#1 ILI -|N.l 1 IN DI IC 1- pag- 3 LIBRI DEL MESEÌ k Il Libro del Mese L'arte effìmera di vestire i pensieri di Franco Marenco Héctor Bianciotti, La notte delle stelle azzurre, Milano, Feltrinelli 1989, ed. orig. 1988, trad. dal fran- cese di Yasmina Melahoua, pp. 246, Lit 28.000. La stravaganza — quasi ce ne era- vamo dimenticati, da quando abbia- mo riposto il Gadda e ci hanno delu- so i suoi nipotini — è una categoria, una misura letteraria di primaria im- portanza, fra tutte preziosissima in tempi di tran tran minimalista, di ecumenismo informativo, di univer- sali appiattimenti su poche immagini liturgiche, amate da tutta la famiglia, da amici e parenti vicini e lontani. Sia dunque benvenuto tutto ciò che ci garantisce un po' di ossigeno fra le chiuse pareti della prosa giudiziosa e accattivante, del racconto architetta- to come uno spot pubblicitario. Ben- venuto chi ha la sfrontatezza di pre- sentarci un personaggio in questo modo: "Dagli abissi che la fantasia mi aveva fatto intrawedere sorgeva il mostro, nutrito di melma, ritto sul- la coda, gonfio di sicuri veleni, pron- to a conficcare i suoi artigli e intento a spogliarsi della sua pelle blu — una vecchia signora dallo sguardo stupi- to, dal sorriso accattivante, la piccola testa dalla cuffia rossa sopra un collo talmente lungo e fragile che i braccia- li che tintinnavano ai suoi polsi, se non gli anelli che appesantivano le sue mani, avrebbero potuto servirle da collane". Benvenuto Héctor Bianciotti, creatore di figure esage- rate e incomode, maledettamente fuori misura. Sono tutti dei marginali i suoi per- sonaggi, non perché poveri, o deboli — sono passati i tempi — ma perché messi in un canto dalla nostra passio- ne per l'omologazione rassicurante: sono vecchi ciarlieri, sono nobilastri malandati, e ciechi, taumaturghi, prostitute, suicidi mancati, sono an- che moribondi, anche morti, e tutti all'interno dei luoghi della marginali- tà, l'ospedale, il teatro in disuso riat- tivato per una sola serata, il collegio di provincia, il postribolo, il grande albergo per umanità decrepita: e tut- ti ostentati, gessosi come manichini, imbellettati da chili di cipria rosa Mi- stinguette, carichi di paillettes racca- priccianti, tutti caricature sarcasti- che della presentabilissima umanità nella quale ci riconosciamo, che ci pacifica e ci rasserena. Loro no, non ci rasserenano affatto: rappresenta- no un'umanità insubordinata e per- turbante, ma vanamente, e che per questo è condannata a vociare dal limbo dei processi letterari, a tor- mentarsi nel fondo della sua stessa ineffabilità, a essere plausibile solo nel ricordo. Indugiamo un momento sulla re- torica della stravaganza: lo scrittore amplifica, rifinisce, ispessisce, cesel- la, indora, sempre ai margini, sempre in superficie, come per distrarsi, co- me spaventato da una materia incan- descente che non può toccare perché troppo dolente e sua, e che deve ri- manere sepolta. Quando è genuina, la stravaganza nasce da una perdita, e vive di un'assenza. In questo ro- manzo la superficie è dominata dalla figura di Morales, "sarto eminente" come lo chiamano i giornali, figura antipatica se ce n'è una, egocentrica e arzigogolata, un aristocratico non conciliato con la modernità — "la piccola borghesia comporta molti vantaggi... è grazie a lei che gli uni ri- mangono al loro posto e gli altri con- servano il loro rango" — un teatran- te costantemente sulla scena, petu- lante e patetico nell'esigere attenzio- ne, uno che può dire, in presa diretta con la parte più scontata di Wilde e Borges: "per vivere ho dovuto licen- ziare la mia anima". Di Morales ci vengono esibiti la pelle avvizila e squamosa, le occhiaie giallastre, le mosse istrioniche, i detti iperbolici. Morales è associato ai vezzi della mo- da, alle tecniche dell'effettaccio, alle riconoscere il lusso essenziale, segre- to, sul quale egli doveva poggiarsi per abbandonarsi liberamente alla stra- vaganza, e che chiamava l'architettu- ra dell'abito, una sorta di geometria fluida imposta al corpo, simile a ciò che il disegno è per il pittore, che il colore spesso nasconde, e che perma- ne, tacita, in quella che parlando di do di evocare un principio borgesia- no. Ecco allora un seguito di scene e quadretti, di occasioni minime am- pliate nella sequenza onirica, nell'a- forisma, nella rapida metafora. Ecco la tipica struttura della frase, con cui Bianciotti ci fa percorrere a ritroso il cammino dei sensi, in una sorta di impressionismo rovesciato: "A pen- H corpo, teatro dell'infinito di Ludovica Koch Héctor Bianciotti, Senza la misericordia di Cristo, Sellerio, Palermo 1989, ed. orig. 1985, trad. dal francese di Valeria Gianolio e Angelo Morino, pp. 292, Lit 22.000. ' 'La fisiologia dà sull'infinito ' ', riflette ad alta voce la protagonista a metà del primo romanzo francese di Bianciotti. La schiva e dignitosa Ade- laide Marèse sta consegnando al narratore, il si- lenzioso vicino di casa che è diventato il suo principale confidente, quella che crede la formu- la centrale della storia. I due hanno preso l'abitu- dine a colloqui sommessi e dolenti, del tutto fuo- ri posto nel malfamato bar all'angolo della stra- da dove si svolge gran parte della vicenda. Nel bar, infatti, astraendosi ma anche alimentandosi dallo sfondo tenebroso e violento, Adelaide rivi- ve Usuo straziante passato: fino a risalire al nodo più serrato e segreto. Dal bar Adelaide si stacca per una fiduciosa avventura affettiva che la por- terà alla disperazione e alla morte: prima dirigen- dosi verso una bambina torva e perduta, poi cer- cando l'amicizia di un altro naufrago dell'esi- stenza, un mite pensionato senza memoria, vitti- ma e schiavo di una famiglia mostruosa. La battuta di Adelaide serve ad affidare anche al lettore la chiave del racconto. Segnala, innan- zitutto, la potente ossessione macabra e corpora- le che genera, come vermi da una carne corrotta, le inquietanti figure visive e tattili del romanzo. Tutta la storia si svolge, infatti, per così dire sotto la pelle, nel cavo tiepido e repellente all'interno della persona, in mezzo alle secrezioni, agli sfia- tamenti, alle ottuse peristalsi della vita vegetati- va. L'amore non è che un ansante mescolarsi di bave. Il pensiero e la religione nascono da "un teatro di contrazioni, di spasimi, di restringimen- ti, di subbugli ciechi, di triturazioni molli, di sfi- lacciamenti viscosi". L'individualità di cui si gloria la cultura occidentale si configura qui co- me una tavola anatomica a colori, dove si torco- no e torpidamente si aggrovigliano membrane e mucose, tasche, condotti, rigonfiamenti, papille, villi, ventose. Il tema della putredine, che associa ostinatamente, cupamente, per tutto il libro la Carne e la Morte, assume una violenza visionaria quasi secentesca, che turba e contagia il lettore. Dna profondissima, allucinata ripugnanza tra- volge le modeste storie degli uomini in una gran- diosa danza macabra. Dn'aggressività universale strazia e devasta rapporti appena accennati. Ir- rompono, lacerando il dimesso monologare delle due voci narranti, forti immagini di deformazio- ne e di orrore: incubi, aborti, impiccati, ibridi, nani. Scene crudeli e grottesche che fanno pensa- re alla tradizione di Goya; quando non sembra- no tolte invece al cinema espressionista, alle cari- cature di Grosz e di Dix. Le dita della bambina Rosette si stringono come grossi vermi sul collo del narratore. La mostruosa nonna contadina, ri- cordata da Adelaide come un malvagio ammasso di carne greve, gonfia e sfatta, annega trionfal- mente sotto la luna, nel brago dei suoi porci. Ma la formula che collega infinito e fisiologia è anche un buon esempio dell'altro, e stridente, piano del romanzo: il commento. Un incessante filo meditabondo mette infatti in bocca alla ca- sta Adelaide — per sua fortuna, almeno lei, "senza corpo" — al suo timido amico, e soprat- tutto al narratore (torbido tipo di melanconico voyeur cupido e fobico), aforismi metafisici e morali sussiegosi e benevoli, stanche citazioni letterarie, sentenze di generica pietà. La doppiez- za continua del discorso, l'urto frontale fra rac- conto e commento che si smentiscono a vicenda non è l'effetto meno inquietante del libro. immagini dei rotocalchi, alle auto con le gomme bicolori e i raggi cro- mati. Il suo non è il kitsch nella ver- sione di un espatriato dal socialismo reale come Milan Kundera, "mondo dove la merda è negata, e tutti si comportano come se non esistesse"; è al contrario un mondo alla Genet, dove la merda è santificata — Saint Genet... — come rivalsa contro il conformismo e l'oblio. Quella di Morales è la vana difesa, la distinzione cui si aggrappa chi non ha risorse: è l'orgoglio degradato di chi può vivere solo al di là di sé: "amava superarsi, anche se questo superamento avesse dovuto schiac- ciarlo". E con bravura infinita, per- ché infinitamente esposta, pronta a "sporcarsi", Bianciotti intraprende il tour de force di una scrittura artifi- ciosa, totalmente mimetica della mentalità e del gusto della sartoria, fino al virtuosismo che riesce a vesti- re di fatuo anche la sua più riposta fi- losofia della composizione: "Sotto le ampiezze, l'opulenza, gli splendori del lusso, sarebbe stato ingiusto non un quadro viene detta composizio- ne"; fino a teorizzare l'aggio delle forme sulla sostanza, e il beneficio del fallimento: "Si ha bisogno di rac- contare per alleviare le goffaggini da romanziere dell'esistenza, le sue ri- petizioni, i suoi indugi: si ha bisogno che anche lo scacco raggiunga la per- fezione". Il tratto di Bianciotti non è quello limpido, lineare che concilia e dà pia- cere; è quello frastagliato, sentenzio- so, inconcludente che inquieta e sfi- da continuamente i nostri equilibri: soprattutto gli equilibri che costruia- mo di giorno in giorno rispetto alla morte. Nel suo procedere, il roman- zo si rivela sempre più come una bar- riera di parole contro la morte, verso la morte. Non c'è costruzione che non sia quella improvvisata del meandro semantico presente in ogni frase; non c'è intreccio che non sia quello dei sistemi di immagini e di ri- flessioni che si generano l'una dal- l'altra. "Non c'è un solo pensiero che sia garantito da ciò che chiamiamo realtà" si dichiara Bianciotti, sapen- sarci bene, avrei visto Morales poche volte a quattrocchi, prima che diven- tasse un ospite di riguardo dell'Ospe- dale dove si è imposto la notte in cui, poco prima dell'alba, era stato rac- colto su un marciapiede e fra i suoi documenti era stato trovato un fo- glietto"... Un episodio tra tutti merita di es- sere rivisitato, per illustrare questa scrittura che si vuole scontrosamente materiale e anti-simbolica, ma non può non acquistare poi tutti i caratte- ri dell'emblema: si tratta del fram- mento centrale, in cui il personaggio di Nicolas perde un braccio sotto il trattore che trasporta, fra la folla in tripudio, la figura trionfante di Eva Peron: lo scontro tra la retorica mo- derna dell'Immagine e il disagio del soggetto che all'immagine resiste, e non vuole esserne travolto, non po- trebbe essere evocato più incisiva- mente. Come dicevamo, la vera strava- ganza è imperniata sulla distinzione fra qualcosa che viene detto e qualco- sa che viene taciuto, fra un'ostenta- zione appagante e un segreto perico- loso. Morales sta per la superficie scintillante che tutto assorbe, ma che, lacerata, lascia intravedere il suo segreto: e questo segreto è la madre del personaggio narratore, lontana mille miglia da Morales, da lui total- mente dissimile, eppure a lui inspie- gabilmente legata da fatti e atteggia- menti secondari. Sarta anche lei, an- che lei superata dal mondo, in società questa madre è definita con scherno ' 'una sempliciotta' ', e il figlio compie la debolezza di sentirla tale. Ma è lei, la donna nient'affatto teatrale, nien- t'affatto brillante, è lei la verità as- sente negli altri; è lei il centro perdu- to dell'artificio che domina incontra- stato. La madre "nasce" morendo — la sua morte è ricordata dalle prime pa- role del romanzo — e muore nel- l'ultima pagina, subito dopo la morte di Morales: il tempo reale della nar- razione è fissato dalla vita di Mora- les, il tempo della memoria dalla morte della madre, una morte rivis- suta attraverso le tappe dell'espro- priazione dei suoi pochi averi, del- l'umile fatica, della malattia che ne fa un "caso" da esibire nelle lezioni universitarie, dell'agonia. E tutto il romanzo, i quadri staccati della vita, le esagerate ribellioni delle forme contro la sostanza, sono tenuti insie- me da un unico filo, la memoria di ciò che lei è stata. Sua è l'unica posi- tività: "credeva, duro come il ferro, che tutte le cose dell'universo si inca- strino, si adattino secondo una legge di compensazione che fa nascere li ciò che qui muore, e questa convin- zione, invece di spingerla verso una pigra rassegnazione, l'aveva condot- ta, giorno dopo giorno, gesto dopo gesto, a ogni costo, verso la realizza- zione di ciò che doveva farsi attra- verso di lei". Come si vede, il testo è ottimamente tradotto da Yasmina Melahoua.