocazione che la marea crescente nella società del tempo doveva nu- trire verso la sua poesia: a comincia- re da quel "L'é el dì di mort, ale- gher!" che tratta di una disfatta na- zionale come quella di Caporetto, per finire con "Al de là del mur", continuo confronto tra la realtà den- tro e fuori del manicomio provincia- le di Mombello, e con "La poesia de la Olga", interno-esterno di un bor- dello alla Vetra di Milano. "La vio- lenza espressionistica della comples- sa strumentazione qui sommaria- mente descritta traduce verbalmente il senso strozzato e ansimante che il poetiche. L'andare controcorrente di Delio Tessa, oltre a farne il testimone in assoluto di un'altra Italia, è tanto più singolare in quanto, deciso esti- matore di Carlo Porta, romantico per scelta ideologica ma neoclassico per stile, non esita tuttavia a rifiuta- re "le salde e ordinate strutture nar- rative di un Porta, fondate su un so- lido dominio razionale della realtà e su un rapporto critico ma fiducioso con il mondo esterno" (Isella). Scelta che è però, anche, indice di un allon- tanamento totale, di una distanza presa anche da un mondo letterario che si confrontava, e forse si con- fronta, con le maniere e i moduli sti- listici piuttosto che con una realtà sociale e spirituale in cui, come disse a suo tempo Giacomo Noventa, "nessuno vedrà mai il paradiso, se non lo sconta con la visione dell'in- ferno". Si comprende anche il significato riposto dell'"epica alla rovescia" se si osserva la frantumazione dello stile. Poiché se di epica si tratta, per usare ancora di Noventa, è di "un'anima grande" costretta nei limiti di una piccola, angusta realtà, o di "un'ani- ma grande [...] in dissidio [...] con un'anima meno grande", insomma del contrasto con una miserabilità del reale, di cui tuttavia il poeta si sente parte e corresponsabile, una banalità quotidiana di cui il poeta si sente intimamente partecipe. Biso- gnerebbe quindi entrare un po' di più nell'espressionismo del Tessa. Dato che non si tratta di un "carica- re la parola per rendere più lacerante o gridato il contenuto", come ci ha abituato, per esempio, la pittura te- desca — e qui sarebbe da esaminare quanto tutta l'arte e la poesia tedesca o nordica siano un po' espressioniste o deformanti in ogni tempo — ma di un entrare nell'anima di una lingua per trarne, in sintonia con quel mondo, i valori espressivi. Nel Tessa non c'è mai deforma- zione o esagerazione, ma, proprio com'è nel milanese e del milanese, la poesia è scarna, essenziale, del tutto aderente alla materia. Isella credo va- da in questa direzione, quando esalta il valore dei "bianchi", degli "spazi" — del resto già evidenziati dal poeta stesso nelle sue note ai testi — e af- ferma di prestare attenzione "ai di- versi valori espressi in scala, da attri- buire ai bianchi tra strofa e strofa, tra verso e verso, tra spezzoni dello stesso verso", rilevando l'importan- za dei silenzi e delle punteggiature, delle frequenti interruzioni, o quan- do dice che, "distrutta ogni lontana allusione di discorsività, la narrazio- ne procede spezzata e interiettiva, fi- no al rischio dell'afasia". Il suo è un espressionismo, sem- mai, fatto di accumuli, di situazioni, o di "stati" (canti coi càmes bianch, / magni in di piatt de tolla, / caghi in del fazzolett...) o di aggettivazioni che indicano valori corporali, sociali ecc. (epilettici, infermi, / orfani di guerra...) o insistenze o ripetizioni ossessive (Macchin... macchin... sott... sott... camions... sidecar...) e sottende sempre un giudizio, un moto pro- fondo di adesione o di ripulsa, un immedesimarsi dell'anima nel mon- do o con gli uomini, ma, nello stesso tempo, un distacco che allontana quel mondo dalle proprie viscere o dai sentimenti. Altra differenza rivelatrice da Carlo Porta è il tipo di teatralità che caratterizza questa poesia. Mentre i grandi monologhi dì Porta, dalla Ni- netta al Bongeee, al Marchionn, si ri- volgono espressamente ad un inter- locutore — infatti tutto lo stile è col- loquiale, interrotto da esclamazioni o ripensamenti o commenti o inter- ruzioni proprie di chi è in rapporto, mentre parla, con qualcuno — i mo- nologhi del Tessa, da Al de là del mur a la Olga, hanno un procedi- mento più di narrazione che di tea- tro, anche se di narrazione da sala o da stalla. Persino quando l'interlo- cutore è dichiarato, come nella Poe- sia de la Olga — e del resto l'interlo- cutore è evidente solo nelle prime strofe e poi il racconto procede per conto suo — non è più che un prete- sto, giacché rimane avulso dallo sti- le. E qui è necessario almeno notare come Valter ego, il coro, un interlo- cutore diverso dal proprio Io, sia connaturale all'uso del dialetto; cioè quanto un humus collettivo, un por- si dialettico del poeta siano sostan- ziali all'uso poetico di una lingua parlata popolare. Lo si può notare persino in Dante, e poi, via via, spa- rire nell'uso petrarchesco e retorico della lingua. Un poeta dunque importante, questo Tessa, non solo per il valore in sé, ma per la forza e la singolarità della sua esperienza poetica, un poe- ta che può servire da confronto e pa- rallelo a tutta la poesia italiana. □