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■■dei libri del meseBH
Potere uno e trino
di Giuseppe Alberico
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discussioni sulla "nobiltà povera". A partire dal tardo Seicento affiorano però anche posizioni diverse. Nell'opera del cardinal De Luca, autentica summa giuridica di tutta un'epoca, la visione della nobiltà è segnata da profonde contraddizioni: accettazione e negazione dei patriziati; definizione di tre ordini della società nobiliare (principi; feudatari, titolati e senatori; gentiluomini), ma consapevolezza dell'insufficienza dello schema quale chiave di lettura delle situazioni istituzionali e civili della penisola; intento di definire una regola generale della nobiltà, e ripiegamento, alla fine, nella difesa della consue-tudo loci.
Nemmeno De Luca, in definitiva, sfugge a quell'ambigua distinzione fra nobiltà naturale e nobiltà acquisita che sarà presente in questo tipo di letteratura fino al Settecento inoltrato, e che rispondeva al bisogno dell'aristocrazia stessa di stabilire al suo interno una gerarchia precisa, se pur mutevole nel tempo, di status e di ordini. Di 11 a qualche anno voci come quella di Scipione Maffei esprimeranno invece una presa di posizione decisa in favore della riconversione della nobiltà agli impieghi pubblici e al servizio allo stato, come era stato auspicato, ancora a fine Settecento, da Francesco d'Arco.
La definizione e la cristallizzazione dei patriziati cittadini in base a regole e a criteri interni, stabiliti dagli stessi appartenenti a quei ceti, entrano in collisione, nel primo Settecento, con la visione della nobiltà come concessione e riconoscimento regio di cui sono portatrici le dinastie che si insediano in alcuni stati italiani: esemplari i casi dei Lorena in Toscana e della dinastia asburgica in Lombardia. Come nota Donati in riferimento alla Lombardia, la pretesa del nuovo governo di redigere un elenco ufficiale dei titolati milanesi, da legittimare con l'approvazione sovrana, sovverte i tradizionali equilibri politici, e, soprattutto, urta contro la prassi consolidata, che voleva il patriziato stesso unico depositario dei criteri della nobiltà. Ecco allora i ripetuti scontri fra volontà di riforma e difesa degli assetti precedenti da parte della nobiltà locale, che, come la storiografia ha mostrato, caratterizzano l'avvio della dominazione austriaca in Lombardia.
Già sul finire del secolo, tuttavia, appaiono posizioni che, distanziandosi nettamente dalla tradizione precedente, instaurano un diverso nesso fra nobiltà e proprietà. Ci pare quindi assai efficace il richiamo, in chiusura, a quanto scriveva nel 1805 do-menico Monga in una Memoria su' fidecommessi: "Un principe che voglia regnare sopra l'affezione de' suoi sudditi, deve attribuire alla proprietà tutti quei diritti, dei quali godeva in altri tempi la nobiltà. (...) La classe dei proprietari è la vera potenza intermedia fra il sovrano e il popolo...". A queste indicazioni si affiancano, di lì a pochi anni, quelle del Romagnosi, che propone, quale base organica della monarchia nazionale rappresentativa, una nobiltà strettamente intrecciata con le cariche pubbliche del regno, sancendo in tal modo l'affermarsi di quella visione della nobiltà come ricompensa sovrana e come riconoscimento della preminenza di censo, che sarà tipica dell'Ottocento.
Sul volume di Donati, in conclusione, sarà opportuno discutere a fondo, e con esso non si potrà, nei prossimi anni, non confrontarsi. Un lavoro, il suo, che sollecita anche apertamente ulteriori e più circoscritte indagini, nelle quali sia possibile intrecciare più strettamente le categorie della riflessione teorica alle vicende sociali, politiche e istituzionali degli stati italiani d'antico regime.
Andrea Riccardi, Il potere del papa da Pio XII a Paolo VI, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. XI-390, Lit 39.000.
A livello dell'uomo della strada, come tra gli addetti ai lavori, la curiosità di sapere quale sia effettivamente il potere del papa è ricorrente; inoltre nell'ultimo secolo la intensificazione dell'accentramento romano delle decisioni relative al cattolicesimo, l'accresciuto prestigio del papa-
to e, infine, l'estensione geografica e culturale della presenza della chiesa cattolica hanno acuito tale curiosità. Non è perciò infrequente che se ne discuta da diversi punti di vista, soprattutto per analizzarne le basi teo-logico-dottrinali o per porne in evidenza le complesse valenze politologiche. Un profondo e acuto conoscitore del mondo romano contemporaneo come Andrea Riccardi ha scelto di seguire un approccio inconsueto per affrontare questa domanda. Infatti non ha battuto né la strada dell'indagine sulla concezione della chiesa e sul posto che vi è riconosciuto all'autorità del papa, e neppure ha sviluppato un'analisi di tipo istituzionale. Il volume invece presenta un'inedita ricerca empirica su una ricca serie di casi significativi o esemplari nei quali il potere del papa è stato (o non è stato) effettivamente esercitato. Il punto di vista dal quale si è posto il giovane storico, svolto senza alcun cedimento sul piano del rigore, si rivela suggestivo. Il denominatore comune è costituito dall'ar-
co cronologico che delimita i tre pontificati centrali del nostro secolo, da Pio XII (preso in considerazione soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale) a Paolo VI.
Riccardi ha lavorato con lena sul vasto materiale documentario edito, ma ha saputo anche raggiungere e mettere a frutto fonti inedite di provenienza ecclesiastica (Archivio dell'arcivescovado di Parigi; documenti italiani in suo privato possesso) come di natura diplomatica (Archivio del
Ministero italiano degli affari esteri; Archivi del Dipartimento di Stato di Washington e del Quai d'Orsay di Parigi).
I dieci capitoli nei quali si articola il volume sono dedicati in misura equamente ripartita a papa Pacelli (pp. 3-153), a papa Roncalli (pp. 154-219) e a papa Montini (pp. 220-335). L'attenzione è concentrata essenzialmente sul maggiore o minore potere personale del papa rispetto alla struttura destinata istituzionalmente a collaborare con lui: la Curia Romana. Restano molto più in ombra i condizionamentiche l'autorità papale riceve dai vescovi, dall'opinione pubblica e spesso anche dai poteri politici.
Molto opportunamente l'autore è rimasto fedele all'andamento cronologico dei tre pontificati, ripercorrendone le tappe cruciali o comunque più significative per vedere in opera l'esercizio del potere del papa. Il lungo e drammatico pontificato di Eugenio Pacelli — a quale Riccardi ha già dedicato negli anni scorsi due
importanti volumi di ricerche storiche — è scandito in quattro momenti problematici: la guerra e il dopoguerra, i collaboratori del papa, il rapporto con l'occidente e con il comunismo, il declino. Le acquisizioni significative mi sembrano parecchie e degne di nota. Anzitutto Riccardi conferma una maggiore duttilità e arrendevolezza di Pio XII nei confronti dei regimi fascisti rispetto alla crescente intransigenza di Pio XI, di cui pure il cardinale Pacelli era stato segretario di Stato. È un punto che potrà forse essere ancora approfondito (purtroppo Riccardi non ha potuto tenere conto della complessa rassegna pubblicata da Giovanni Miccoli nel fascicolo 1988/1 di "Cri-
stianesimo nella Storia"), ma già sin d'ora è possibile mettere a fuoco una caratteristica ricorrente nella storia del pontificato romano secondo la quale un papa nuovo si sente abitualmente libero (e forse stimolato?) di rettificare la linea del predecessore al di là di qualsiasi dichiarazione di continuità. È forse uno dei casi nei quali il potere personale del papa ha maggiore spazio per manifestarsi, prima che sopraggiungano i condizionamenti della struttura.
Un altro orientamento personale di Pio XII è costituito, secondo Riccardi, da una progressiva accentuazione della chiesa come "movimento". È la risposta che Pacelli, forse anche sotto l'influsso del gesuita Riccardo Lombardi (ma potrebbe essere fruttuosamente esplorata anche l'influenza in tale direzione di Luigi Gedda), ritiene adeguata alla egemonia montante delle ideologie contemporanee. Mi sembra che così l'autore colga un nodo centrale del pontifica-
censimento e non catalogo completo , come sottolinea l'autore, il libro fornisce comunque una grande messe di informazioni vagliate e invita a un affascinante viaggio nel mondo della produzione libraria tardoantica e altomedievale come specchio dell'elaborazione culturale di quei secoli. Il lavoro si sviluppa lungo due filoni. Il primo è dedicato all'analisi delle tracce, conservate dalle copie altomedievali in cui il testo ci è pervenuto, dei prototipi tardoantichi da cui derivano. L'interesse per le vicende di questa tradizione manoscritta è intensificato dallo straordinario incontro tra il testo boeziano e l'intervento editoriale di Cassiodoro, che appare decisivo per le sorti e gli sviluppi di tale tradizione. Grazie all'individuazione di una serie di costanti tecnico-formali ricorrenti (dimensioni dei codici, impaginazione, uso di scritture speciali in funzione "editoriale", testo di incipit ed explicit, figure ornamentali con valore mnemo-tecnico, glosse marginali), Troncarelli riesce a ricostruire la presenza di almeno due prototipi risalenti all'azione diretta di Cassiodoro. La diversità delle due successive elaborazioni Cassio-

donane spiega la complessità di una tradizione manoscritta che appariva finora ricca solo di incertezze e dì contraddizioni. Ma, per di più, evidenziando inequivocabili collegamenti tra i due prototipi boeziani e una particolare recensione delle Institutiones cassiodoriane, la ricerca contribuisce a gettare nuova luce sui successivi momenti di elaborazione della fondamentale opera di Cassiodoro e, dunque, sulla progressiva maturazione degli atteggiamenti culturali del fondatore del chiostro calabrese di Vivarium. Il secondo filone parte dall'esame delle differenze tematiche che caratterizzano le miscellanee entro cui fu collocata, nell'arco di quattro secoli, la Consolatio boezìana. Qui un'approfondita disamina dei contenuti e delle loro interrelazioni sostanzia la riuscita descrizione di come "l'ine^-sauribile vitalità del testo boeziano nel tempo" sia dovuta a un continuo adattamento d'uso che, col mutare degli orientamenti culturali, passa da letture semplificatrici (secondo una "dimensione scolastica di pio eclettismo") alla riscoperta dei contenuti logici e neoplatonici che lo inseriscono nel vivo del dibattito intellettuale dell'XI e del XII secolo.



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