N. 10 pag. 15 j è stato pressoché ignorato dalla storiografia economica: e senza dubbio questo deriva, come sostiene Cafagna, da una impostazione riduttiva che appiattisce l'industrializzazione sulla grande impresa. Vale tuttavia la pena di rilevare che questo tipo di approccio (in realtà mai completamente abbandonato) ha finito per produrre guasti ben più gravi di quelli derivanti dall'amputazione di una lunga fase storica. Esso, infatti, — è cosa nota — ha offuscato alcuni tratti specifici e ricorrenti dello sviluppo industriale italiano, su cui il dibattito in sede storica appare ben lontano dall'essere soddisfacente. E questo tra l'altro un campo di ricerca che impone approfondimenti sul piano dell'analisi dei gruppi sociali e della loro formazione, della loro composizione e scomposizione, un terreno in gran parte inesplorato del lavoro storiografico. Ritorneremo su questo tema. Lo sviluppo economico che, sulla base di queste premesse, si avviò fu "lento e faticoso", come lo definì Sereni. Esso interessò una sola grande regione del paese — quella che divenne poi il 'triangolo industriale' — in cui era concentrata la massima parte della produzione serica italiana e dove esistevano condizioni potenziali decisive per una crescita economica di tipo moderno. In primo luogo, un'agricoltura a due settori, l'uno capital intensive, l'altro labour intensive, "una combinazione eccezionalmente importante nella prospettiva di un processo di industrializzazione". Nota Cafagna che, paradossalmente, pur essendo la regionalità dello sviluppo la manifestazione più evidente del dualismo nord-sud che caratterizza il 'caso italiano', essa non ha mai sollecitato alcun tentativo organico di prospettare e di analizzare le numerose implicazioni che ne derivano. Prima fra tutte il fatto che il quadro di riferimento riguardante l'indagine del processo di industrializzazione, andava ricercato non all'interno ma all'esterno dei confini statuali, nelle aree europee contermini, con cui — per ragioni storiche, oltre che per posizione geografica — esistevano correnti di scambio e di importazione culturale e di capacità tecniche e imprenditoriali. Al contrario, la concentrazione territoriale dello sviluppo finì per rafforzare un orientamento della ricerca costretto dentro uno schema — astratto — di economia chiusa, che ne considera esclusivamente i rapporti interni e ignora i legami internazionali. A tutto ciò contribuì certamente, sostiene l'autore, una tradizione di studi centrata sulla denuncia di un "contributo sacrificale" del Mezzogiorno alla crescita economica italiana. In realtà, nord e sud del paese erano aree economiche sostanzialmente estranee fra di loro; diversi erano i loro rapporti con il resto del mondo, diverse le correnti di scambio internazionale in cui erano inserite. Il nord trovò al suo interno le risorse necessarie al proprio sviluppo, e "si disinteressò" del sud. Non ci fu alcun programma di 'spoliazione' del mezzogiorno da parte dell'economia settentrionale. Il nord non avrebbe neppure avuto la forza di realizzarlo, afferma provocatoriamente Cafagna; piuttosto, si può dire, non ebbe la capacità (e la "lungimiranza") di affrontare il problema della unificazione economica. L'unico contributo riconosciuto al sud in questa fase del processo di sviluppo è rappresentato dalle rimesse dei contadini emigranti, che costituirono un apporto determinante all'equilibrio dei conti con l'estero negli anni cruciali della formazione della base industriale. La polemica di Cafagna è, come si vede, netta e tranciarne, ed è probabile che non mancherà di rijollevare appassionati contraddittori. II mezzogiorno, come sappiamo, non è in realtà niente più che un'espressione geografica. Se ci si ferma qui, non si va molto avanti. Ma è certo che la ricerca storica su questi temi richiede di essere reimpostata, al di fuori di schemi ideologici che si sono rivelati fuorviami, distraendo l'attenzione dai soggetti e dai problemi reali dell'analisi. È solo per questa via che si possono avere risultati nuovi, capaci di gettare luce su orizzonti inaspettati. Fu dunque il nord a trarre i benefici derivanti dalla domanda estera. Essa fece del setificio delle regioni settentrionali, inizialmente, un complemento dell'industria serica di al- tre aree europee. Ora, ciò che fa problema è come sia stato possibile arrivare, da una posizione complementare nella divisione internazionale del lavoro, a un processo di sviluppo sostanzialmente autonomo. Per capire questo passaggio, sostiente l'autore, occorre soffermarsi sulle caratteristiche di quella "coltura industriale" che è la seta. A differenza di produzioni agricole come il caffé o il cotone, che "producono in loco solo padroni e schiavi", la seta aveva una straordinaria "capacità di mobilitazione economica diffusiva": offriva opportunità che favorivano l'emergere di una piccola imprenditorialità industriale, commerciale e bancaria e redditi supplementari, modesti ma per nulla disprezzabili, a una miriade di famiglie coloniche, per le quali si aprivano prospettive nuove. L'accento è qui posto sulle dinamiche sociali (e culturali) indotte da un prodotto sui generis come la seta, della quale richiedono di essere studiati e valutati i caratteri e la rilevanza. Ciò che interessa Cafagna è la ve- rifica di una ipotesi, e quindi una conferma del ruolo strategico della "spinta originaria" dello sviluppo, dei suoi effetti di sollecitazione e diffusione di fattori di crescita. E uno sbocco coerente con l'impianto della sua ricerca. Ma la questione sollevata — per gli sviluppi impliciti che contiene — va al di là dei confini tracciati, di tempo e di luogo. Essa potrebbe essere riformulata (e ampliata) in domande del tipo: quali movimenti nella stratificazione sociale che si realizzano in un processo di trasformazione economica, tra quali posizioni essi avvengono e attraverso quali meccanismi, chi ne è protagonista? Non sono domande irrilevanti, e nemmeno scontate. Che lo sviluppo produca dei mutamenti nelle strutture sociali è ovvio. Altrettanto ovvia è la direzione di questi mutamenti, come nuovi profili delle classi. Ma i veri problemi nascono proprio quando da una constatazione della tendenza generale si passi all'analisi dei movimenti che all'interno di essa si verificano. E qui che nascono le sorprese. Si veda, ad esempio, il problema cruciale della formazione di forze di lavoro stabili per l'industria. Lo schema proposto da Cafagna è uno schema lineare, fondato sulla gradualità della separazione dalle origini agricole: 0 punto di approdo finale è la grande industria, urbana e non. L'integrazione tra lavoro industriale e lavoro agricolo e le sue conseguenze, nella prima fase di questo processo, è un dato definitivamente acquisito dagli studi. Ma il punto nuovo che Cafagna introduce è che se si esaminano gli esiti delle dinamiche rese possibili dalla diffusione dell'attività extra-agricola nelle campagne, questi non necessariamente si riducono al passaggio alla condizione operaia. I processi di mobilità indotti nelle famiglie contadine non sono univoci, nella loro direzione: una di queste (ma non è l'unica) è il movimento ascendente all'interno della stratificazione sociale rurale. E il caso osservato in piena epoca giolittiana nel Milanese, in cui la fabbrica, paradossalmente, può produrre — anziché operai — contadini proprietari. Tutto ciò suggerisce l'esigenza di una analisi meno semplicistica dell'incontro tra industria diffusa e mondo rurale. Ma in questo quadro appare in una luce diversa anche il problema del rapporto città-campagna nel periodo, un tema assai poco praticato dalla storiografia dell'Italia contemporanea. Un approccio alla questione può essere quello dei processi di formazione di una classe operaia urbana. Il reclutamento — secondo Cafagna (ma "mancano serie ricerche") dovrebbe essere inizialmente avvenuto all'interno dell'artigianato urbano. Successivamente, ad un settore di proletariato che riproduce se stesso, è presumibile che si aggiungano soprattutto coloro che nella fase precedente sono stati "staccati" dalla terra e quindi si sono resi disponibili a trasferirsi in città. Il quadro che ne emerge è coerente con lo schema lineare per cui l'industria nelle campagne "prepara" le forze di lavoro per la grande industria, ma lascia aperti numerosi interrogativi. Prendiamo brevemente in esame un solo aspetto del problema: la mobilità dalle campagne ai centri urbani del "triangolo". Il processo che in genere si ha in mente è articolato in due fasi: nella prima — che corrisponde all'industrializzazione nelle campagne — non c'è mobilità verso le città; questa si verificherà solo in una seconda fase, quando l'industria si svilupperà anche nei centri urbani. Secondo questa interpretazione la mobilità dalle campagne alle città esisterebbe solo quando è rilevabile dagli incrementi netti della popolazione urbana. In realtà la mobilità non può essere ridotta esclusivamente al trasferimento definitivo degli individui. Può essere anche un movimento "circolare"; può comportare, cioè, il ritorno al luogo di partenza; in sostanza, può esprimere strategie che "usano" una temporanea condizione urbana e operaia, e quindi le risorse che procura, in termini di integrazione di redditi agricoli insufficienti o anche in funzione di obiettivi di promozione sociale nel villaggio di origine. E d'altronde questa l'esperienza comune di molti emigranti temporanei all'estero dal "triangolo" in tutto il periodo considerato. Ciò che è importante sottolineare è che esiste una circolazione di forze di lavoro tra campagne e città prima che l'industria urbana stabilizzi in modo crescente gli immigrati. Tutto questo non ha alcuna rilevanza ai fini dell'analisi dei processi di formazione del proletariato urbano? Ma è in realtà la mobilità geografica in quanto tale, in tutte le sue varie forme, a fare problema. Si tratta di un fenomeno più complesso di quanto in genere non si ritenga, che va studiato nelle sue molteplici implicazioni. I percorsi sociali di individui e gruppi che la sottendono non sono mai predeterminati. ,0100-NOVITÀ FRANZ MARC a cura di Felicitas Tobien HEINRICH MANN IL PAESE 01 CUCCAGNA HEINRICH MANN L'ANGELO AZZURRO LEO PERUTZ LA TERZA PALLOTTOLA GRAFICA ART NOUVEAU a cura di Otto Lorenz BA JIN IL SEGRETO DI ROBESPIERRE OSKAR PANIZZA DAL DIARIO DI UN CANE ALIDA CRESTI LA SEDUZIONE DI THANATOS QUINTO ANTONELLI BLOCCO NOTES DI UN MAESTRO DI CAMPAGNA distribuzione C.D.A. Via del Commercio, 73 38100 TRENTO