n io rlNDICFpa§32 ■■dei libri del mese to pacelliano, ancora insufficientemente messo in luce dalla storiografia. Ci si può chiedere se la scelta di Pio XII non sia stata suggerita, oltre che da una percezione troppo ravvicinata e subalterna della forza delle ideologie, anche dal bisogno di sottrarsi ai condizionamenti della struttura istituzionale centrale della chiesa, che infatti sarebbero diventati sempre più pressanti durante il lungo declino degli anni cinquanta. Un'altra decisione significativa è costituita dalla sostituzione alla guida della congregazione di Propaganda fide di Celso Costantini con il nord-americano S.A.Stritch nel 1952, cioè nel momento di avvio del grande fenomeno della decolonizzazione post-bellica. L'autore sottolinea opportunamente come si trattasse nel passaggio da una linea aperta alla indigenizzazione del cattolicesimo nei paesi del Terzo Mondo a una linea più conforme alle preoccupazioni statunitensi di arginamento della temuta influenza sovietica. Purtroppo resta in ombra il grado in cui tale decisione risaliva a una scelta personale del papa, è la difficoltà di ogni indagine storica sul papato romano. Riprendendo una pittoresca espressione di Mario Rossi, Riccardi annota che "sotto l'apparente onnipotenza c'è una realtà di crisi nella chiesa di Pio XII piuttosto profonda (p. 147; più avanti a p. 218 l'autore insiste: "è certo che Giovanni XXIII ereditò una chiesa in crisi"). E una lucida conclusione, non priva di echi molto attuali, in un momento in cui i tradizionalisti lefebvriani e i loro potenti amici romani vorrebbero far credere che le recenti difficoltà del cattolicesimo siano nate con Giovanni XXIII e il Vaticano II. Dal punto di vista del "potere del papa" si può osservare che l'innegabile impegno di Pio XII per esercitare personalmente una quota rilevante dell'autorità pontificia (anche a costo di vistose alterazioni della routine istituzionale della chiesa) ha avuto esiti deludenti, percepiti con lucidità proprio dal suo immediato successore, inducendolo — insieme alle sue inclinazioni temperamentali — a uno stile di esercizio del potere completamente diverso. L'istanza dei cardinali per un ripristino della normalità nel governo della chiesa spiega la convergenza dei consensi sul cardinale Roncalli ancora prima dell'apertura del conclave del 1958. A proposito di Giovanni XXIII Riccardi appare incerto, al punto da formulare valutazioni diverse e persino contrastanti, per cui "il nuovo papa non avrebbe capovolto l'orientamento di Pio XII che sembrava sovrastarlo" (p. 161) an- che se "il pontificato giovanneo segna la decadenza dell'immagine di onnipotenza del papa" (p. 178) e "la fine dell'emergenza d'una chiesa che aveva attraversato il dramma della guerra e il duro scontro con il comunismo" (p. 180). Viene sottolineata l'esistenza di un "doppio binario" (p. 176): il potere delle congregazioni curiali da un lato, quello personale del papa da un altro lato. Riccardi si mostra scettico sulla idoneità di tale strategia a mutare gli orientamenti vaticani, osservando che il papa non ha dominato l'amministrazione centrale della chiesa, anzi è stato — almeno in parte — "prigioniero del lavoro della Curia" (p. 200). Certo è che papa Roncalli — per molte ragioni che vanno dal suo temperamento alla certezza di avere davanti un pontificato breve, dalle istanze del conclave alla sua convinzione di dovere privilegiare l'aspetto pastorale della propria missione — non ha insistito nel tentativo del suo predecessore di controllare l'apparato curiale, avocando alla propria personale decisione il maggior numero possibile di questioni. E tuttavia ciò non esclude la sua ferma determinazione a esercitare una effettiva responsabilità. Come Riccardi osserva, papa Giovanni non perseguì un progetto, ma si impegnò nell'attivazione della chiesa come corpo vivo secondo un intenso "istinto pastorale" (p. 178), il che lo indusse a concentrarsi zione tra causae maiores e argomenti di routine?). E ovvio che anche così balza agli occhi la singolarità 'politologica' del papato romano, dove livelli e modalità di esercizio del potere sono inadeguatamente distinti e formalizzati. Per Paolo VI Riccardi ha usato la formula illuministica del "principe riformatore" a significare la tensione del papato montiniano tra un'elevata consapevolezza della propria altissima e esclusiva responsabilità (il 3 agosto 1963, pochi giorni dopo l'elezione, il novello papa annotava "Io e Dio", p. 248) e un'ansia di rimodellare il governo centrale della chiesa ("Montini era un curiale, senza essere un romano", p. 222). In lui culmi- Pacifista e pratico di Silvano Cavazza Eugenio Garin, Erasmo, Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1988, pp. 168, Lit 15.000. Erasmo tradotto da Garin: l'incontro tra il grande umanista cinquecentesco e un maestro degli studi rinascimentali contemporanei si è rivelato particolarmente felice. In una sèrie di volumetti dedicati finora ai rappresentanti del pacifismo e della non-violenza nel nostro secolo (La Pira, Einstein, Gandhi,), i testi dello scrittore olandese appaiono infatti attuali e pieni di vitalità, resi come sono in un italiano lucido e appassionato, che non tradisce l'eleganza e la complessità dell'originale latino: quasi a testimoniare — a distanza di quattro secoli e mezzo — la fiducia dei due autori nell'efficacia della buona retorica, quando essa è comunicazione e impegno civile. Garin traduce un adagio del 1515, Dolce è la guerra a chi non l'ha provata, il Lamento della pace cacciata via e distrutta da tutte le nazioni, del 1517, nonché tre brevi dialoghi più tardi che contengono marcati spunti contro la guerra e la professione militare. Precede una lunga introduzione (pp. 5-54), in cui si mostra la centralità del tema della pace nell'opera di Erasmo, dagli scritti composti a vent'anni fino agli interventi pubblicati nell'estrema maturità. Nel sottolineare l'importanza di questo tema Garin si attiene a risultati ormai consolidati negli studi più recenti sull'umanista olandese. Risulta invece meno convincente la sua proposta di collegare la posizione erasmiana ai tentativi quattrocenteschi di fondare una "pace filosofica" che unisse le diverse genti e le diverse religioni. E difficile infatti dire quanto l'olandese abbia conosciuto degli scritti del Cusano, di Giovanni Pico della Mirandola, del Vicino: ma so- prattutto al suo pacifismo appare del tutto estranea la componente meramente teorica di questi filosofi platonici, più pronti a seguire — specie i due italiani — il mito di una sapienza perenne attingibile ai dotti che a occuparsi dei problemi concreti di popolazioni prese in mezzo da assedi, saccheggi e violenze d'ogni genere. La forza degli scritti pacifisti di Erasmo sta proprio nel loro diretto contatto con la realtà. Sono testi — soprattutto quelli scritti a ridosso del 1515 — che esprimono da vicino le speranze delle ricche e operose città fiamminghe per una pace duratura tra la Francia e gli Asburgo, nel-1'approssimarsi della maggiore età del futuro Carlo V. Erasmo riesce a dare a un motivo propagandistico contingente una valenza universale, difendendo l'idea di una pace assoluta e senza compromessi, applicabile a tutti gli uomini e a tutte le nazioni. Il punto centrale della sua argomentazione è il messaggio cristiano, nella figura di Cristo dispensatore di pace per eccellenza. I testi evangelici sono continuamente introdotti a dare forza al discorso. Eppure, in questo contesto forse più che altrove, il cristianesimo di Erasmo si caratterizza come espressione di valori ed esigenze comuni a tutti gli uomini, piuttosto che come una fede circoscritta ai suoi credenti. Il messaggio di pace riguarda tutti: anche i turchi, che si possono vincere solo con esempi di carità, non certo con le armi. In queste pagine non è lasciato spazio alcuno alle tradizionali discussioni sulla guerra giusta e la sua legittimità. La guerra è sempre ingiusta e indegna degli uomini. Proprio nel 1516 Erasmo aveva scritto: "Preferisco non rispondere alla questione se ci sia una guerra giusta: e poi chi non riterrà giusta la propria causa?". Diego Novelli PER UNA CULTURA DELLA CITTA Scritti e interventi dal 1971 al 1988 pp. 312 - L. 30.000 Carla Osella - Milli Vai NICOLE DEL CIRCO La bambina, la giornalista, un tendone in fiamme pp.80 - L. 20.000 - illustrato EDIZIONI GRUPPO ABELE Via dei Mercanti, 6 - 10122 TORINO su qualcosa di più importante persino di una riforma della chiesa, cioè sul Concilio (p. 219). D'altronde, accanto all'accettazione di atti promossi dalla curia — tipica la lettera Vete-rum sapientia sulla lingua latina, di cui il cardinale Stickler rivendica ora la stesura (Salesianum 50 [1988] 367-377), per non parlare della preparazione del Vaticano II contesa duramente dal cardinale Tardini — Giovanni XXIII ha consumato decisioni personali di grande portata come la ripresa delle proprie responsabilità come vescovo di Roma (p. 161), l'istituzione del Segretariato per l'unità dei cristiani, l'intervento nella crisi cubana del 1962, oltre alla convocazione del Concilio. Forse, più che l'immagine del "doppio binario" potrebbe essere adeguato osservare che papa Giovanni si è riservato le decisioni di maggiore portata, quelle che si potrebbero dire "di indirizzo generale", lasciando alla responsabilità degli organi curiali le decisioni di routine o meno rilevanti (attualizzazione dell'antica distin- navano in un certo senso le tensioni che hanno afflitto il vertice della chiesa cattolica nell'età moderna a causa della sempre più difficile com-ponibilità tra il potere personale del papa, via via più esaltato, e il polo costituito dalla curia romana, dal papa ombelicalmente dipendente, ma da lui sempre meno controllabile. Il volume rivisita e documenta alcune cruciali decisioni di Paolo VI, da quelle prese nei confronti del concilio Vaticano II (sarebbe stato di grande interesse se l'autore avesse analizzato anche la crisi attraversata nell'ottobre- novembre 1963 da Paolo VI a proposito dei suoi rapporti con il Concilio e perciò, in un certo senso, con la chiesa), avocando a sé le decisioni sulla natalità e sul celibato ecclesiastico, a quelle politiche (solidarietà con gli Stati Uniti durante la crisi vietnamita; insistenza nella Ostpolitik) sino a quelle del decennio post-conciliare. A questo proposito l'autore sottolinea la fermezza con la quale Paolo VI ha rivendicato l'esercizio delle sue prerogative di primate d'Italia in ordine sia alla situazione politica che in ambito propriamente ecclesiastico (rimozione dall'archi-diocesi di Bologna del cardinale Ler-caro; ma a ben vedere nello stesso giro di anni vi furono anche alcune altre sconcertanti rimozioni di vescovi, ancorché meno eclatanti). Riccardi verso la conclusione focalizza gli interventi di papa Montini nella chiesa olandese, quando fu deciso di infrangere l'unità e l'unanimità dell'episcopato di quella chiesa nominando vescovo un prelato decisamente conservatore e notoriamente contrario agli orientamenti della Conferenza episcopale (1970: monsignor Simonis a Rotterdam). La nomina, fatta scavalcando tutte le istanze tradizionali per la scelta dei vescovi in quella chiesa (p. 319), pose le premesse per decapitare la chiesa dei Paesi Bassi, intenzione confermata due anni più tardi da una nuova nomina decisa con i medesimi criteri. Si tratta di un caso particolarmente significativo di esercizio del potere del papa, che forse sarebbe stato illuminato ancora più completamente se fosse stato messo in relazione con il singolare tentativo — sepolto ancora prima della conclusione del pontificato — svolto proprio negli stessi anni da Paolo VI per imporre all'intera chiesa cattolica una Lex Ecclesiae fundamentalis, cioè una organica legge costituzionale destinata a regolamentare e ridurre l'esercizio di diritti e libertà all'interno della chiesa stessa. Il volume offre molto di più di quanto sia stato possibile ricordare in questa nota, come — per fare solo un esempio di signolare interesse, ma marginale rispetto al "potere del papa" — quando porta una nuova documentazione dell'intervento del presidente nord-americano Harry Truman per favorire l'elezione a patriarca di Costantinopoli dell'allora arcivescovo ortodosso di New York Atenagora (pp. 132-133), allo scopo di rafforzare l'ortodossia costantinopolitana nei confronti della temuta influenza del patriarcato di Mosca. In conclusione un volume ricco di spunti e documentazione in molte direzioni, che mostra efficacemente come il papa disponga di un potere effettivo di difficile determinazione se non attraverso una puntuale e paziente ricostruzione caso per caso. In sostanza, qualsiasi qualificazione astratta è soggetta in pratica a oscillazioni anche molto grandi, dipendenti dai contesti concreti nei quali i rapporti di forza mutano incessantemente. Papi come Pio XII o, parzialmente, Paolo VI che si sono impegnati a un esercizio intenso — talora persino puntiglioso — della loro autorità danno l'impressione di avere ottenuto risultati in proporzione inversa all'impegno espresso. Giovanni XXIII dal canto suo — forse paradossalmente favorito anche dalla breve durata del pontificato —, proprio rinunciando a intervenire in molti ambiti, dà l'impressione di avere realizzato una incidenza in profondità i cui effetti sono ancora sorprendentemente attivi.