N. 10 pag. 25/VII Il Libro del Mese L'arma dell'ambiguità di Fausto Bertinotti ALTAN, Dieci anni Cipputi!, pre- faz. di Oreste Del Buono, Bom- piani, Milano 1986, pp. 319, Lit. 30.000. L'abbiamo quasi sempre visto in tuta, al lavoro. Tranne che in qual- che pausa di fabbrica, o più raramen- te in famiglia o al biliardo, o ancor più eccezionalmente lontano come quando, paradossalmente, va "sulle Alpi con l'Agnelli, prima che qua si riempie di beduini". Nessuno come lui ci ha parlato operaio. Il suo lega- me quotidiano con il lavoro costitui- sce quel particolare occhiale con cui guarda gli uomini, le cose e il mon- do. E irriducibile e saggio, così simi- le a certi operai conosciuti da farlo apparire di carne ed ossa e così para- digmatico da costituire la metafora di una determinata condizione socia- le. Ma di quale? Non certo, come troppo frettolosamente e banalmen- te è stato fatto credere, dell'operaio comune di serie. Intanto perché sem- bra impossibile ricavare da una pur determinata condizione di lavoro — quella al limite estremo del taylori- smo — una specifica-condizione psi- cologica, politica ed umana. Per dise- gnare Gasparazzo, a cui Cipputi non assomiglia affatto, bisognerebbe ag- giungere all'operaio di Altan una certa rabbia. Solo così potrai ottene- re un operaio comune di serie incaz- zato. Dietro la definizione di operaio- massa si nascondono tanti individui, l'uno diverso dall'altro. La macchi- na, l'attrezzo, la tuta, i compagni di lavoro, i capi, la fabbrica dicono che è un operaio. Dunque senza la con- dizione operaia non c'è Cipputi. Ma essa non basta da sola a definirlo, né vi aggiungerebbe gran che un ulte- riore specificazione di ordine socia- le. Quella tratta dalla figura dell'ope- raio comune di serie sarebbe inoltre fuorviarne. Gli attrezzi con cui Cipputi lavora sono parecchi e assai diversi tra loro: il tornio, la pressa e la fresatrice, la chiave inglese, l'incu- dine e il martello ma anche la consol- le. Dunque, una condizione segnata inequivocabilmente da un'attività manuale, da una particolare sapien- za, quella del saper fare, e del saper fare industriale. Una condizione che non riflette una specifica figura ope- raia, ma piuttosto quel che in comu- ne c'è in ognuna ed in tutte. Cipputi non è solo, ha molti com- pagni di lavoro da lui culturalmente diversi che chiama per cognome: Bi- snaghis, Girgoni, Pillazzi, Berlaschi, Frescazzi. Fibbis, Binaschi, Foppaz- zi, Firlaghi. Suoni padani e liguri, dell'Italia delle grandi industrie ma- nifatturiere, precipitati e raccolti a Milano. Cipputi fa parte del sindaca- to perché il sindacato è roba sua, co- me la tuta e gli occhiali. Il suo parti- to è il Pei, almeno nel senso che, dalle sue parti, un operaio non può non dirsi comunista. Il suo atteggia- mento (ma persino le sue fattezze, la sua fisicità) e quello degli operai colti e intellettualmente autonomi; che chi frequenta le tute blu ha certa- mente conosciuto di persona. Tra- smette il senso profondo di un'iden- tità collettiva vissuta in modo irripe- tibile, perché su di essa si innerva l'individualità di una persona libera. Ecco, per me, cos'è Cipputi, un ope- raio intellettualmente libero. La sto- ria di una classe e della sua lotta ali- menta l'autonomia culturale di un uomo, un uomo che fa parte di que- sta comunità in modo cosciente e libero. Cipputi — non sorprenda la parola — è un rivoluzionario, un operaio rivoluzionario. Forse si po- trebbe dire meglio altrimenti: Cip- puti è la coscienza di classe possibile e reale di questi nostri tempi. Per questo, come Vittorio Foa, penso che il Cipputi di Altan sia un'opera teorica. Sarebbe interessan- te interrogarsi sulla ragione per la quale le due maggiori opere teoriche di questi anni prodotte all'interno del movimento operaio italiano — il Cipputi di Altan e la Gerusalemme rimandata di Foa (Rosenberg & Sel- lier, 1985) — abbiamo preso forme così diverse da quella classica della produzione ideologica. Io non credo che si tratti di un semplice camuffa- mento. Perché quelli che secondo me sono i due maggiori ideologi di questi nostri tempi di crisi e di rivo- luzione passiva (che non casualmen- te si incontrano anche nell'interpre- tazione di fondo del Cipputi) danno alla loro produzione teorica la forma ellittica delle vignette di un perso- naggio satirico, o della storia della lotta operaia nell'Inghilterra dell'ini- zio del secolo? Perché l'opera teorica del nostro tempo prende queste for- me inusitate? Io penso che la ragione principale stia nel rovesciamento della percezione dell'ambiguità. L'ambiguità è stata quasi sempre sentita come un'aporia, come una incapacità ad essere coerenti e netti. Io, Cipputi di Pasquale De Stefani Cipputi sono io. Anche se lui è iscritto alla Fiom e io alla Firn, anche se lui ha la tessera del Pei e io non ce l'ho, quando al mattino mi guardo allo specchio, certe volte mi capita di scappar via spaventato, urlando. "C'è un comu- nista nel mio bagno". Perché è vero che ci auto- castighiamo anche nel linguaggio, abbiamo un sacco di problemi a usare la parola comunismo, in certi momenti abbiamo paura di noi stessi, o della nostra ombra. Cipputi sono io. Quando il compagno di lavoro che ha due uncini al posto delle mani, guardando con indifferenza il mio braccio sini- stro tranciato dalla pressa, dice a me, che sono delegato e da sempre mi occupo di ambiente: "Son cose che capitano al massimo due volte". Non mi viene mai da sghignazzare, guardando le vignette di Cipputi. Il sorrìso si fa amaro come capita ogni volta che si ride di se stessi. Cipputi sono io. Quando non è la rabbia di Gasparazzo a prevalere in momenti difficili, ma si tira avanti con la saggezza, la serenità, un pizzico d'ironia. Cipputi sono io. Quando non riesco più a capire se questa società la voglio cambiare davvero, o se non valga la pena sca- varsi una nicchia, tra le maglie del capitalismo, e vivacchiare alla meglio. Cipputi sono io. Quando ridicolizzo il mo- do con cui ogni tanto ci dilettiamo a scimmiot- tare la borghesia. Dunque, la critica che farei a Cipputi — che ho provato a fare per evitare di scrìvere un articoletto di sola celebrazione al- l'ultimo libro di Altan — è la stessa che nei momenti di lucidità faccio a me stesso, proprio perché Cipputi sono io. Ha ragione Vittorio Foa, quando dice che l'opera di Altan è un'ope- ra teorica, ma vorrei aggiungere che la forza di Cipputi sta proprio nella materializzazione di un'etica operaia, o meglio di quella contraddi- zione che riguarda proprio noi operai e noi gente di sinistra, tra la liberazione del lavoro e la liberazione dal lavoro. Chi si ricorda più le conclusioni del convegno de "il manifesto" di qualche anno fa: "Liberare il lavoro dal profit- to"? Cipputi sono io, anche se ho meno tempo di Cipputi per riflettere: dò una sbirciata al gior- nale, fisso un paio di notizie e ne parlo, a battu- te e tra il rumore, con Livio o con Attilio che lavorano al mio fianco, senza avere avuto il tempo di pensarci su. Ho solo un attimo per parlarne. Ma Cipputi, dopo aver meditato su quelle stesse due notizie che mi hanno colpito, non fa che dar corpo e immagine e parole a quel che io o Livio o Attilio abbiamo pensato. Idee che sono l'uovo di Colombo, persino dei luoghi comuni. Ma è questa la nostra vita, questi sono i nostri fatti, e Cipputi li sa evidenziare con maestria. La serenità, che è una dote di chi ha la coscienza a posto, non diventa mai rassegna- zione. Neppure l'amarezza e il pessimismo di noi Cipputi diventano fimo in fondo rassegna- zione. Magari si resta un po' in letargo, ma prima o poi si tira fuori la testa. Credo che Altan non abbia mai visto da vicino delle linee di montaggio, altrimenti le disegnerebbe più simili a come sono nella realtà. Ma è come se avesse sempre conosciuto me, e sempre^ riesce a raccontarmi agli altri così come sono. E stato più bravo lui a far conoscere fuori dalla fabbrica la condizione operaia di quanto non siano servite migliaia di volantini sindaca- li che io stesso ho scritto e ciclostilato. □ E forse così è nelle fasi di ascesa degli oppressi. Ma dopo la sconfitta (o nei suoi dintorni), quando quella storia si fa resistenza alla prassi e alle idee dominanti di certo nell'ambiguità si avvolge. "Dopo tutto, l'intera storia del lavoro umano — scrive proprio Foa nella prefazione alla Gerusalem- me rimandata — è una storia di resi- stenza all'organizzazione del lavoro, al potere politico, all'ideologia del lavoro". Cipputi è il resistente di questo nostro tempo. Per questo bu- ca il senso comune; è nemico del buon senso. Sa troppo bene che lì si cela l'insidia mortale, la trappola. Dietro la tranquilla facciata di un'ap- parente verità c'è una raffinata men- zogna che Cipputi rivela altrettanto tranquillamente. Spesso c'è una ca- rognata, che bisogna saper disvelare con l'intelligenza e la speranza. Che, per altro, non richiedono, quando ci sono, di essere esibite. Altan ha det- to che l'atteggiamento che Cipputi detesta è "lamentarsi sempre e non far nulla per smuovere la società". C'è da credergli, visto l'impianto eti- co del personaggio. Ma basterebbe la sua finezza politica. Lo si vede bene nel rovesciamento di uno stato di grazia da cui sa far emergere insieme il fatto e la lezione politica. "Ci stan- no prendendo in mezzo". "E la cen- tralità operaia, Girgoni". Gli occhia- li che indossa non gli consentono ab- bagli. "Il capitalismo non è tutta merda, Cipputi. Ha i suoi prò e i suoi contro". "Pro chi e contro chi, Zighelli? Non mi lasci in sospeso!" Sul domani ha un'idea precisa. "Pensa se uno fa uno spinello e poi attacca il turno alle presse, Cipputi". "Niente pericolo nessuna delle due dà l'assuefazione". E forse niente è stato più demolitorio della tesi alla moda sulla scomparsa della lotta di classe, che l'invito di Cipputi di pro- vare a convincere l'Agnelli. Cipputi sembra convinto, con il Marx del Manifesto del Partito Comunista, che per gli operai è proprio dura: "Di quando in quando gli operai vin- cono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l'unione sempre più estesa degli operai". Per questo può sorridere irriducibile, lui tranquillamente diverso: "Aggiorna- ti Cipputi, oggi vige il liberal". "Voglio venirci incontro: mi chiami comunist". Il senso di questa grande operazione culturale sta, forse, tutto qui: se uno dice che Marx è morto, a Cipputi viene da dire "e noi qui in tuta a far la classe operaia, come dei pirla". Come a dire, saggio e irriduci- bile, che finché c'è l'oppressione ci sarà chi ad essa si opporrà, lotterà e vivrà da libero. LA VITA SOCIALE DELLA NUOVA ITALIA Collana storica di biografie LUIGI EINAUDI di Riccardo Faucci ___ Pagine XX - 518 con 16 tavole fuori testo UTET HJ H JiJ N ji iJO O J HJi iJiJ ÌUi ìiji OtJ A^CO I PROMESSI SPOSI a cura di Ezio Raimondi e Luciano Bottoni I Promessi Sposi non sono soltanto un romanzo storico che si confronta con i temi della follia, della rivolta e del disordine sociale, alla ricerca d'una speranza utopica o d'un disegno della Provvidenza. Il romanzo manzoniano mette in discussione il futuro della letteratura e dei suoi miti assoggettando lo spazio romanzesco agli sdoppiamenti ironici della coscienza narrativa e coinvolgendo il lettore in una sottile contestazione d'ogni convenzionalità letteraria — > U <> o U U U U U ìj O U ij ij u tJ U (j uu u u\J *J v u u u u u li i i jj i j u