n . L'INDICF ■■dei libri oel meseBH Il Libro del Mese Un po' apocalittico Goffredo Fofi, Pasqua di maggio. Un diario pessimista, Marietti, Genova 1988, pp. 220, Lit. 22.000. Ci siamo conosciuti, credo, molti anni fa, in occasione del processo a Danilo Dolci di cui si parla nel libro a p. 166. Io avevo scritto la prefazione a Banditi a Partinico (1955), lui non ancora ventenne si era unito "da pochissimo tempo, appena laureato maestro" al "piccolo gruppo" dei collaboratori di Danilo. Poi ho letto molti suoi articoli prima sui "Quaderni piacentini", da ultimo su "Linea d'ombra", se pure disordinatamente. Non sapevo di avere con Fofi tanti pensieri, maestri, amici, comuni. L'ho scoperto leggendo questo bel libro, amaro e aspro (sin troppo aspro, a mio parere, in certi giudizi su alcune persone). Sapevo della sua amicizia con Panzieri, che aveva affascinato molti giovani come lui per il rigore dell'impegno politico mai disgiunto dalla passione per la ricerca. Avevo, invece, un'idea vaga della sua ammirazione ed amicizia per Aldo Capitini, cui è dedicata, insieme con Panzieri ed Elsa Morante, la prima sezione del libro, intitolata Tre maestri (curiosamente scrissi anch'io molto tempo fa un articolo con lo stesso titolo, ma si trattava più dimessamente di tre professori del mio liceo). Recentemente ho appreso, leggendo "Linea d'ombra", della attrazione esercitata su di lui dallo sconosciutis-simo, in Italia, Giinther Anders, da cui anch'io avevo avuto la prima ispirazione, presentando la traduzione italiana di un suo libro, segnalatami da Renato Solmi, ad interrogarmi sulla minaccia della guerra atomica. Tanto forte questa attrazione da provocare un serio contrasto con Panzieri, come si legge nelle pagine che lo riguardano, per quel tanto di "settario" che aveva impedito al gruppo di capire che Anders, con il suo pensiero critico e fideistico, era "più vicino alla verità" (p. 34). Abbiamo condiviso l'amicizia con Ada Gobetti, di cui Fofi mette bene in evidenza l'utopia concreta — l'averci insegnato che tra il dire e il fare non c'è di mezzo il mare, ma solo la nostra pigrizia — e la gioiosa generosità. Non avrei immaginato infine di trovare, fra i personaggi del libro, Manlio Rossi-Doria, del quale serbo tanti cari ricordi: i miei primi viaggi negli Stati Uniti e l'ultima passeggiata di qualche anno fa per le vie di Torino, a passo lentissimo, osservando cose e costumi dei torinesi e discorrendo dei meridionali immigrati. Nell'elogio di Rossi-Doria sono elencate le qualità del maestro ideale: l'indipendenza di pensiero, la tensione prati-co-utopica, la chiarezza dei rapporti tra mezzi e fini, entusiasmo e "persuasione" (parola il cui profondo significato solo un capitiniano può capire) (p. 175). Mi trovo a concordare quasi sempre coi giudizi che nel libro si leggono su opere e autori. Per esempio, quando a proposito della Storia di Elsa Morante scrive che essa "fu anche una messa in guardia rivolta, dalla parte delle vittime della Storia, alle vittime stesse e a coloro che si assumevano il compito di guidare la loro liberazione, col perenne rischio di ri- percorrere strade che avevano portato a nuovi domini e oppressioni" (p. 38). Sono anch'io convinto che L'orologio di Carlo Levi, che Fofi chiama "bellissimo", sia "il miglior romanzo politico della nostra letteratura". Credo anch'io che Palomar, che egli definisce "un'autobiografia filosofica", sia il libro più affascinante di Calvino (ne ho parlato io stesso su questa rivista qualche tempo fa). E i>- « •• di Norberto Bobbio infine sono anch'io un ammiratore di Altan (è difficile non esserlo). E poiché Fofi ne cita alcune vignette, mi sia permesso di citarne a memoria una anch'io, feroce, in segno di omaggio. Un padrone passa accanto a un operaio che lavora con due uncini al posto delle mani e gli dice: "Coraggio, più di due volte non può succedere". Il libro ha per sottotitolo Diario pessimista. Ma Fofi è davvero un pessimista? Non direi. O almeno è un pessimista scontento di esserlo, che si sforza di non esserlo. A una continua polèmica con gli ottimisti faciloni (una razza che si va estinguendo, però), per i quali viviamo nel migliore dei mondi possibili, fa da contrappunto una polemica altrettanto serrata coi pessimisti faciloni, per i quali, il mondo va in rovina ma non c'è niente da fare. Vi è un passo in cui vengono distinti tre tipi d'intellettuali: coloro che si appagono di ciò che esiste, gli apocalittici "non riconciliati", i "non soddisfatti", i quali non rinunciano a immaginare un mondo, migliore e si danno da fare, senza*illusioni, a cambiarlo (p. 106). Fofi^i schiera decisamente con questi ultimi, anche se, ma questo lo aggiungo io, per i primi non ha che disprezzo, coi secondi, invece, sente il bisogno di confrontarsi, perché chi ha elevato a suo maestro Anders corre il pericolo continuamente di "apo-calittismo". Ma contro la disperazio- ne dell'apocalittico reagisce: "Sono portato a credere anch'io che il mondo va verso la sua rovina, ma in ogni caso, fino a un minuto prima che questo avvenga, occorre battersi per contrastarlo" (p. 177). C'è anche un passo in cui confessandosi con estrema sincerità, dice: "Sono un po' apocalittico anch'io" (p. 105). A proposito del Palomar di Calvino, protesta contro la "piccola rigorosa apocalissi da camera" che esso c'insegna, ma precisa subito dopo: "Non abbiamo nulla contro le apocalissi e ci pare impossibile e insensato non sentirsi oggi degli apocalittici" (p. 181). Ma una volta assunta l'ipotesi dell'apocalissi, come si fa a stare con le mani in mano ad attenderla, a non fare nulla per impedirla? A questo punto, nel continuo sforzo che Fofi compie per definire la sua posizione di "chierico" gli si presenta un'altra contrapposizione, quella fra "iperrealisti" che si consolano di ciò che quotidianamente accade anche se ne provano orrore, e "serafini", che "dall'alto dei cieli guardano disincantati le miserie nostre e le macerie della storia, con gaudente e corrucciato fervore" (p. 181). Tutti e due, se pure per ragioni opposte, stanno a guardare. A chi rifiuta di appartenere agli iperrealisti e ai serafini occorre invece una "morale attiva", che non rinunci ai valori tradizionali ma li sostanzi di "analisi radicali" invece che di progetti velleitari. Chi parla così è uno che è passato di delusione in delusione in questo "sgradevolissimo paese" (p, 13). Ma, come si vede, le delusioni non lo hanno scoraggiato. Aveva cominciato il suo tirocinio di utopista concreto con Danilo Dolci, ma a un certo punto si rende conto che questa pur nobile esperienza si è isterilita, e lo abbandona. Inizia a collaborare a "Il Nuovo Corriere", "uno dei migliori quotidiani d'Italia", ma era un giornale troppo libero per i duri comunisti d'allora e viene bruscamente soppresso. Partecipa al gruppo della sinistra radicale di Panzieri, ma quando si accorge che questo radicalismo non è radicale abbastanza di fronte alla negazione della violenza, se ne va e considera "definitivamente chiusa" questa nuova prova. Poi è venuto il '68, che ha suscitato nei giovani non conformisti tante speranze, ma anche questa grande agitazione è finita male in "fallimenti brucianti" (p. 177). Si legga, esemplare, la Lettera a Lotta Continua sulla violenza (p. 62 e ss.). Così il mai soddisfatto ha finito per trovarsi sempre dalla parte dei perdenti. "Purtroppo finiscono per vincere sempre loro" (p. 55). "Abbiamo fallito quasi in tutto" (p. 55). Non poteva del resto essere altrimenti per chi ha sempre creduto che la vera vocazione del chierico fosse quella, come gli aveva insegnato Elsa Morante, di mettersi dalla parte delle vittime. Aveva cominciato molto presto a Parigi, negli anni cinquanta, a provare, da un lato, una profonda antipatia per tutto ciò che sapeva di Terza Internazionale e, dall'altro, per i va- * lori sbandierati e non creduti del mondo occidentale. E glie ne era venuto un profondo disgusto per "l'enorme inesauribile capacità degl'intellettuali di scendere a patti, di mentirsi e mentire, di voltar gabbana, d'inventarsi fittizie autonomie nel momento del più brutale servizio verso questo o quel potere" (p. 189). Si capisce che un giovane che aveva avuto così presto simili avversioni era predestinato alla solitudine, a diventare, come si legge nella prefazione, "un piccolo Savonarola esacerbato e scontento". In un breve saggio su Orwell, ammirato per l'onestà e il coraggio, scrive le parole più sconsolate, che sembrano preannunziare il rifiuto definitivo del mestiere sempre più impraticabile e inutile del chierico: "Un modello, Orwell; seguire il quale è oggi un'impresa più difficile che mai perché sempre più ci si domanda che senso può avere ancora, nella presente situazione, scrivere e parlare. In nome di che cosa. Per chi" (p. 191). Nonostante tutto, nonostante "l'abominevole contesto che ci macina" (p. 217), Fofi crede ancora alla speranza che nasce dalla disperazione. Anche la speranza che nasce dalla disperazione, egli dice, ha le sue ragioni (p. 183). Ma sono "ragioni", o non sono forse impulsi, affetti, emozioni, volontà di credere? Inutile chiedere una risposta a questa domanda. La sola risposta, che rinvia a un'ulteriore domanda, è quella secondo cui la speranza che nasce dalla disperazione deve essere sorretta da "una morale superiore" e nutrita da "una ostinata aspirazione alla liberazione di tutti" (p. 188). "Liberazione di tutti" è, come ognun vede, una espressione capitiniana. Il messaggio di Aldo Capitini è forse l'unico che per Fofi si sia salvato dal "disastro" in cui sono precipitati tutti i movimenti. Ma è rimasto sinora inascoltato. "E che ci vuole? yy di Grazia Cherchi Spesso la mattina, verso le otto, suona il telefono di casa mia. Non ho dubbi, è Goffredo, che sullo sfondo di musiche sempre diverse — si va da Mozart ai tanghi messicani — prima commenta con voce intollerabilmente vispa le notizie sentite alla radio o apprese dalle gazzette, poi passa ad affidarmi una mezza dozzina di incarichi o a regalarmi, con la sua consueta, dissennata generosità, argomenti bastanti per una dozzina di articoli. Essendosi lui alzato come d'abitudine alle sei, è già da un pezzo nella redazione di ' 'Linea d'ombra ' ' dove ha nell'ordine: rivisto sei pezzi, corretto le bozze di altri quattro, sfogliato tre romanzi: uno filippino, l'altro egiziano, il terzo, bontà sua, italiano. Ora sta finendo un editoriale che fa il punto sullo stato — perieli-tante — del paese. Finito di ascoltarlo, mi trascino a farmi il primo caffé, amaramente consapevole di essere afflitta da una forma deplorevole di accidia. Secondo flash. Sono in treno con Goffredo, destinazione Firenze. Entrambi intendiamo ( si rivelerà per l'appunto un 'intenzione) approfittare delle ore di viaggio per leggere io un dattiloscritto, stendere lui una relazione che deve tenere in serata, nella città in cui vive Sebastiano Timpanaro. Ma già a Lodi ha terminato (mentre io arranco ancora alla cartella 10) e passa a intrattenermi sulla situazione italiana dal punto di vista culturale ("ammesso che si possa ancora parlare di cultura"), politico ("puah") ed ecologico ("attenta ai Verdi!"). A Bologna il suo discorso si è già spostato sull'Europa, dove mi informa che solo la Spagna è messa peggio di noi quanto a sfascio e mentecatta euforia. Prima di imboccare la galleria mi comunica il suo proposito di dormire per la durata della stessa e borbottando: "Sono anche incazzato con la gente che..." fa sparire la testa sotto la giacca (chiamiamola giacca, comunque ha due maniche) e si addormenta di colpo (già, Goffredo sa dormire a comando). Puntualmente la sua testa arruffata rispunta fuori a fine galleria: dopo avermi contemplato sorpreso per un paio di secondi, riprende iperterrito il discorso: "...con la gente che non fa che piangersi addosso, invece di rimboccarsi le maniche. Dove sono quelli che, come dice un poeta zen, 'tirano l'acqua del pozzo, portano la legna '?". E mi guarda con aria di rimprovero. Terzo e ultimo flash. Lo scorso agosto, a casa sua, con le bozze di Pasqua di maggio. Sto consigliandogli di togliere tre pezzi e subito mi fa vedere con un largo sorriso che li ha già tolti lui, insieme, ahimé, ad altri sette. Protesto con veemenza ma è talmente infastidito e annoiato dall'argomento — il suo libro — che prende subito a divagare, lanciandosi in un'arringa su molti "giovani ma solo anagraficamente" e sulle loro facce di gomma. Lo interrompe il telefono e io ne approfitto per infilare surrettiziamente nelle bozze i pezzi a torto immolati. Ma Goffredo, che anche se ti volta le spalle vede sempre tutto, quando ritoma li sfila via senza commenti. "Pasqua di maggio da solo non può andare, bisogna pensare a un sottotitolo", gli ricordo, ormai col tono lagnoso della perdente. "Ma la vuoi piantare di parlare sempre di questo dannatissimo libro! Lo sai che sei proprio fanatica!" sbotta lui. E mentre sto scendendo furiosa ma anche divertita le scale, l'autore meno narciso del mondo (l'unico che potrebbe gareggiare con lui è Cesare "•«gfV-v,