mgn Voci da] l carcere di Pier Luigi Gandini < ? Bianca Guidetti Serra N. 1 L'INDICE hi dei libri del meseki Pag- A Anna Pavoni, L'arcipelago car- cere, SugarCo, Milano 1986, pp. 141, Lit. 12.000. Francesco Lattanzi, Quan- do si finisce in carcere - appunti di un agente di custodia, Cittadella, Assisi 1982, pp. 134, Lit. 4.500. Giorgio Pannizzari, La dan- za degli aghi, Cooperativa Apa- che, Roma 1986, pp. 59, Lit. 8.000. gianfranco bertoli, Attra- versando l'arcipelago, Senzapa- tria, Sondrio 1986, pp. 102, Lit. 8.000. Chiara Sasso, In Rosa, Tipoli- to Melli, Susa 1986, pp. 120, s.i.p. Sante notarnicola, La no- stalgia e la memoria, Giuseppe Maj, Milano 1986, pp. 168, Lit. 15.000. Il carcere parla. L'"istituzione chiusa" sembra finalmente aprirsi a seguito di un lungo, tormentoso processo. Il passaggio nelle prigioni di centinaia e centinaia di "estranei", di "clienti inabituali", avvenuto in questi anni; lo scalpore sollevato da certi processi e istruttorie; anche le recenti riforme, pur rimaste in gran parte a livello platonico, hanno di- schiuso uno spiraglio alla conoscen- za ed anche all'intervento attivo del- la società civile. Ed ecco infittirsi pubblicazioni diverse e di diverso valore, non dei cosiddetti esperti ma voci, appunto, del carcere e sul car- cere. L'arcipelago carcere è il titolo che Anna Pavoni, consulente psicologa presso la sezione minorile di Rebib- bia, e Antonio Turco, collaboratore del Centro di osservazione psichia- trica sempre di Rebibbia, danno a un loro volumetto appena pubblicato. Titolo forse un po' ambizioso, per- ché in realtà l'opera tratta principal- mente di Rebibbia e, più in partico- lare, dei rapporti fra gli operatori, come appunto la Pavoni e il Turco, e i detenuti. Così, i casi di questi ultimi e l'attività dei primi, sempre oscillante fra successi e fallimenti, costituisce la patte più interessante del libro. Purtroppo l'imprecisione del disegno generale, la discontinuità dell'esposizione (che fra l'altro alter- na curiosamente termini specialistici e vocaboli del crudo gergo carcera- rio, con qualche punta letteraria), una certa insistenza personalistica, infine i frequenti riferimenti a nor- me e disposizioni vecchie e nuove, rischiano di scoraggiare il profano senza recare novità o approfondi- menti allo specialista. Molto più leggibile e interessante per un pubblico normale, un altro libretto, Quando si finisce in carcere - appunti di un agente di custodia di Francesco Lattanzi. L'autore dichia- ra fin dall'inizio i limiti della sua cul- tura; ma proprio questo gli consente poi di esporre con semplicità e senza complicazioni l'esperienza acquisita in ben diciott'anni di servizio presso diverse carceri. E fa impressione leg- gere frasi come queste: "Ho avuto il tempo di rendermi conto che il car- cere non serve a rieducare ma costi- tuisce invece una scuola per delin- quenti"; oppure, parlando dei suoi colleghi, "l'ambiente delle carceri trasforma gli uomini: quando ad al- cuni individui un'autorità conferisce il potere di comandare sugli altri, si liberano i peggiori istinti"; o ancora "Non mi vergogno di dire che ho pianto: nei primi due giorni di servi- zio nel carcere di Palermo, capii che non avrei mai potuto fare la guardia nel modo da me sperato". Ceno non sono novità, come è quasi banalità l'affermare che "tutti possono finire in carcere" (ma quan- ti non ci credono!); il fatto però di essere dette da una persona che le ha vissute, e non da un detenuto, dà loro un peso di convinzione che for- se non avrebbero altrimenti. Così, quando Lattanzi dichiara che le fun- zioni di guardia armata sono incom- patibili con quelle di rieducatore, non ripete un'astratta affermazione di principio, ma fornisce un riferi- mento estremamente concreto: l'a- gente di custodia, infatti, deve com- anche a causa della minima cultura richiesta (licenza elementare) e delle modeste origini sociali, che spesso le fanno sentire in stato di inferiorità rispetto ai prigionieri. Ed ecco quasi a contrasto, ma so- stanzialmente a conferma, la voce di un detenuto, Giorgio Panizzari, au- tore de La danza degli aghi. Alle sue spalle, un curriculum angosciante: trentasei anni di cui sedici trascorsi in riformatori, prigioni, manicomi e una condanna all'ergastolo, il tutto per reati comuni e reati politici ("Pantere Rosse", "Nuclei Armati Proletari", "Brigate Rosse"; un'im- putazione ancora in piedi nel proces- so Moro-ter). Sono squarci di espe- rienze esterne ed intime. Fra i primi municazione ricercata; ma si può chiedere serenità e misura a un uo- mo nelle condizioni di Panizzari? Altra, e sconcertante, testimo- nianza di un detenuto comune e poi politico, dalla triste fama: Gianfran- co Bertoli, l'autore del tragico atten- tato del 17 maggio '73, alla questura di Milano, che con una bomba falciò un gruppo di innocenti, risparmian- do le autorità reduci dalla comme- morazione dell'assassinato commis- sario Calabresi. Dal fondo dell'erga- stolo, Bertoli ora fa giungere un li- bretto, Attraversando l'arcipelago, nel quale ribadisce la sua qualità di anarchico, sempre sostenuta anche al processo, ma critica lucidamente il suo delitto, esponendo i meccanismi questo silenzio, questo vuoto, questa solitudine di un essere che tenta di ridar fiato a un se stesso assassinato, con gli scenari della bomba atomi- ca? L'accostamento tra questi due eventi parigi- ni, quello della riscoperta di Giono e le celebra- zioni heckettiane, è dovuto a riflessioni sulla possibilità di una letteratura verde, non diretta- mente legata ai movimenti antinucleari ma da questi ispirata o addirittura anticipata. La crisi del rapporto uomo-natura, proprio perché la natura è scomparsa, si trova descritta magistralmente in Beckett. In fondo la lettera- tura tutta può dirsi nata dentro la furiosa testi- monianza del rapporto dell'uomo con la natura e l'ambiente. In tal senso Giono testimonia l'ul- timo paesaggio di ieri e di sempre e Beckett testimonia il paesaggio nucleare di oggi, dove, a detta di molti scienziati, l'inverno nucleare è già cominciato almeno dagli anni cinquanta, per non dire dagli inizi del secolo, dall'inven- zione dell'atomo, delle sue capacità distruttive. Se in Giono si intravede il profondo attacca- mento alla terra e al suo verde, al paesaggio provenzale, un modo di scrivere e di amare che certo Pavese conobbe, in Beckett la profonda distanza, quasi opposta a quella gionoiana, da tutto ciò che è naturale, terrestre, non ha esempi da noi. A riprova delle novità heckettiane ad esempio, si potrebbe fare il gioco retrospettivo di chi è più verde tra Omero e Teocrito, tra Virgi- lio e Lucrezio, Saffo e Catullo. La letteratura del passato è stata verde in un modo però che oggi è del passato. Essa ha sempre privilegiato il punto di vista dell'uomo sulla natura. Solo con il novecento questo punto di vista entra in crisi e di conseguenza anche la letteratura subisce profondi mutamenti. Insomma, se si può affer- mare che Omero era un poeta verde, non si può dire che lo fosse allo stesso modo di Lucrezio o di Proust o di Beckett. La "coscienza di specie" (vedi Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici) che si è venuta ad aggiungere alla "coscienza di classe", attraversa verticalmente tutto il nostro sapere letterario, fino alle origini? E possibile che i Verdi siano il frutto di tanta millenaria letteratura? Può darsi, ma se non è giusto spo- stare i riflettori su uno dei corni del problema, ad esempio le tematiche verdi, non è giusto nemmeno spostarli tutti sull'altro corno, quello letterario. Per non ripetere errori di rozza sociologia, non bisogna dimenticare che la letteratura è certo signora attempatissima ma pur sempre giovane. D'altronde passando da Giono a Beckett è come dividere in due lo stesso movi- mento ecologico. Per Giono le considerazioni agricole, naturali, alimentari, il verde di sem- pre arrivato intatto fimo agli anni cinquanta. Per Beckett la parte del movimento più propria- mente legato alle solitudini e ai vuoti dell "ato- mo. Esistono ovviamente molti romanzi sulla bomba atomica, sia fantascientifici sia realisti- ci. Esiste cioè tutta una letteratura sulla crisi del nucleare. Ma Samuel Beckett è scrittore di crisi, lasciando ad altri le variazioni commerciali sul tema. E una distinzione importante che va fatta a costo di essere impopolari, se non si vuole perdere la differenza tra Giono e Beckett, tra Rousseau e Proust, e la sterminata letteratura popolare sull'argomento, che certo delizierà la nueva ola della sociologia letteraria nostrana, ma che poco serve a capire il mondo in cui viviamo. Pieno e vuoto nell'ultimo Beckett di Mal visto mal detto reale e irreale diventano "menzogna", visti dal punto della tenebra eter- na. "Quando si ricomincia la testa è sotto la coperta. Il che non cambia niente. Più niente. Tant'è vero che reale e — come dire il contrario? Tanto è vero che le due cose sono menzogne. Reale e — come mal dire il contrario? Il con- travveleno". Quell'essere assassinato prima del- la nascita dell'autore a cui l'autore tenta dispe- ratamente di ridar fiato sa che dal nulla e dal vuoto non si può che mal vedere, mal dire. piere due ore di servizio nelle celle (tempo quindi in cui può tentare un rapporto coi detenuti) e, subito do- po, due ore di servizio sulle mura, armato di mitra (e quindi pronto a sparare sugli stessi detenuti). Con episodi altrettanto concreti, Lattanzi pone alcuni problemi im- portanti come l'ingiustificata dispa rità di trattamento nelle varie carceri dovuto a interpretazioni personali dei regolamenti da parte di direttori e marescialli, che così vanificano qualsiasi diritto; le molteplici violen- ze esercitate sui detenuti più deboli da mafiosi o personaggi della crimi- nalità organizzata, forti di complici- tà e di larghi mezzi materiali; l'inu- manità di certi trattamenti (vedi il detenuto nutrito a forza con l'intro- duzione di latte nell'ano); l'omoses- sualità forzata e peggio (la guardia che si sfoga regolarmente su un'asi- na); la droga; la difficoltà di control- lare carceri troppo grandi, vecchie ed affollate; la dura vita delle stesse guardie, assolutamente impreparate d'altronde a svolgere i loro compiti, il ricordo esaltante di una rapina con amici, l'attesa delusa della confessio- ne di un amico che avrebbe dovuto scagionarlo e il rifiuto di difendersi, accusandolo; poi le drammatiche se- quenze sui letti di contenzione. Pa- nizzari accenna anche a una sconvol- gente protesta di cui sarebbe stato protagonista: pare di capire che si cucì i genitali e l'ano (e questa la "danza degli aghi", contro le frustra- zioni sessuali-affettive cui i detenuti sono condannati). Infine uno sfrena- to tumulto fantastico, erotico, ver- bale, quasi sfida alle sbarre e alle mu- ra delle celle. Stando alla copertina, e alla denominazione della collana cui appartiene (Scritti interattivi), il li- bro vorrebbe essere un mezzo per comunicare e superare la difficoltà del vivere, di quel vivere. Ma, se gli episodi concreti confermano e testi- moniano una tremenda realtà, le fan- tasie, anche per il linguaggio ricerca- to, quasi contorto, risultano scarsa- mente comprensibili al comune let- tore. Forse un racconto più piano e disteso gioverebbe proprio alla co- di tale ripensamento. Non basta. L'ergastolano racconta anche la sua primitiva adesione alla protesta nelle carceri, poi il suo distacco; infine il suo attacco al "partito combattente" che quella protesta ha voluto mani- polare. Seguono considerazioni sulle carceri speciali, la droga, ma anche il leninismo e perfino la fantascienza. Chi, come uno degli autori di que- ste note, seguì l'istruttoria e il pro- cesso per l'attentato, non può sot- trarsi a un certo disagio. Al tempo del processo erano risultati incerti i rapporti del Bertoli con anarchici prima della strage (condannata allo- ra proprio dalle organizzazioni li- bertarie, alcune delle quali oggi, in- vece, riconoscono compagno l'erga- stolano e ne pubblicano i testi). Il tutto aveva ottenuto il risultato di creare attorno al personaggio un'au- reola di ambiguità. Ed ecco adesso il Bertoli tornare, anarchico ormai confermato, ma anche critico di sé e di altri violenti come i terroristi; il tutto attraverso un ragionare cauto, pacato, indubbiamente suggestivo. Egli accenna anche a un "dolore" provato per le sue vittime: una sola riga fra tante. Un dolore discreto? Non si possono giudicare le reazioni personali. Meglio leggere il libro, inatteso epilogo di una tragedia ed ennesimo documento sul mistero nascosto in ciascun uomo. Terrorismo e carcere tornano nel- l'operetta di Chiara Sasso, In Rosa, che raccoglie il racconto in prima persona di Rosa Peruch Milanesi, già presidentessa dell'associazione pa- renti detenuti. È una testimonianza drammatica che riguarda diversi fe- nomeni. Ecco infatti il turbamento di una piccola comunità, Bussoleno in Val di Susa, 6500 abitanti, dove vengono arrestati per terrorismo ad- dirittura una ventina di ragazzi, fra i quali appunto il figlio di Rosa, Stefa- no; la scoperta da parte dei ge- nitori di un mondo, sconosciuto e incom- prensibile, dei figli; la progressiva angosciante conoscenza delle carceri e dei loro imperscrutabili riti; il tor- mento dei continui trasferimenti dei detenuti e i conseguenti estenuanti viaggi dei congiunti attraverso l'Ita- lia; la ferocia dei pestaggi nelle isole e l'inumanità dell'isolamento nelle carceri speciali; finalmente 11 matu- rare in Rosa della decisione a lottare, di associarsi con gli altri parenti, di rompere il cerchio di silenzio e di ostilità dell'opinione pubblica e del- la stampa. Ma ecco, fulmine nel cielo già non sereno, la rinunzia di Stefa- no a difendersi ed anzi il suo autoac- cusarsi di fatti non commessi, con conseguente aumento di pena. E ciò, nella disperata esigenza di trovarsi, sia pure in un'aula di giustizia, con i compagni. Ma Rosa continua a lotta- re (in famiglia, con altri parenti, coi partiti), forte ormai dell'acquisita coscienza di sé,e della realtà. Il rac- conto si chiude prima della scarcera- zione per decorrenza di termini di Stefano, dopo ben otto anni; forse perché l'importante è proprio quella coscienza, conquistata da Rosa e an- che dal figlio. Superfluo sottolineare l'interesse del libro. Un altro nome, un tempo clamo- roso, della cronaca; Sante Notarni- cola che fece parte della cosiddetta banda Cavallero. Bloccato dopo una rapina nel settembre del 1967 nei pressi di Alessandria, condannato al- l'ergastolo, dopo diciannove anni di prigionia, pubblica una raccolta di poesie edite ed inedite sotto il titolo La nostalgia e la memoria. La "no- stalgia", "perché è un sentimento che ha sempre accompagnato la mia vita"; la "memoria" che "è quel baga- glio di esperienza che permette di guardare al futuro anche dal profon- do dell'ergastolo", come scrive l'au- tore nell'introduzione. Tema princi- pale la politica (già, perché l'allora "ribelle", come viene definito nel ri- svolto di copertina, in carcere si è politicizzato, e adesso è un "irridu- cibile"), la donna e l'amore, la natu- ra. Della politica, che dire? Per No- tarnicola e una delle risorse intime, parte integrante, ormai, della sua personalità che forse l'aiuta a vivere. Gli altri due temi hanno un'insisten- za evidentemente acuita dalla lunga detenzione. I suoi versi sono all'al- tezza di altri, che hanno più fortuna. Due vogliamo citarli: "La mia vita ha avuto il carcere come momento centrale"; "imprigionati qui, noi vi- viamo, sapete...".