Il Salvagente_ Dopo Brecht, in danese di Jorgen Stender Clausen Kjeld Abell, Il pechinese azzur- ro, Bulzoni, Roma 1985, ed. orig. 1954, trad. dal danese e cura di Merete Kjoller Ritzu, pp. 284, Lit. 22.000. È mai possibile che la vena dram- matica dei paesi scandinavi si sia esaurita con Ibsen e Strindberg e quindi non esista un teatro moderno nordico che possa confrontarsi con lo standard europeo? Se si dovesse giudicare dal numero di traduzioni in italiano di testi teatrali scandinavi la risposta dovrebbe essere senz'al- tro affermativa. Nemmeno i lavori del premio Nobel Par Lagerkvist so- no stati tradotti, anche se Lagerkvist è giudicato universalmente l'erede di Strindberg nel teatro svedese. Chi si occupa di questo campo non può co- munque fare a meno di sottolineare che certamente esiste un valido tea- tro moderno nordico e che la man- canza di traduzioni dipende più dal- la barriera linguistica che dalla quali- tà di questo teatro. Ora un coraggioso editore, Bulzo- ni, ha colmato, almeno in parte, questa lacuna nel campo delle tradu- zioni, pubblicando II pechinese az- zurro di Kjeld Abell (1901-61), rite- nuto l'innovatore per eccellenza del teatro danese di questo secolo. L'ini- ziativa di questa pubblicazione è partita da Merete Kjoller Ritzu (l'au- trice fra l'altro di un interessante li- bro su Jens Peter Jacobsen) che ne ha curato l'edizione. La sua specia- lizzazione in questo campo traspare chiaramente non solo dalla sua tra- duzione e dal commento al testo, ma anche dalla prefazione con la quale ci dà un profilo preciso della collocazione e della produzione del- lo scrittore, che comprende il perio- do 1935-61. L'opera drammatica di Abell, che prima e durante l'occupazione nazi- sta della Danimarca è caratterizzata da un forte impegno politico, si inse- risce perfettamente nel contesto del teatro europeo contemporaneo. In- fatti, oltre alla rilevanza degli stimo- li esercitati dagli ultimi drammi di Strindberg, sottolineata ripetuta- mente dallo stesso Abell, ne trovia- mo molti elementi del teatro espres- sionistico tedesco, del quale salta in mente soprattutto il nome di Brecht che durante il suo esilio in Danimar- ca diede un impulso notevole al rin- novamento del teatro danese. E inoltre fuori discussione che la pro- duzione di Abell presenti molti aspetti in comune con le opere di esponenti della drammaturgia fran- cese come Romains e Giradoux che Abell conobbe durante il suo sog- giorno a Parigi. La tematica centrale del Pechinese azzurro (1954) riguarda la situazione di solitudine e di isolamento dell'uo- mo moderno e la sua mancanza di rapporti interpersonali autentici. Alla consapevolezza di questa solitu- dine e dell'angoscia che ne deriva una serie di drammaturghi degli an- ni '40 e '50 reagiscono invocando la morte come il vero senso dell'esi- stenza, esattamente come fa la prota- gonista del dramma di Abell, Tor- ais. Basti pensare alla produzione di Anouilh, di Cocteau oppure di T. S. Eliot. L'opera di Abell si differenzia però in modo radicale da questo filo- ne proprio per le conclusioni che trae dalla presa di coscienza della si- tuazione i cui si trova immerso l'uo- mo moderno. Abell infatti ricono- sce sì l'isolamento e l'estraniazione e rappresenta nelle sue opere il senso di inerzia e di disperazione dell'indi- viduo, ma non l'accetta come condi- zione esistenziale fatale e indica la via d'uscita nell'istaurazione di un rapporto umano che vinca l'isola- mento e l'angoscia e che faccia rina- scere la volontà di vivere con gli al- tri sentendosi parte di una totalità che unisce e sovrasta il singolo. E infatti Tordis nel Pechinese azzurro si salva appunto per l'intervento del protagonista André senza il quale non sarebbe mai stata in grado di riconquistare la volontà di vivere, quella volontà che tra l'altro non aveva mai posseduto, e che riesce soltanto a guadagnarsela quando si rende conto di non essere sola. Nel Pechinese azzurro viene utiliz- zata una tecnica che sfrutterà sia il flash back che visioni del futuro, e non solo il passato ma anche il futu- ro entrano nel principio formale del dramma e giungono a rappresenta- zione scenica. Nell'universo visionario che si crea, ogni limite di spazio e di tem- po sembra dissolversi: presente, pas- sato e futuro confluiscono in un punto focale in modo da permettere ai vivi di comunicare liberamente con chi dovrà ancora nascere e con chi è defunto da anni. L'aspetto più originale consiste, oltre che nella coesistenza assai pe- culiare di più luoghi scenici, nella strutturazione del dialogo che ini- zialmente appare assente, ma che in- vece è stato sostituito da un monolo- go narrativo d'André con l'interca- larsi di battute pronunciate dagli al- tri personaggi in un passato che nel dramma viene attualizzato scenica- mente. Il dialogo, o la sua assenza, esteriorizza il variabile grado di ca- pacità di comunicazione tra i perso- naggi, rispecchiandolo in modo assai raffinato, rendendosi completo ed omogeneo solo quando il protagoni- sta riesce a superare il proprio atteg- giamento di spettatore passivo; il dialogo talvolta si sdoppia in due dialoghi paralleli, propri di coppie di personaggi appartenenti a livelli di realtà diversi. Desiderio e morte di Anna Baggiani Herman Bang, La casa bianca. La casa gri- gia, Marietti, Casale Monferrato 1986, ed. orig. 1898-1901, trad. dal danese di Hanne Jansen e Claudio Torchia, pp. 212, Lit. 21.000. Tradotti per la prima volta in Italia questi due romanzi brevi, trasparentemente autobio- grafici, di Herman Bang (1857-1912), scrittore danese legato, come Jacobsen e lo svedese Strind- berg al movimento realista antiromantico ispi- rato ed animato da Georg Brandes, famoso cri- tico positivista e divulgatore di Nietzsche. La casa bianca, lirica rievocazione d'infanzia, è dominata dalla figura malinconica ma vitale della madre — il padre, cupo, è sempre chiuso nel suo buio studio — immersa nel quotidiano svolgersi di eventi comuni e piccole vite di una parrocchia di campagna, cui fa da cornice un luminoso riverbero di stagioni — tanto più lu- minoso quanto più segnato dalla presenza della morte come morte dell'amore. Ne La casa gri- gia, borghese dimora di città, la traccia narrati- va è costituita da una giornata nella vita di Sua Eccellenza, il nonno, medico famoso ormai vec- chio e disincantato, cinico ma vitale, circonda- to da amici, parenti, drammi familiari da risol- vere, altri eventi passati e presenti che oscura- mente emergono in brillanti frammenti di con- versazione, in un tempo che scandito ora per ora avvicina al giorno della fine. Ed è la conti- nua presenza della morte che rivela, come una cartina di tornasole, il tormento reale dell'esi- stere. Filo conduttore ad entrambi i romanzi la sofferenza che nella morte trova liberazione ma non fede (viene in mente Munck e il tragico ritratto della sorella tisica). Ma la forza sotterra- li nea che solo a tratti, soffocata, emerge e che inevitabilmente conduce all'infelicità è l'eros, il desiderio puro, la "verità" che i poeti non rive- lano — così nelle dolenti parole della madre. Cessato il desiderio la vita non è altro che una morte continua. Peculiare allo stile di Bang è l'intensità poetica — crepuscolare — che vela e insieme delimita il tratto realistico delle figure; interessante, in lui, la fusione tra lucidità cru- damente positivista e sensibilità decadente. Il taglio vividamente teatrale delle scene, l'uso dell'ironia, la nitida leggerezza di tocco dello scrittore nel rappresentare un mondo in disfaci- mento ne fanno uno straordinario esponente di quell'"impressionismo realistico" che segna tan- ta letteratura nordica e nel cui fondo si cela sempre un doloroso senso di kierkegaardiana catastrofe esistenziale. Figlio di un pastore mor- to pazzo, tormentato omosessuale, più volte in esilio o in fuga a Vienna, Praga, Parigi — infine in America dove morì — Bang fu acuto e causti- co giornalista di successo, poeta, scrittore di no- tevoli romanzi, appassionato di teatro, apprez- zatissimo regista di Ibsen a Parigi. 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