TINDICF ■■dei libri del meseBI Parole che resistono _di Filippo Gentiloni__ ETTY HlLLESUM, Diario, 1941- 1943, Adelphi, Milano 1985, ed. orig. 1981, trad. dall'olandese di Chiara Passanti, pp. 260, Lit. 18.000. "A volte vorrei rifugiarmi con tutto quello che ho dentro in un paio di parole. Ma non esistono an- cora parole che mi vogliano ospita- re. E proprio così. Io sto cercando un tetto che mi ripari ma dovrò co- struirmi una casa, pietra su pietra. E così ognuno crea una casa, un rifu- gio per sé. E io mi cerco sempre un paio di parole" (pag. 67). Le ha tro- vate, Etty Hillesum, le parole che cercava, e per nostra fortuna ce le ha lasciate in un Diario che resta uno dei documenti più elevati di questo nostro secolo, stupendo e disgrazia- to. Donna. Amante. Ebrea. Intellet- tuale. Condannata a morte. Mistica. Altruista. È difficile, fra tutti questi attributi stabilire una graduatoria: sono tutti specificamente e origina- lissimamente suoi. Olandese di Amsterdam. Nata nel 1914, famiglia di media borghesia in- tellettuale. Comincia a scrivere il diario a 27 anni, nel marzo del 1941, quando i tedeschi già occupano l'O- landa. Nell'agosto del 1942 viene de- portata nel campo di Westerbork (di smistamento, non di sterminio) do- ve rimane, lavorando all'ospedale e quindi con una certa libertà di movi- mento, fino al settembre 1943. Poi Auschwitz, dove viene ammazzata, sembra il 30 novembre 1943. Dal va- gone piombato era riuscita a gettare una cartolina, raccolta e spedita da un contadino: "Abbiamo lasciato il campo cantando". Il diario Etty l'aveva lasciato ad un amico scrittore che, anche se sembra impossibile, per 38 anni non era riuscito a trovare un editore. Fi- nalmente, nell'81, la prima edizione olandese, accompagnata da alcune lettere di Etty da Westerbork: subi- to 150.000 copie e ora le traduzioni in tutto il mondo. "Io noto che alla mia sofferenza personale si accompagna sempre una curiosità oggettiva, un interesse appassionato per tutto ciò che ri- guarda questo mondo, i suoi uomi- ni, i moti della mia anima" (p. 57). Un occhio a se stessa e uno agli altri, lungo tutte le pagine del diario, e sullo sfondo, sempre più presente ma sempre tenuto a bada da un mi- rabile equilibrio, il forno cremato- rio. Fra gli altri, molti e guardati con un'attenzione continuamente rinnovata, ne spiccano due, il cui predominio sdoppia idealmente il diario in due parti: S. e Dio. Mai in contrasto, in dolce compagnia, men- tre S. non scompare mai (anche se muore nel 1942) ma lascia discreta- mente il posto. S. (Julius Spier) doveva avere un fascino incredibile: Etty lo subisce, vive con lui quei due lunghi terribili anni, soffre perché non sembra otte- nere l'esclusiva di un uomo eccezio- nale anche nella professione: faceva lo psicochirologo, e da lui Etty deve avere imparato quella particolare at- tenzione non soltanto alla voce delle mani ma a tutti i dettagli del corpo. Mai "storia di un'anima" è stata al- tretta ricolma di corpo! Si vedano certi dettagli dei loro incontri di amore, anche se, ovviamente, la morte bussa alla porta. Due percorsi si intrecciano nel diario di Etty, fino quasi a confon- dersi in uno: quello da S. a Dio e quello dalla vita alla morte. Ma Dio non elimina né schiaccia S., come la morte che incombe ogni giorno di più non schiaccia né soffoca la vita. "Ho guardato in faccia la nostra mi- sera fine, che è già cominciata nei piccoli fatti quotidiani; e la coscien- za di questa possibilità fa ormai par- te del mio modo di sentire la vita, senza fiaccarlo. Non sono amareg- giata o in rivolta, non sono neppure più scoraggiata o tanto meno rasse- gnata. Continuo indisturbata a cre- scere, di giorno in giorno, pur aven- do quella possibilità dinanzi agli oc- chi" (p. 140). La morte cresce con lei e in lei "di giorno in giorno", senza soffocare piccole gioie e speranze, anzi valorizzandole come valorizza il suo impegno per gli altri. Il diario di Etty è talmente pieno di piccole cose vissute con grande im- pegno che il lettore rischia di dimen- ticarsi come vada a finire. Acqua fredda o calda per lavarsi al mattino; colazione; cioccolato; golfini a unci- netto; crochi, tulipani, campanule; vesciche ai piedi; l'attenzione diver- tita alle espressioni degli altri non la lascia neppure durante gli interroga- tori della Gestapo. Tornata con un permesso da Westerbork annota: "Le mie rose rosse e gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là, in quell'inferno, hanno continua- to silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare anco- ra ai fiori di questi tempi?" Glielo chiediamo anche noi. La risposta, nel diario, si può tro- vare in due direzioni, Dio e gli altri. La seconda direzione mi sembra più vera. Di Dio è piena tutta l'ultima parte, ma non è un Dio che consola. Profondamente ebrea, anche se non osservante, non è Etty ad aver biso- gno di Dio: è il suo Dio, il Dio che consente Auschwitz e che le ha tolto S., ad avere bisogno di lei. Non Dio salva Giobbe, ma Giobbe Dio. "Dobbiamo abbandonare le no- stre preoccupazioni, per pensare agli altri" (p. 155): questo è il suo segre- to. Al campo, la sua principale at- tenzione è per "le ragazzine di sedici anni" (p. 160). Ci viene in mente Anna Frank, strappata nell'agosto del '44 dal suo alloggio segreto e tra- sportata a Westerbork, prima di ve- nire ammazzata a Bergen Belsen. Altro riferimento quasi obbligato per chi legge il diario di Etty sono i Quaderni di Simone Weil: stesso amore alla vita, stesso esilio conti- nuo fra la casa ebraica e quella cri- stiana, stessa attenzione per tutto e tutti. Ma Etty resta molto più ebrai- ca, mentre non spazia, come Simo- ne, nel panorama della grande cultu- ra greca, orientale, e nostra. Si porta sempre con sé, anche nella baracca di Westerbork e, chissà, forse anche nell'ultimo viaggio, la Bibbia con dentro la foto di S. e l'amatissimo e citatissimo Rilke. Da Westerbork, in una delle ulti- me lettere, Etty scrive ad un amico: "La miseria che c'è qui è veramente terribile — eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato die- tro di noi, mi capita spesso di cam- minare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore s'in- nalza sempre una voce — non ci pos- so far niente, è cosi, è di una forza elementare —, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovre- mo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo con- quistato in noi stessi. Possiamo sof- frire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattut- to anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra fini- ta. Forse io sono una donna ambi- ziosa: vorrei dire anch'io una picco- la parolina" (p. 245). Da Tradurre La morte di Ariès di Metello Carulli philippe Ariès, Images de l'homme devant la mort, Editions du Seuil, Paris 1983, pp. 280, Ff. 360,00. Philippe Ariès narra nella autobiografia in- tellettuale (Historien du Dimanche, Seuil, 1980) il suo primo incontro drammatico con la morte, all'età di trentanni: la morte del fratel- lo nei ranghi dell'esercito di De Lattre, nel '43, pochi giorni prima della fine della guerra. L'in- contro tragico ed il dolore dei suoi genitori e della cerchia dei familiari divengono oggetto delle sue riflessioni durante le visite al cimitero militare di Thiais. "Altri si sarebbero rivolti alla filosofia, alla teologia, alla spiritualità, alla poesia. In me la storia le sostituiva pienamente tutte". Storia dunque della vita familiare, della vita privata, di fronte alla vita ed alla morte, nelle sue mani- festazioni culturali. Per oltre quindici anni Ariès lavora attorno a questi temi, nella pro- pria ricerca solitaria, prima che la morte fosse riscoperta dalla storiografia moderna. Ad Ariès siamo debitori di un approccio sin- golare: partito dalla storia demografica, egli ap- proda alla storia della mentalità e della lunga durata; pratica storica che si nutre di luoghi ed oggetti dove si depositano i documenti dell'im- maginario, tra le pieghe dell'architettura, della pittura, del linguaggio... Imparentata con l'et- nologia e l'antropologia, il suo argomento è il collettivo umano e la ricerca delle strategie co- munitarie dei sistemi di valori delle organizza- zioni collettive, dei comportamenti che costitui- scono cultura, sia essa rurale, urbana, popolare o èlitaria. Nella ricostruzione dei grandi insiemi tem- porali, del «sogno» che si accompagna agli avve- nimenti concreti della storia (la storia événe- mentielle), Ariès indaga la morte familiare nell'alto medio-evo, la propria morte pre-rina- scimentale, la raffigurazione della morte dell'altro in età barocca e romantica, la morte rimossa, nascosta dell'età moderna. L'uomo medioevale si preparava con i con- forti della religione e la partecipazione colletti- va all'agonia, al trapasso; ma proprio in epoca medioevale, la camera del moribondo inizia ad affollarsi della lotta cosmica tra le potenze del bene e del male, mentre Dio e la sua corte di- vengono testimoni dell'ultima tentazione, come a specchio della istituzione dei tribunali del pec- cato e della anticipazione del Giudizio Univer- sale. Il trapasso sereno dalla vita alla morte di- viene così momento di svelamento della verità, conoscenza della propria biografia. Solo nel secolo XVIII l'immagine lugubra e paurosa viene allontanata per privilegiare il ri- cordo rasserenante del defunto, il ricongiungi- mento del morto ai propri cari, nelle sembianze della vita. Il cimitero esterna la devozione al caro estinto, il morto abita tempi e luoghi che gli vengono destinati, conserva diritti e doveri di fronte ai vivi, manda notizie... La società moderna sembra lasciare il pro- blema del dolore al privato (un dolore troppo visibile non ispira pietà, ma ripugnanza), non lo assume come riferimento. Il lutto diviene qualcosa di personale, mentre la morte sembra bandita, oggetto di vergogna e divieto, da buro- cratizzare, anche con la collaborazione delle strutture sanitarie. accelerare la morte di Maudie in ospedale, per distrazione. Il rovesciamento dei valori cor- renti è voluto. Si ha l'impressione, leggendo, che un'immaginazione reattiva, pronta, abbia lavorato feb- brilmente in sincronia con i grandi sommovimenti demografici della nostra epoca. E che mettendo l'una accanto all'altra una donna di cin- quantanni e una di novantadue ab- bia indicato una nuova forma, na- scente, della nostra vita relazionale, come una potenzialità. È lunghissi- mo il tratto di vita che percorriamo in parallelo con persone più in età di noi, oramai. Se ce ne accorgessimo ci renderemmo conto che la loro presenza è una componente della nostra esistenza, altrettanto varia e ricca quanto altre presenze. Ma il di- scorso non è così semplice. Colpisce un dato nella trama del romanzo che non si trova lì per caso. La vec- chia Maudie è una persona tra mille, incontrata da Jane in farmacia. Non ha legami con lei né appartiene al suo mondo. Il loro rapporto è come un ponte gettato felicemente sopra una grande distanza. Forse questo corrisponde a un di più di sensibilità politico-sociale che l'autrice voleva imprimere al racconto, dove ha in- trodotto una dopo l'altra una serie di donne anziane affidate ai servizi di assistenza. Ma risponde anche a una ragione profonda, che a me pare la più acuta delle sue intuizioni. Maudie non è la madre di Jane. Jane Somers riesce a "vedere" l'intensa vi- talità di Maudie perché non è sua madre, anzi dopo la morte di sua madre (che ha trascurato). Qualcosa aveva reso impraticabile l'intimità più ovvia, la più naturale secondo la morale comune. Nel grande progetto abbozzato da Elias e che la narratrice senza saper- lo fa proprio, la folla degli anziani è anonima. Nella realtà, nella quale donne mature (di donne si parla nel Diario) si affiancano per anni a ma- dri anziane, la scelta culturale di far- ne un vero dialogo è molto raziona- le — ma non risponde sempre agli istinti e alle spinte profonde. Tutta la prospettiva di come ridare signifi- cato a un vivere collettivo e indivi- duale di lunga maturità e vecchiaia condivise è intensamente complica- to da questo fatto. Nel romanzo viene spezzato un altro tabù, non con pari successo. La perdita di controllo delle funzioni naturali è un fenomeno dell'organi- smo che invecchia e s'ammala di cui preferiamo non parlare. L'inconti- nenza, incontinence secondo l'eufe- mismo anglosassone, è relegata die- tro le quinte della vita sociale. Nella vecchiaia le funzioni dell'intestino balzano in primo piano e poiché so- no coperte da un tabù diventano più gigantesche e incombenti di altre ne- cessità primarie, come il cibo o il re- spiro. Affrontare e parlare di questo forse corrisponde a un nostro biso- gno urgente e cupo. "Orrore orrore orrore" è la parola che Maudie ripe- te più spesso, come un esorcismo. Certo, il Diario di Jane Somers si muove a tappe forzate per spezzare il tabù. Le disfunzioni organiche sembrano far regredire la persona umana a uno stato animale; ma in realtà sono anche vissute, sofferte. S'intuisce che la sensibilità dell'au- trice è come scossa, agitata dall'idea di reintegrare anche questo aspetto del vissuto nel linguaggio e nella ma- teria della narrazione. Ci riesce? Non saprei. Il risultato assomiglia a uno schiaffo in faccia più che alla vibrazione di una corda nuova. Le scene in cui la miseria fi- sica occupa tutto lo spazio sembra- no tappe di una presa di coscienza, e le prese di coscienza, si sa, sono sempre un po' dogmatiche. L'infles- sibilità con cui l'iperconsapevole Ja- ne Somers si accinge a piegare i pro- pri sensi di ripugnanza assomiglia di più a quella delle sante medievali che non alla delicatezza delle filantrope vittoriane di cui la sua autrice fa un meritato panegirico. PRATO PAGANO Giornale di nuova letteratura ♦ È in libreria il n. 3 Questo numero contiene il libro di poesie LA FAMOSA VITA di Gabriella Sica Il Melograno ABETE Edizioni via Tiburtina 655 - 00159 ROMA Distribuzione C.I.D.S.