N. 1 pag. 6 | Autobiografia di una nazione di Massimo Onofrì Leonardo Sciascia, Opere 1971- 1983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano 1989, pp. 1282, Lit 50.000. Leonardo Sciascia, Una storia sem- plice, Adelphi, Milano 1989, pp. 66, Lit 8.000. Leonardo Sciascia, Alfabeto piran- delliano, Adelphi, Milano 1989, pp. 92, Lit 7.000. Leonardo Sciascia, Fatti diversi di una storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989, pp. 198, Lit 20.000. In una nota del 29 agosto 1978 ap- parsa in Nero su nero, Leonardo Scia- scia così concludeva una sua medita- zione sulla letteratura che gli nasceva a margine del pamphlet sul caso Moro terminato pochi giorni prima: "E al- lora: che cosa è la letteratura? Forse è un sistema di 'oggetti eterni' (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che varia- mente, alternativamente, imprevedi- bilmente splendono, si eclissano, tor- nano a splendere e ad eclissarsi — e così via — alla luce della verità. Co- me dire: un sistema solare". Sul cri- nale di questo curioso platonismo lo spingevano le numerose sollecitazio- ni ricevute, in forza di intense rilet- ture, da scrittori come Borges, Savi- nio e Borgese: nel culto delle inquisi- zioni filologiche in una apocrifa, me- tafisica e circolare storia letteraria, nella pratica della divagazione come forma suprema di intelligenza, nel- l'esperienza dell'arte come "sistema di tangenti sulla curva dell'oscuro", per dirla con una felice e audace for- mula dell'autore di Rubè. Da queste considerazioni sulla let- teratura, che a quelle sullo scrivere il leggere ed il rileggere s'intrecciava- no, lasciate cadere con impagabile noncuranza nei risvolti di copertina, nelle note finali dei testi e nei punti apparentemente morti della narra- zione, hanno avuto origine le crona- chette, le indagini storico-erudite, i romanzi brevi degli ultimi anni. Di deviazione in disgressione, di diver- sione in divertimento, sul filo di un leggerissimo estravagare, le pagine della biblioteca universale si traduce- vano nei modi vicari di una traspa- rente e non turbata esistenza, di clas- sica compostezza e sobrietà. Il mon- do dei libri offriva, insomma, la giu- sta chiave per penetrare nel libro del mondo. La pirandelliana Come tu mi vuoi poteva distenebrare il caso dello smemorato di Collegno ne II teatro della memoria (1981); un passo di Montaigne gettare luce sul processo de La sentenza memorabile (1982); una pagina dei Promessi sposi ed una Premio Calvino m / La giuria del premio — desi- gnata dall" 'Indice" — è com- posta per il 1989 da Anna Chiarloni, Maria Corti, Michel David, Guido Fink, Mario La- vagetto. La giuria annuncerà i vincitori delle due sezioni del premio (narrativa e studi criti- ci) entro il mese di febbraio p.v. nota della Storia di Milano di Pietro Verri glossare un fatto di stregoneria del XVII secolo ne La strega e il capi- tano (1986); citazioni di Stendhal, Verga, D'Annunzio, Lawrence e Zweig chiosare le vicende giudiziare di 1912 + 1 (1986), Porte aperte (1987) e II cavaliere e la morte (1988); il nome di Pirandello enigmatica- mente accompagnare nelle parole del brigadiere di Una storia semplice la ri- velazione dell'assassino. Quest'ultimo brevissimo racconto quinate ed in odor di mafia, nella quale l'arma dei carabinieri e la poli- zia sono in perpetuo conflitto di competenze secondo le regole di uno spirito di corpo che considera la par- te maggior del tutto. Bisogna subito dire, però, che Una storia semplice, nella sua peculiare qualità di giallo, si differenzia dalle precedenti. In tali opere, infatti, al- meno a partire da II contesto (1971), non appena gli eventi si dispongono nella luce della Verità (che nel corso degli anni si è sciolta nelle pirandel- liane centomila verità) perdono di consistenza, deflagrano fino a svapo- rare. La determinazione lucida ed inesorabile della realtà, insomma, si converte nel suo annichilimento: rivelano anche i numerosi dati che trapassano dalla vita dell'autore a quella dei suoi alter ego (la vittima, il brigadiere, il professore). Ancora una volta, dopo II cavaliere e la morte, alcuni interrogativi radicali e priva- tissimi, lungi dal risolversi in quella lucida autobiografia della nazione che Sciascia non ha mai cessato di scrivere, vanno ad intramare una do- lorosa ed alta meditazione esistenzia- le, parallela alla narrazione, che è spesso sfiorata dalla tentazione di "una risposta 'spirituale', nella delu- sione delle risposte 'materiali' tanto cercate", come scrisse nella prefazio- ne ad un'opera di Giuseppe Rensi ri- stampata nell'87. Una meditazione che ha il suo nucleo irradiante nel- Quel macaronico asceta di Maria Luisa Doglio Mario Chiesa, Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1988, pp. 206, Lit 30.000. Il volume del Chiesa, a cui si devono impor- tanti studi folenghiani, inaugura al meglio la col- lana "Contributi e proposte" diretta da Mario Pozzi. Se il titolo nel segno dell'antitesi ricondu- ce manifestamente alla doppia iconografia del monaco umanista, convinto assertore del ritorno alle origini della vita monastica, e del poeta mac- cheronico sapido cantore di epiche mangiate, l'indagine, finissima, si articola lungo due filoni allo scopo di ripercorrere e penetrare, senza riu- nirle o escluderne una, le due immagini che em- blematicamente proprio il Folengo compone e presenta di sé. Il primo saggio scruta i riflessi del- la formazione monastica nell'opera macaronica. L'analisi minuta svela nelle Macaronee una for- te presenza della tradizione cristiano-medievale, con calchi biblici, lacerti delle epistole di san Paolo, modi della Patristica e della Scolastica, sfruttati a più riprese per l'impasto linguistico e il gioco allusivo, che documentano come il lin- guaggio maccheronico non sia una creazione in vitro ma si riallacci a codici linguìstici e letterari presìstenti. A questa analisi sì intreccia il diffuso esame degli spunti offerti dai cantari popolari all'Or- landino (il poema in ottave sulla fanciullezza di Orlando pubblicato nel 1326), spunti a lungo rielaborati che confluiscono nel macaronico fo- lenghiano parallelamente a echi dotti, in una confluenza di culture e tradizioni diverse perché "il macaronico non è solo un modo di scrivere, ma un modo di pensare e immaginare il poema; non c'è solo un macaronismo della lingua ma an- che dei temi, dei generi, dei moduli stilistici". Chiariti gli arcani dell'officina del poeta, le fonti, le scelte, l'idea e le pratiche di commistio- ne, il Chiesa ritoma al monaco e alla sua parteci- pazione alle vicende religiose degli anni fra il 1520 e il 1530. Nel documentarissimo saggio centrale, muovendo da dichiarazioni dello stesso Folengo, sottolinea la centralità del tema religio- so nell'Orlandino, e a proposito dell'espressione "conoscere di Cristo il beneficio" rileva che nel 1526 è "formula compromettente, decisamente connotata", tra Erasmo e Lutero, che rinvia non solo al dibattito intemo alla congregazione bene- dettina cui il Folengo apparteneva, ma all'esigen- za profondamente avvertita di guide o "scorte" per una riforma della vita monastica. "Scorte" che attraverso il vaglio rigoroso di testi e la serra- ta ricostmzìone di rapporti il Chiesa individua in figure come Camillo Orsini, legato all'ambiente degli "spirituali" o dell'"evangelismo" italiano, nel fratello del Folengo, Giambattista, monaco e commentatore dei Salmi, in un gruppo di bene- dettini veneto-mantovani e, fuori dal chiostro, in letterati come Marcantonio Flaminio, amico del Castiglione e revisore del Cortegiano. Proprio alla luce dei nessi plurimi con e tra le "scorte", la crisi religiosa del Folengo che porta all'uscita dall'Ordine appare una svolta decisiva, non un gesto di ribellione isolata né un'improvvisa ri- nuncia, ma un lacerante travaglio e una matura ricerca di approfondimento. Alla crisi del mona- co il Chiesa accosta di riflesso la crisi del poeta che lascia il macaronico per il toscano o il latino e la crisi dell'intellettuale coinvolto in quel ridi- mensionamento della cultura umanistica che po- stulava la necessità di sostituire gli autori pagani con la Sacra Scrittura. di Sciascia ruota attorno alla miste- riosa morte di un certo Giorgio Roc- cella, diplomatico in pensione, torna- to improvvisamente in Sicilia: una morte dalla quale altre, ancora più inesplicabili, scaturiranno. Una va- sta folla di personaggi, tagliati in mo- do svelto ed essenziale, si muove sul- la scena: un questore, un commissa- rio ed un colonnello dei carabinieri con l'ansia di semplificare una vicen- da complicatissima; un prete all'anti- ca, bello alto e solenne, ma dai loschi contorni; la moglie della vittima, lac- cata ed inanellata, preoccupata solo del patrimonio, ed il figlio penosa- mente chiuso nell'amoroso ricordo del padre; il professor Carmelo Fran- zo, vecchio amico del morto, unico interessato alla risoluzione del caso, insieme al candido sottufficiale di polizia Antonio Lagandara, il quale, "aritmeticamente" svolgendo la ca- tena delle deduzioni, arriva alla veri- tà, terribile ad ammettersi, ucciden- do, per legittima difesa, l'assassino. Sullo sfondo, la Sicilia (ma si dovreb- be dire l'Italia) delle istituzioni in- man mano che i nodi vengono al pet- tine, il pettine, per così dire, si disin- tegra, ed il loro scioglimento ha come esito la proliferazione degli enigmi. La delineazione di una grande allego- ria del potere procede, attraverso i tanti casi giudiziari, per via di nega- zione: omnìs determìnatìo est negatio, a rivelarci uno Sciascia scrittore di cose e non di parole, al modo di Ver- ga, Brancati e Vittorini, ma di cose che, in virtù delle parole, dileguano. In Una storia semplice ciò non accade. La verità, come nei primi gialli II giorno della civetta (1961) e A ciascu- no Usuo (1966), si ripresenta univoca ed indefettibile all'intelligenza del brigadiere, benché non si faccia pub- blica con la condanna dei colpevoli, in una vicenda che si chiude nel cli- ma di un'universale omertà. Ma questo ritorno all'antico nella costruzione della detective story, cer- to da spiegare nella storia dello scrit- tore, perde d'importanza quando si scopre che il thriller è assunto a mero pretesto per più gravi e vaste rifles- sioni di marca autobiografica; come l'amarissima considerazione del pro- fessor Franzo: "ad un certo punto della vita non è la speranza l'ultima a morire, ma il morire è l'ultima spe- ranza". All'incrocio di queste riflessioni, sempre più urgenti negli anni, Scia- scia non poteva che incontrare Luigi Pirandello: e si consideri circostanza non casuale che, nel romanzo, la vit- tima sia un uomo alla ricerca delle sue radici, tornato in Sicilia per ritro- vare, appunto, vecchie lettere spedi- te al nonno da Pirandello. "Tutto quello che ho tentato di dire, — scri- veva in un saggio degli inizi dell'89 dal titolo Pirandello, mio padre — tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello": un discorso, e meglio sarebbe dire un dialogo, avviato per la mediazione del film II fu Mattia Pa- scal di Marcel L'Herbier, quando adolescente, letto il libro, scoprì, co- me racconta in La Sicilia come meta- fora, che dentro il mondo pirandellia- no egli ci viveva, che il dramma pi- randelliano dell'identità nasceva in quel teatro naturale che era Agrigen- to, che, insomma, il pirandellismo era in natura. Un discorso mai più in- terrotto; dall'antico Pirandello e il pi- randellismo (1953) al recente Alfabe- to pirandelliano, elegante dizionariet- to dalla voce Abba alla voce Zolfo, in cui convergono, in forma di lievissi- ma fantasmagoria, tutti i temi che hanno ossessionato Sciascia nel corso di una quarantennale rilettura. Ecco allora, sull'onda di una solle- citazione onomastica o di una preci- sazione concettuale, ripresentarsi gli argomenti consueti: la lettura del- l'intera opera pirandelliana in chiave di dialettalità, nel segno delle ipotesi gramsciane; la disamina del compli- cato rapporto tra Pirandello e Til- gher, lo studioso che lo rivelò al gran- de pubblico; le considerazioni sulle pagine di critica pirandelliana più amate, da Tozzi a Bontempelli e De- benedetti; le divagazioni sulla bio- grafia pirandelliana che di pirandelli- smo si intridono. Il tutto nel quadro di un'interpretazione che, con il soc- corso di Montaigne e di Pascal, rav- visa in Pirandello una sorta di cristia- nesimo naturale venuto a confliggere con un mondo soltanto nominalmen- te cristiano, nell'indifferente e cinica osservanza dei riti e delle apparenze. L'ultimo Sciascia di buon grado scorgeva in sé questo cristianesimo naturale ora che, cordialmente e se- renamente, in Pirandello aveva rico- nosciuto il padre. Un padre che gli era capitato e che non avrebbe volu- to, a fronte dei tanti che, poi, consa- pevolmente scelse, per opporsi a quell'irrazionale Sicilia che nelle pa- gine pirandelliane gli si era manife- stata. I fantasmi di questi padri, in- sieme a quello di Pirandello (ancora una volta), turbano la cristallina chiarezza dei saggi più significativi ed intensi della bella raccolta Fatti di- versi di storia letteraria e civile: prete- sti, occasioni, brevi cronache, rapide escursioni che, con la scusa di dipa- nare un minimo caso una minima vi- cenda, si portano dietro l'infinito di una Storia privata e pubblica. In questa prospettiva il vero cen- tro del libro non sta nei pur splendidi scritti su Stendhal, Verga, D'Annun- zio e Tornasi di Lampedusa, ma in quelli che, con nostalgia, con malin- conia, ritornano ai decisivi anni del- l'adolescenza e dell'apprendistato in- tellettuale, come C'era una volta il ci- nema e L'Omnibus di Longanesi. Par- ticolarmente toccante quest'ultimo dedicato alla rivista longanesiana, nella quale, scrive Sciascia, "conflui- vano ricerche, segnali, aspirazioni e ansietà di tutto un ventennio; dalla fine della prima guerra mondiale fin quasi alla soglia della seconda". Un ventennio nel quale davano brillante prova tutti gli scrittori decisivi nella formazione di Sciascia, diversi e spesso in conflitto, eppure uniti in quel tentativo di sprovincializzare l'Italia autarchica e fascista. E ne diamo qui elenco: Borgese, Cecchi, Savinio, Barilli, Tilgher, Rensi, De Lollis, Cajumi, Longanesi, Brancati, Vittorini, Pavese, Praz, Trompeo, Alvaro, Soldati, Buzzati, Morovich, Piovene, Moravia. Come se, nel tem- po estremo, quando i tanti libri scrit- ti gli si scioglievano, gli si confonde- vano, nei tantissimi letti, avesse vo- luto ricordarli tutti, e tutti chiamarli per nome, uno ad uno, a futura me- moria.