Contrappunto dell'io lontano di Fernando Bandini Luigi Meneghello, Bau-sète! Rizzoli, Milano 1988, pp. 208, Lit 24.000. Il titolo del nuovo romanzo di Luigi Meneghello rievoca un gioco (o rito magico infantile). Bau-sète che si esclama addosso a una persona mentre spunta da un angolo o da dietro una porta. Di solito il gioco è fatto da un adulto a un bambino, anche coprendosi la faccia con la mano e scoprendosela poi con uno scatto improvviso. Bau è la versione veneta del babau, séte il numero magico per eccellenza; 0 piccolo grido vuole generare un allegro spauracchio, ombra o arguto diavolo del sopravvento. La chiave del titolo è fornita dallo scrittore nelle due ultime bellissime pagine: "Una mattina di Pascua: il suo titolo nel discorso delle zie era 'Pascua di Resuressione', e una cosa così andrebbe bene anche a me, mi piacerebbe risorgere, spuntare all'improvviso da un cassone di pietra, bandiera alla mano, e fare bau-sète". E dunque una specie di Pasqua a fare bau-sète, a irrompere all'improvviso nella strenua recherche che Meneghello compie del suo e del nostro passato. Ma c'è sempre in questo scrittore, uno dei più autentici dei nostri anni, una sottostante tensione tra la scrittura, il suo potere, e il senso della sua incompletezza nel-l'afferrare tutta la fervida evidenza della vita. E improprio chiamare romanzo questo libro, come non erano "romanzi" le precedenti opere di Meneghello. Lo scrittore narra rapsodica-mente vicende vissute, mescola al racconto dei fatti la lucida osservazione dell'intelligenza o il trasalimento del cuore. E un genere, il suo, tipicamente italico, da Slataper, a Comisso, ad altri. Non c'è naturalmente in lui nessuna concessione al lirismo. Nei modi del genere Meneghello reca una cordialità arguta ed astuta. Ammicca alle persone colte, ma senza trascurare le persone di minor cultura che fossero presenti nella compagnia. In questo contesto, attraverso il chiaroscuro del plurilinguismo, la voce dello scrittore passa da momenti di calda partecipazione alle cose narrate a momenti di scintillante ironia su se stesso come narratore (sulle proprie letture, sulla propria cultura che lo allontanano irrimediabilmente da quell'io visto nel passato, quanto più nel passato si immerge in modo così totale. Nessuna concessione al lirismo, abbiamo detto; ma il sogno di Meneghello resta alla fine la poesia; una poesia che sia capace di catturare la vita, la sua sostanza pesante, e insieme di mantenersi leggera e librata; e mantenersi tale non per un processo di distillazione, di astrazione della realtà, ma perché le parole sono ali capaci di far volare anche il più pesante dell'aria. Una poesia che corregga la sua legittima aspirazione al sublime con un provvido esercizio dell'ironia, non quella di discendenza crepuscolare, ma l'ironia capace di farsi elemento dell'insieme orchestrale della scrittura; quella per intenderci di Philip Larkin, un poeta che Meneghello particolarmente ama. Spesso il dialetto e l'inglese, che s'intrecciano nella scrittura, ma sempre trasportati nell'esperienza centrale dell'italiano, mirano a questo effetto. L'inglese è un forte sostentamento della lingua di Meneghello, nel gesto volutamente snobistico col quale emerge all'improvviso. Non è un semplice artificio dello stile, ma un portato esistenziale. Meneghello viveva in Inghilterra nei decenni durante i quali l'Italia è così enormemente cambiata. Il moto iniziale della scrittura di Meneghello è stato ben individuato da Maria Corti: c'è un autore che scrive in prima persona e che si guarda agire in un mondo lontano. L'inglese è segno di ulteriore distacco e lontananza e spesso appare quando i fatti rischiano di essere più direttamente coinvolgenti. È un tannico viaggiatore trasognato. Abbiamo detto di un Meneghello che ammicca ai suoi lettori più colti; ma quando avviene si tratta anche di un contrappunto tra i modi "corali" della rappresentazione della realtà e l'attuale estraneità dello scrittore a che guarda la sua forma di burattino adagiata flosciamente sulla sedia. Per questo la scrittura di memoria di Meneghello non assume mai i toni dell'elegia e del rimpianto. Ed è su questo sentimento di profonda divaricazione che va visto l'uso della parodia (di testi letterari noti) che a volte s'insinua nella pagina di Meneghello, quasi una masochistica, e insieme lieta, aggressione al proprio status di letterato. Si veda la bella pagina che Meneghello dedica alla R 51 dei suoi Fuga in punta di penna di Lidia De Federicis Luigi Meneghello, Fiori italiani, Mondadori, Milano 1988, pp. 185, Lit 14.000. Pubblicato da Rizzoli nel 1976, Fiori italiani è uscito quest'anno nella serie degli Oscar oro di Mondadori: testo pressoché immutato (nonostante una trentina di minuscoli ritocchi) e introduzione di Giulio Nascimbeni, coetaneo di Meneghello e, come lui, veneto della provincia. Nell'autobiografia per spezzoni a cui Meneghello lavora da sempre, è il libro che ha la funzione di collegame i due aspetti, quello della memoria privata, che con Libera nos a malo e Pomo pero e i commenti ulteriori (ultima la conferenza pubblicata in Leda e la schioppa, Lubrina, Bergamo 1988) risale alle radici di una cultura del paese convissuta nell'infanzia, e quello di una memoria che rende invece testimonianza, con I piccoli maestri e ora con Bau-sète, sugli eventi pubblici e sulle scelte e le svolte di una cultura intellettuale. E il libro che racconta dell'educazione tipica negli anni Trenta, e di come se ne poteva uscire. Il Soggetto protagonista (S. nel testo) è ancora alle elementari di Malo nelle prime pagine, alle prese con II libro della IV classe e II Balilla Vittorio; e via via spostandosi, da Malo a Vicenza per il liceo e a Padova per l'università, e dalla cultura parlata e dialettale a quella urbana, "che era scritta e in lingua", compie il prevedibile percorso di uno studente di successo e conformista senza saperlo. Finché, e siamo alla fine del percorso, incontra il vero maestro che è Antonio Giuriolo: con lui nuove letture, e un altro modo di utilizzare i libri, e la rapida fuoriuscita dal sistema verso l'antifascismo, e poi verso l'esperienza dei "piccoli maestri" nella guerra civile. Certo, l'ironica descrizione e dissacrazione della cultura scolastica, anche nei riti e nei personaggi più celebrati (le lezioni di Concetto Marchesi, per esempio), è il tema forte ed evidente di Fiori italiani. Pochi altri documenti danno come questo il senso dell'estraneità radicale di una lingua e di una tradizione — la tradizione aulica e la lingua della poesia italiana — rispetto alle realtà locali, ai microcosmi arcaici delle culture paesane. Il primo effetto sul lettore può essere perciò non troppo diverso da quello, a suo tempo, di Lettera a una professoressa. Capita di notare tra don Milani e Luigi Meneghello (così laico e così deciso nel volersi tenere lontano dall'enfasi sia pur virtuosa dell'indignazione) coincidenze significative, non solo nell'argomento principale, che è il divario incolmabile tra le due culture, ma in singoli giudizi e dettagli. (Tra l'altro, entrambi individuano in Foscolo l'aspetto estremo della densità e artificiosità del nostro codice poetico. Scrive Meneghello, a proposito del foscolismo: "credo sia l'esperienza che distingue gli italiani 'istruiti' dal resto degli europei". Rudemente e con provocazione don Milani aveva detto: ''il Foscolo [...] non voleva bene ai poveri. Non ha voluto far fatica per noi".) Ma rileggendo il libro e vedendolo ora nell'insieme dell'opera di Meneghello, ho l'impressione che vengano in luce anche altri, e laceranti, contrasti. Il dato più toccante mi sembra ora questo: che Meneghello non era il reietto Gianni, era Pierino. Non figlio del dottore (figlio però della maestra), ma fatto comunque per la scuola, fatto per imparare, e così innamorato di quel che imparava che la testa gli si riempì subito di parole, di parole poetiche, costrutti, scansioni, suoni, ritmi. In seguito egli avrà sostituito (ma non del tutto, non del tutto) i suoi autori a quelli che la scuola prediligeva, Dante e Montale al Pascoli infantile e al Carducci eroico. Viene però di lì, dal primo apprendistato, la propensione a organizzare l'esperienza secondo citazioni e versi ed emistichi, e a porre ben in vista l'attrito che ne sprizza tra realtà comuni e letteratura. Nonostante la complessiva insensatezza dell'universo di parole in cui da ragazzetto si aggira, o forse grazie a questa insensatezza?, Meneghello vi apprende il piacere pungente della forma fonica e la capacità di fame scaturire emozioni: una componente di sé che egli sembra ritenere fondamentale, poiché non c 'è libro suo in cui non ce la mostri, con l'ambiguità dell'ironia, in qualche punto saliente. Un allacciamento di suoni, "spenta polve", gli fa sentire in ginnasio l'odore della terra bagnata dopo un acquazzone: "quell'odore aspro e leggero, che fa vibrare corde segrete, era lì, vivo. .."E nel libro resistenziale, I piccoli maestri, che fa Meneghello mentre si trasferisce a Padova, in bicicletta e con carte false? Recita Gozzano al suo compagno di strada e di clandestinità, Marietto: "e poi dissi con tre botte sorde e neutre: disperate cetonie capovolte. Naturalmente mi venne la pelle d'oca: la tecnica perfetta mi fa sempre quell'effetto lì" (edizione del 1964, p. 325; il passo è rimasto, appena alleggerito, nella revisione del 1976). Quella che Meneghello non ci ha ancora raccontata è la storia vera dei traumi, degli sradicamenti, della schizofrenia linguistica di un bambino di paese e di piccola gente, ma così bravo a scuola. Quello che vorremmo sapere di lui è in che lingua, crescendo, parlava (se ci parlava) con suo padre, con zio Checco, con zio Dino. Ma forse fu anche per scappare da questo nodo di lingue e culture che Meneghello al più presto prese le sue cose e se ne andò in Inghilterra. nimmumiimimMii modo, anche, di camuffare come scettica difesa dell'intelligenza (come distacco del gentleman che sorride su uomini e vicende) la più segreta difesa dei sentimenti. L'inglese permette a Meneghello di guardare quel mondo lontano (per brevi flash intermittenti) con gli occhi del bri- quel mondo (in gran parte per suo conto scomparso). L'io lontano è un io del tutto diverso da quello che oggi si assume il ruolo del testimone. Come un mutante che in un racconto di fantascienza rievocasse con nostalgia il proprio essere anteriore. O come Pinocchio diventato ragazzo, vent'anni (la Bicilindrica per eccellenza), alla tuta "bianca, nuova, abbagliante" che lo scrittore indossa (pp. 142-43). Il brano comincia con un sommesso chant-à-cóté di un incipit di Montale: "Fu dove la strada s'incurva scendendo, al Ponte Pu-sterla", che ricorda i primi versi di Dora Markus. Ma presto una serie di echi leopardiani, sussidio al discorso amoroso, s'insinuano negli interstizi della scrittura, prendono il sopravvento: "Cose più nitide e ardite non ha prodotto la tecnica, la storia, la fantasia" (Cose quaggiù più belle/Altre il mondo non ha, non han le stelle)-, finché appare, verso la fine del brano, il fantasma della canzone Alla sua donna. Ma spesso una poesia offre l'occasione per "variazioni sul tema", come nelle già citate pagine finali che muovono da un verso inglese (di Dy-lan Thomas, l'inizio di Poem in October). Avveniva lo stesso in certe illuminazioni di Libera nos a malo, sgusciate fuori da un verso degli Ossi o delle Occasioni. Quanto un verso memorabile può coinvolgere qualcosa, in termini di similarità o di confronto, della nostra vita privata? Ci sono spesso nella prosa di Meneghello questi lampi della poesia che arrivano da un sistema celeste per illuminare i piccoli gesti perduti di una quotidianità antica, la lingua-dialetto sepolta nelle miniere dell'infanzia e della giovinezza. Ci sono tuttavia momenti, in questo Bau-sète, in cui la rapsodicità delle strutture, tipica della scrittura di Meneghello, perde un poco della sua intensità rispetto ai libri precedenti, come se il nucleo gravitazionale interno avesse meno forza di attrazione. Credo che questo dipenda dal periodo "epocale" che qui Meneghello rivisita: il dopoguerra. Meneghello aveva già scritto sul paese contadino degli anni Trenta, sul fascismo, sulla Resistenza: erano momenti della storia (e della sua autobiografia) nei quali la partecipazione dello scrittore era stata viva e intensa. Ma il dopoguerra pare vissuto dallo scrittore in solitudine (malgrado le pagine vive e divertenti dedicate alla sua militanza nel Partito d'Azione) ed è talvolta privo di referenti forti, come se la vita dello scrittore avesse conosciuto in quel periodo una crisi d'identità. Leggermente appannato il suo ruolo di testimone "corale", resta a Meneghello la rievocazione della propria giovinezza, delle sue motociclette e delle sue ragazze, in un momento di transizione della sua esistenza, mentre già si appresta ad abbandonare l'Italia. E già staccato dalla politica (si sente, malgrado la cordiale e, arguta rappresentazione dell'azionismo, che Meneghello non ama la politica di quegli anni, non vede in essa nessuna continuità con le cose nelle quali fino ad allora aveva speso i suoi anni). Di questa perdita eli "coralità" lo scrittore sembra consapevole e cerca di riafferrarla nelle ultime righe del libro: "In Italia non mi si notava, ce n'erano tanti come me". Ed è vero, ma Meneghello non era più, a sua volta, simile a molti suoi amici. Si sente in lui qualcosa di deluso e non detto; e in questo caso il pudore, l'eleganza del gesto, che costituiscono tratti fondamentali della personalità dello scrittore, giocano contro di lui, gl'impediscono quel-l'in-più di ragioni impietose che forse poteva essere utile. Il libro conferma l'importanza di Meneghello nel nostro panorama letterario e soprattutto la sua inconfondibile originalità. E senz'altro l'unico scrittore, oggi in Italia, che sappia accompagnare l'impegno letterario e una scrittura sperimentale alla capacità di divertire qualsiasi tipo di lettore. Ma questo è il frutto dell'autenticità di una vocazione e dei suoi presupposti di poetica. Meneghello, per parafrasare il poeta Larkin che abbiamo citato più sopra, scrive per conservare (per se stesso e per gli altri) le cose viste, pensate e vissute, ma soprattutto si sente responsabile dell'esperienza stessa, che cerca di salvare dall'oblio per il suo valore intrinseco. IH