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■■dei libri del meseIBfli
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o "partoriente"), o esegue pantomime erotiche (se la sua è l'argia "nubile" o "fidanzata"), o s'abbandona al lamento funebre (se la sua è l'argia "vedova"), e così via. Dunque da un lato il posseduto (punto dall'argia) balla impersonando ritualmente la sua argia particolare — stimolato dalla comunità degli esorcisti —, d'altro lato — come sottolinea Clara Gallini — "l'intera comunità (attraverso i membri del corpo esoreistico) partecipa attivamente all'esperienza di crisi e alla terapia, per cui vi è un riconoscersi emozionale collettivo".
Questo punto mi sembra offra una chiave decisiva per intendere uno dei nodi centrali d'un rito complesso come quello dell'argia nella sua funzione terapeutica. L'efficacia terapeutica del rito dunque è affidata a due fondamentali fattori. Anzitutto la preliminare introiezione, da parte del paziente, d'una data rappresentazione — per noi mitica — del male come effetto di possessione da parte di un potere fantasmatico, fargia (ciò vale anche nei casi in cui la genesi empirica del male sia, anche se non è affatto una necessità, di origine naturalistica in seguito a vera puntura). In secondo luogo agisce l'efficacia dovuta alla socializzazione rituale del caso personale, attraverso la partecipazione attiva della comunità al rito terapeutico. Il complesso di fattori ora indicato riporta il rito sardo nella grande categoria dei rituali terapeutici collettivi, propri delle società tradizionali, per esempio africane (si veda il mio lavoro su Medicina, magìa, religione, 1987). La nostra studiosa ha felicemente messo in luce le caratteristiche del processo di socializzazione del malato e della congiunta terapia: processo ancor più deciso nelle forme del rito proprie dell'area interna e orientale, dove l'aspetto carnevalesco collettivo diviene di gran lunga preponderante.
Il libro s'impone, al di là della specializzazione sardistica, come importante contributo teorico d'ordine generale. In particolare viene evidenziato il carattere dilemmatico proprio del simbolismo rituale, che nel caso del balio dell'argia oscilla sistematicamente tra il ruolo dell'esorcismo terapeutico e quello della festa. Le variabili dosature dell'una o dell'altra delle due componenti, l'esaltazione del momento della possessione o invece dell'aspetto festoso-carne-valesco sembrano doversi rapportare ai differenti orientamenti indotti dalla presenza (area oristanese, Puglia) o meno (Sardegna interna e orientale) d'una componente cristiana. Infatti, a confronto con il tarantismo pugliese legato al culto di San Paolo, l'argismo sardo, soprattutto dell'area interna e orientale, è scevro di qualunque componente cristiana e presenta caratteristiche fortemente "pagane", con un tono decisamente carnevalesco in apparente antinomia con la funzione e il simbolismo di guarigione. Del resto il carattere carnevalesco si ritrova, benché in forme meno appariscenti, anche nell'area oristanese occidentale, con il travestimento del soggetto malato, il suo finto parto con il canto della ninnananna, l'erotismo dei canti; ma nell'area interna-orientale il "carnevale" si fa addirittura orgiastico con rumori e chiassate rituali (chiarivari), travestimenti intersessuali, rappresentazioni pantomimiche con immersione del paziente nella tinozza, suo seppellimento comico nel letame, rappresentazione del processo di panificazione col forno acceso (dall'arduo simbolismo terapeutico, catartico, e secondo altri perfino iniziatico), ballo generale dei presenti mentre il malato sta fermo. In questa variante del rito il corpo esoreistico si rivolge all'argia con canti dai significati e dai toni più contrastanti: con maledizioni, minacce, insulti, ma an-
che con preghiere, lusinghe, patteggiamenti e financo proposte di matrimonio da parte di alcuno fra i partecipanti al corpo esoreistico: finché fargia stessa non venga allo scoperto, entri nel ballo identificandosi con uno dei presenti, e allora il malato sarà guarito.
Dunque non senza ragione il lavoro della Gallini assume come centrale e particolarmente significativa la presenza e l'unione del tema carnevalesco nel rito terapeutico. La medesima fusione di elementi contrastanti, del resto, la si ritrova in Sardegna — lo rileva fautrice — nei riti funebri. Non sembra improbabile dunque l'esistenza d'un sostrato culturale sardo precristiano, nel quale
forgiasmo della festa si fonde con vari tipi di rituali religiosi. Mi sia consentito, in proposito ricordare, che secondo una antica testimonianza di Platone (Timeo) ripresa dal Pet-tazzoni (La religione primitiva in Sardegna, 1912, pp. 145 sgg.), in Sardegna anticamente era usanza ridere in occasione di certi riti funebri. Si tratta del rituale "riso sardonico". "I vecchi settuagenari — riporta la fonte — venivano spinti dalla folla sull'orlo di un precipizio e di lì gettati. Il rito di uccisione dei vecchi era accompagnato da barbare risa". ' Dunque plurivalenza semantica e plurifunzionalità appaiono caratteri salienti dell'intero rituale dell'argia in tutte le sue varianti locali. In particolare nella variante dell'area oristanese una speciale ambiguità si riscontra negli atteggiamenti del soggetto "punto dall'argia" e sottoposto al rito di guarigione per opera del gruppo di paesani, che formano il cosiddetto "corpo esoreistico", rappresentando l'intera comunità del villaggio. Diversamente da quanto
avviene nell'area orientale dove il malato d'argia sta fermo mentre gli danzano intorno i membri del corpo esoreistico, nell'area di Oristano è il "pizzicato dall'argia" a lanciarsi nella danza, stimolato — come si diceva — dagli interventi antagonistici del gruppo esterno. Il suo comportamento varia caso per caso da una possessione burlesca, fittizia e strumentale, ad una possessione con trance plausibilmente autentica. Ma in ogni caso si crea per il "posseduto" una situazione di privilegio rispetto alla comunità. Infatti, approfittando della condizione di posseduto, il soggetto detta regole ai presenti che l'assistono; rifiuta certi abiti e ne pretende altri ricchi di ornamenti; si atteggia a
"signore", respinge gente sgradita; sceglie un partner preferito per un rituale erotico; induce un parente a servirlo; perfino denega il suo stato di dolore per manifestare invece un normale benessere; può vantarsi di poteri profetici. Clara Gallini, che con grande diligenza ha rilevato queste venature sottili del rituale, acutamente sentenzia: "Così 0 soggetto è posseduto e passivo idealmente rispetto all'argia, ma è un protagonista assoluto (io direi "padrone") rispetto ai presenti che non possono rifiutarsi di assecondarlo".
E questa una connotazione del rituale che ci sembra oltremodo significativa per sottolineare la plurivalenza semantica del rito stesso. Tanto più che comportamenti del tutto analoghi sono stati rilevati in alcuni riti di possessione africani. Gli aspetti teatrali della possessione nel culto zar in Etiopia, e quelli del culto sar in Somalia sono stati messi in evidenzia rispettivamente da Michel Leiris e da Joan Lewis. Lewis informa che allorquando la donna somala, special-
mente sposata, — nella dura condizione a cui è sottoposta in famiglia e nella società — cade malata, spesso la sua malattia viene presentata come effetto di possessione da parte di spiriti (sar). La donna allora diventa portavoce di uno spirito, e identificandosi con quest'ultimo (così come il malato d'argia si identifica con fargia che lo possiede) avanza richieste particolarmente onerose come abiti lussuosi, raffinatezze esotiche, profumi: cose per lei ordinariamente inaccessibili. I mariti indicano in questi comportamenti altrettanti trucchi impiegati dalle donne per rifarsi della propria condizione marginale; ma nessuno può rifiutarsi di assecondare le loro richieste (Lewis, Le
religioni estatiche, Roma 1971, pp. 61-62). Anche la possessione, come si vede, si carica dunque di aspetti carnevaleschi in certi casi. Ciò significa che decodificare un rito secondo criteri univoci, stereotipi, fissi, comporta il grave rischio di interpretazioni riduttiviste, adialettiche, o addirittura fallaci. E pertanto preziosa la lezione che ci viene dal libro della Gallini.
Uno dei maggiori meriti del libro infatti mi sembra quello dell'attenta, perspicua valutazione delle rappresentazioni simboliche collettive, viste nel loro rapporto determinante con l'esperienza individuale rispetto alla realtà circostante, con la percezione che ognuno ha di sé stesso e del mondo. Non ultimo corollario di questa visuale critica relativa ai valori simbolici, credo possa essere indicato nella cautela critica dimostrata dall'autrice circa il problema dei rapporti tra rito-festa e crisi. Il problema, non certamente nuovo (cfr. A.R. Radcliffe Brown, Struttura e funzione nelle società primitive, Jaca Book, 1968, p. 158), è qui posto entro un orizzonte nuovo direttamente documentato. E una tesi corrente quella che pone il rito come momento di riscatto d'una crisi psicologica individuale o collettiva. Clara Gallini ci ricorda che se il ballo dell'argia si connota come terapia d'una crisi, dunque come posterius rispetto al prius della crisi, è pur vero che in certe festività sarde (Corpus Domini, S. Giovanni, festa del Santo Patrono) dell'Oristanese si verificano fenomeni di possessione in forma privata individuale tra donne ("spiritate"), che nell'occasione praticano la glossolalia, la profezia, danzano proprio come il "punto dall'argia" usa ripetere nel rito ufficiale dell'argia. Dunque il rito non solamente "riscatta la crisi", ma anche "scatena la crisi". Del resto, ogni esorcismo è simultaneamente anche adorcismo. E fargia per essere esorcizzata è evocata, identificata, resa presente.

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ranza alcuna il vecchio deve allora decifrare senza fine i nuovi sistemi culturali e deve serbare una fedeltà, priva di valore, verso i propri ordinamenti, consapevole della necrofilia del proprio comportamento, impegnandosi senza prospettive di successo nell'opera di autosuperamento, al contempo accettando e rifiutando la propria distruzione.
L'invecchiamento è infine la fase della vita in cui ci imbattiamo nel pensiero della morte, ma pensare alla morte, come scriveva Jankelevitc, è "penser l'impénsable". Intorno alla morte non c'è nulla da pensare, tutti subiamo la stessa disfatta, dobbiamo vivere con il morire, non con la morte. "Le faux c'est la mori", diceva Sartre, la verità è questo nostro lento inesorabile appassire,
issine

restringerci, soffocare. Che cosa ci resta? Vivere alla giornata? Nasconderci l'inevitabile? Mormorare le litanie? Trovare un accordo con la negatività? Sfuggire la morte con la morte?
La scelta del suicidio è rifiutata in Rivolta e rassegnazione, ma sarà poi teorizzata in Hand an sich legend (E. Klenn Ver lag, 1976) e attuata con sicura determinazione. La conclusione che invece viene proposta è quella di vivere totalmente la contraddizione tra paura e speranza, tra ribellione e disperazione, tra rifiuto e rassegnazione.
Qualcuno ha scritto che Améry ha percorso la vita come un gladiatore che conosce la sua sorte prima di entrare nell'arena, altri che egli visse il suo corpo come aveva vissuto il lager, luogo irrimediabile di prigionia e condanna. Ma questa lettura esistenziale, sartriana della vecchiaia non la riconosce come un momento della vita, ma come qualcosa di estraneo a essa, anche socialmente disturbante. Vi è in Améry una meccanica contrapposizione tra vita e morte, tra giovinezza e vecchiaia, come se in quest'ultima, accanto al peso e al segno del tempo, non vi potesse più esistere progettualità, futuro, spazio, mondo, amore, sguardo privo di orrore, o come se anche il giovane non potesse avere la sua morte addosso. Vi è certamente un momento in cui nell'invecchiamento appare il morire e Améry ne descrive un suo percorso esemplare. Ma si pensi anche alla Morte d'Ivan Iljfc in cui tutte le ragioni e la tragicità dell'invecchiare, che Améry distende nel corso del tempo si radunano ed esplodono alla scoperta del morire: la percezione del tempo, il peso del corpo, la vita trascorsa su non valori, l'estraneità a sé stessi, lo sguardo escludente degli altri. Tuttavia quando Ivàn Iljtc cessa di ribellarsi e cessa di rassegnarsi si libera anche dal morire e quindi dalla morte, e su questo limite estremo della vita scopre finalmente sé stesso e gli altri e può compiere Tatto liberatorio di morire per sé e per loro, morire, si direbbe, amorosamente, un morire che Améry per rigore e disperazione nega a sé e agli altri.