N. 8 pag. 5 I « ra, che vista da vicino doveva assomigliare piuttosto a qualche sponsor che ti lascia la libertà di produzione solo perché non serve più a individuare nulla (e in questo la renitenza paterna al progresso era presaga). In realtà quello di cui Einaudi aveva nostalgia non era il capitalista bensì il monarca illuminato. Forse ne aveva nostalgia anche il padre, ma in forma austro-ungarica di garante di una società di piccoli produttori urbani e rurali. Al figlio sarebbe piaciuto il monarca proprio in quanto abso-lutus da ogni legge e contabilità. Così Carlo Emanuele I aveva potuto proteggere Emanuele Tesauro e il cava-lier Marino. Il compianto Erich Lin-der, il noto agente letterario, che considerava Einaudi l'editore più bravo del mondo (lui che li conosceva tutti), auspicava però che si trasferisse a Milano per sottoporsi alle regole della contabilità milanese. Ma non capiva che in una città priva di fantasmi feudali sarebbe mancato quello spirito aristocratico che alitava nella casa editrice torinese. La tradizione borghese a Torino è debole: qui c'erano da una parte il re (e poi Agnelli) e dall'altra i servitori e fornitori della Real Casa, cioè la piccola borghesia (e poi, recalcitranti, gli operai). La contabilità non è ordinaria amministrazione come a Milano, è appunto ossessiva, pazzesca, quindi può rovesciarsi nel suo contrario: nel capriccio, nell'avventura, nella monomania e insomma nella cultura. Non per nulla fu escogitata qui la teoria della parentela tra genio e pazzia. La scarsa ortodossia capitalistica rende Einaudi inviso e incomprensibile a molti (vedi l'aneddoto qui raccontato dell'editore inglese Unwin che appena conosciutolo gli chiede le 37 sterline a lui dovute dalla Casa), ma affascinante per altrettanti. Basta leggere le memorie dell'editore spagnolo Carlos Barrai per rendersi conto di questo fascino. Ogni tanto Einaudi si guarda indietro per vedere se è inseguito da Franco Fortini, il nemico delle grandi famiglie borghesi, ma in cuor suo spera di averlo seminato approfittando della conformazione del terreno torinese per cui si può fingere di scivolare tra feudalesimo e proletariato senza soffermarsi troppo in mezzo. Il pioniere borghese era stato suo padre, però con molta nostalgia patriarcale. Il figlio ha stampato Gramsci e frequentato Togliatti, ha pubblicato molta letteratura marxista e si è immerso fino al collo nel Sessantotto e negli altri due suoi M (Mao e Marcuse, oltre a Marx). Ma certamente nell'uomo prevale la componente feudale e sono innumerevoli i paragoni — soprattutto con il re Sole — che circolavano finché il titolo di un libro einaudiano di Lodovico Terzi, L'imperatore timido, non sembrò fornire la definizione più appropriata. Il feudalesimo einaudiano culmina nella ricostruzione del castello di Perno presso Monforte d'Alba, di origine medievale, abitato nell'Ottocento dal tesoriere di Vittorio Emanuele II, "che dall'alto del castello controllava i beni del re e in particolare amministrava la bella Rosin, la moglie morganatica del sovrano". Il padre si era accontentato di un pitale della Real Casa, il figlio ha voluto subentrarle nella gestione dei beni e financo dell'ombra dell'amante famosa. E mentre il padre aveva realizzato nella villa di Dogliani, già nelle forme esterne, l'ideale umanistico, protoborghese, del dotto che in biblioteca solleva gli occhi dai codici solo per sorvegliare dalla finestra i lavori agricoli, il figlio ha acquistato il castello "per la casa editrice, destinandolo a sede di rappresentanza e di lavoro". Non l'autoappagamento rinascimentale, ma un ideale comunitario al solito a metà tra medioevo e utopia, tra i cavalieri della tavola rotonda e l'abbazia di Thélème. Ma c'è naturalmente anche la continuità tra il signore di San Giacomo e il signore di Perno, e sta nell'amorosa cura dei particolari con cui hanno innalzato quei monumenti ai loro ideali. Del resto l'Oscar, che insieme con l'Albesiano (gli articoli sono di Einaudi, che se ne serve per sottolineare la differenza di classe) ha eseguito la maggior parte dei lavori di Perno, è figlio di quel Settimo Rolfo che effettuava le riparazioni a San Giacomo. Tutto a Perno era stato studiato o approvato da Einaudi in persona, salvo qualche baratto ad altissimo livello, come quello tra una panchina castello di Perno con la parrocchiale, in modo da poter assistere alla messa senza disturbare i fedeli. Mi auguro che i futuri proprietari di Perno si attengano a questo che non è solo un desiderio mio ma sovratutto di Eduardo". Si percepisce il dolore reale di chi ha creato un "paradiso in terra", come lui lo definisce, se lo sente sfuggire e vorrebbe almeno che rimanesse intatto (deve essere già successo a molti feudatari), ma ahimè, se nel libro non c'è una storia della Casa editrice, questo passo dà qualcosa di più: un'allegoria del fallimento di tutta la cultura laica di sinistra in Italia. Zitti zitti, piano piano, non disturbiamo per carità, scendiamo giù per la scala di pietra, bella Rosin. Stanno lì tutti compunti e sottomessi al Signore di lassù e al Signore di Perno, ma sullo sfondo discerniamo figure meno benevole: l'ombra di Don Milani, Del Noce, Franco Fortini (che evidentemente non ha perso le tracce) e perfino torve bande di ciellini. Ci fanno le boccacce brandendo in segno di scherno il catalogo Einaudi. Non si può dire che abbiano tutti i torti. Perso l'impero, a Einaudi sono rimaste la timidezza e altre dimensioni più umane. A un altro timido, Gadda, dedica un ritratto assai riuscito. Il libro non offre molto sui VIP incontrati dall'autore: Picasso, Hemingway, Thomas Mann. Lui stesso dice di Hemingway che fisicamente a intrattenere segreti rapporti di collaborazione con la "Rivista di storia economica" attraverso la sua corrispondenza con Einaudi padre e figlio [cfr. ora L. Einaudi, E. Rossi, Carteggio (1925-1961), ottimamente curato da Giovanni Busino e Stefania Martinotti Dorigo per la Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1988 ]. I ritratti dei primi collaboratori della casa editrice, se attestano il debito di gratitudine e di affetto di Giulio Einaudi per i suoi collaboratori antifascisti, non aggiungono tuttavia elementi nuovi rispetto a quanto è stato rievocato da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, mentre la figura del padre, felicemente rappresentata nei suoi tratti umani, nella sua passione per la terra e per i libri che si trasmette quasi fisicamente al figlio — "rimasi contagiato dal profumo della carta stampata" —, resta in ombra per quanto riguarda Usuo ruolo nella casa editrice, di protezione e di presenza, negli anni del regime. Un ruolo che non dovette essere di scarso peso, se l'attività della casa si inaugura con la collana Problemi contemporanei che fino al 1944 porta l'impronta del liberalismo conservatore di Luigi Einaudi, ed è percorsa da un'aspra polemica antisocialista che contribuisce a spiegare come la nuova iniziativa editoriale potesse compiere i primi passi in pieno fascismo. La funzione catartica della memoria è proprio quella di stemperare, del resto, passioni o problemi del passato. Lo stesso accenno ai dissensi scoppiati sulla linea da seguire all'indomani della Liberazione, quando il nucleo storico torinese (Pavese, Mila, Felice Balbo e Natalia Ginzburg) si fa strenuo difensore dei valori tradizionali (l'autonomia della cultura dalla politica) della casa editrice "guardando con grande sospetto sia il nucleo milanese sia quello romano" (che facevano capo, rispettivamente, a Vittorini e a Mu-scetta), resta isolato, incapace di scalfire l'immagine che campeggia sullo sfondo e che non coin-cide con la più complessa realtà: quella di una continuità mai interrotta e mai messa in dubbio. Sfuggono così al lettore il carattere ideologico e politico di scontri che non avvengono solo nella casa editrice — fra azionisti e comunisti —, ma che in questa possono essere riassorbiti per l'intervento moderatore di Pavese, negli anni 40 il più ascoltato consigliere del principe, e restano indifferenziate le fasi che essa attraversò. Ad esempio il legame privilegiato, anche se non indiscusso, che si istituì soprattutto fra 1947 e 1956 col Pei, è solo evocato indirettamente quando si rievoca la partecipazione alla prima riunione dei partigiani della pace che si svolse nel 1948 in Polonia, o si ricorda Togliatti, di cui viene presentato un ritratto ricco dì sfumature, in questi giorni poco commerciabile. Vigile promotore della prima pubblicazione dei Quaderni di Gramsci che portarono una ventata antidogmatica in epoca zdanoviana, e della stessa edizio- ne critica che apparirà nel 1975, Togliatti è infatti l'uomo politico che si dimostra imbarazzato quando Einaudi gli rivolge domande su Stalin e sull'Unione sovietica — "usava dire che le cose possono essere viste bianche e nello stesso tempo nere" —, evasivo quando gli chiede un libro di memorie sulla sua attività nel Comin-tem; ma "a contatto con la realtà italiana la famosa 'doppiezza' cui era stato costretto Togliatti nei duri anni del Comintem, diventa politica di lucida chiarezza", ispirata, dalla svolta di Salerno al testamento di Yalta, alla sua "volontà di rottura con un passato di ambiguità". Fra le tante fotografie di personaggi incontrati, da Hemingway a Lévi-Strauss, da Sraffa a Pasolini, per il periodo più recente non mancano alcune notazioni utili a una futura storia della casa editrice, talvolta più nuove di quelle dedicate al suo primo decennio di vita: così nel ritratto di Delio Cantimori, continua fucina di progetti con la sua fiducia nell'editoria "come istituzione che deve servire di stimolo alla ricerca, sostituendosi in parte all'università quando questa si perde nella pura accademia"; o in quello di Carlo Dionisotti, che nel 1968 avverte l'editore della pericolosità delle sue fughe in avanti: "Temo che il bisturi della contestazione non solo apra, come deve, l'ascesso, ma anche ammazzi il paziente. Di nuovo dirò: poco male perché altri uomini nascono. Ma per me, per la generazione mia, per lo sforzo che abbiamo fatto di mettere o mantenere questi nostri studi su un piano di competenza e di competizione internazionale, buona notte [...]. Credo che sia mio dovere tener duro". Nonostante alcuni squarci, tuttavia, queste memorie non forniscono tracce sufficienti per cogliere il ruolo della casa editrice nella cultura del paese. Ma molto ci dicono sulla passione di Giulio Einaudi per il suo mestiere, da quando aiutava il padre a scartare i pacchi di libri fino alle incuriosite incursioni nelle sedi dei più prestigiosi editori stranieri. Il "piacere del contatto fisico" con il libro è un tema che ricorre spesso: spiega l'estrema cura dedicata all'aspetto grafico dei volumi, con l'aiuto di Frassinelli e di Francesco Menzìo, e quindi di Albe Steiner e Max Huber, ma anche l'attaccamento a una dimensione personalizzata del lavoro editoriale da parte di un editore che pur rifiuta di essere etichettato come elitario. "Preoccupato per la piega che sta prendendo l'editoria mondiale, coi libri di successo sempre più 'fabbricati' dagli editori e reclamizzati dai mass media", Giulio Einaudi avverte malinconicamente un progressivo appiattimento del suo mestiere anche in Italia-, forse, si potrebbe aggiungere, nelle stesse stanze di via Biancamano, e non da ora. "da sala da musica o da teatro" scovata da Einaudi e una grata dorata "che poteva essere la grata di un convento di clausura" che Eduardo De Filippo aveva nella sua casa romana. "Così avvenne..., io ritirai la grata che intendevo collocare ai limiti di un passaggio interno che collega il Einaudi in testa, poi tutti noi del mercoledì e Contini, Dionisotti, Segre e altri, e guardiamo dietro la grata dorata i fedeli, tra cui potremo ravvisare l'Oscar, l'Albesiano e altri con l'articolo, compresa la Maria, la cuoca creatrice di mirabili ravioli come non ne mangiava neanche la ha "un ricordo di lui che è quello che ogni lettore può avere, per averlo visto in fotografia o per aver visto qualche filmato". Più acuto e convincente è quando si tratta di amici e collaboratori per cui si sente che sotto la scorza feudale il cuore vibra ancora di un affetto sincero: Ginz- burg, Natalia, Pavese, Calvino, Carlo Levi, Primo Levi, Elsa Morante, Gadda appunto; più ancora nei flash su personalità meno strapazzate dai massmedia che ci presenta lui, ravvicinandole spesso con lo zoom del presente storico e collegandole con un ane'ddoto o con un particolare curioso. Per esempio Jéròme Lindon, il fondatore delle Editions de Minuit, che ha la sua casa editrice su quattro piani ciascuno di una sola stanza e per principio non ha mai messo piede in Germania. In queste ipotiposi, come si sarebbe detto una volta, l'editore, per quanto abbia dichiarato fin dall'inizio di aver precocemente delegato ad altri il compito di leggere, si rivela buon scrittore. Eccezionalmente c'è anche un interessante incontro con un VIP, e cioè con Kruscev, per via del comune attaccamento alle origini contadine che avrebbe dovuto essere festeggiato con un autentico tartufo d'Alba, portato in regalo tra molte difficoltà e ignorato dal segretario generale, il quale peraltro si trattiene delle ore con l'ospite parlandogli di politica internazionale "come un contadino delle nostre terre: la sua cascina era l'Unione Sovietica, le cascine confinanti erano la Cina, l'Iran, la Polonia...". A Einaudi "pareva proprio di ascoltare i discorsi sentiti nelle Langhe sulle amicizie e inimicizie dei vicini, con tutti i problemi di confini e di proprietà". Gli imperatori-con-tadini si erano ritrovati anche senza il tartufo. Le ipotiposi investono quasi sempre persone di alta statura (tra cui notoriamente si reclutano molti timidi). Non si tratta solo di Gadda o di Giacometti; appaiono di frequente gli aggettivi "allampanato" e "segaligno" e Einaudi incontra Anna Achmatova (1 metro e 80) e passeggia con Eric Hobsbawm (parecchi centimetri di più). Solo di Mirò ammette che è "piccolo, arguto, simpatico". Sembra che per quanto alto abbia un'inconscia invidia per gli uomini più alti di lui, forse perché l'altezza è indizio di aristocrazia (l'A-chmatova discendeva da un atamano e nei suoi vagabondaggi tedeschi Einaudi incontra la vedova di un conte che era un sosia di De Gasperi). A Leningrado vede la casa di Pietro il Grande, un'isbà di legno che ha le porte stranamente basse, e chiede sorpreso: "Come mai sono così basse, lui era grande, si doveva chinare per entrare?" E aggiunge: "Evidentemente lui entrava da un'altra porta più alta e faceva passare i suoi ospiti di lì, così loro erano costretti a chinare la testa". I maligni supporranno che l'Oscar abbia ricevuto l'ordine di costruire così anche le porte del castello di Perno. Ebbene, posso testimoniare che sono calunnie: Hobsbawm poteva entrare a Perno a testa alta, anche a cavallo. Tra Pietro il Grande e Giulio il Grande corre pur sempre una notevole differenza. Einaudi dice di me che alle riunioni del mercoledì, dopo aver afflitto tutti con i dettagli della trama, "quando questa sembrava affascinante, quando tutti si aspettavano un parere positivo, lui sbalordiva con un motivato parere negativo". Dovrei dunque concludere anche questa recensione con una stroncatura. Mi rincresce di non corrispondere all'immagine che Einaudi ha dato di me, ma non lo farò. Prima di tutto sarebbe un ricambiare il bene col male. In secondo luogo il libro non lo merita, è assai più interessante e meglio scritto di molti usciti dai torchi dell'autore. E infine, se Einaudi non è sempre così divertente come pretende che gli altri siano, resta con tutti i suoi difetti e peccati uno degli uomini più intelligenti che capiti di conoscere in questo basso mondo. Magari ce ne fossero tanti così, col numero diventerebbero meno timidi, forse anche più democratici.