INDICF m ■ dei libri del me se Ibi 1 intervista Un grande professore, non un mito Léon Van Hove risponde a Vittorio de Alfaro Quando arrivai a Princeton la prima volta, Einstein era morto da otto anni. Nella casetta al 112 di Mercer Street, dove non c'era neppure il garage, viveva la segretaria, Helen Dukas, una signora non più giovane che talvolta veniva ancora, al pomeriggio, a prendere il tè all'Institute for Advanced Study. Le segretarie e il personale dell'lnstitu-te la conoscevano bene. Era, miss Dukas, la custode dell'eredità morale di Einstein, che teneva lontani i curiosi e intentava cause a chi usasse impropriamente il suo nome. Stava con gli Einstein dalla fine degli anni '20. Cosi non vidi mai Einstein (in compenso incontrai Godei parecchie volte. Ricordo che in un'asfissiante giornata di luglio, mentre guidavo, qualcosa di insolito mi fece voltare: era Godei, in cappotto scuro e paraorecchie. Era piuttosto vecchio e molto freddoloso). Parlando di Einstein con la gente del-l'Institute, mi colpì che si riferissero a lui chiamandolo "Professor Einstein". Al tempo stesso profondo rispetto e familiarità. Era per loro un grande professore, non un mito. Era ancora vivo in molti il ricordo di un seminario scientifico che Einstein aveva annunciato. Era uno dei tentativi di unificazione generale, strada che oggi è routine che tiene occupati molti ricercatori. L'atteggiamento di tutti all'Institute era di rispetto e anche curiosità benché non si attendessero grandi novità. Il seminario venne annunciato con poche ore di anticipo, per evitare che i giornalisti arrivassero in massa; ma la notizia filtrò e qualche giornalista locale riuscì ad essere presente. Questo gli dette molto fastidio. La famosa foto in cui mostra la lingua fu scattata in quella occasione o in un 'occasione simile. Oggi molti la vedono come un gesto di anticonformismo; era una reazione molto più elementare. L'anticonformismo c'era, ma era altrove: nell'assenza di pregiudizi, nel voler credere solo alle cose dimostrate e da lui direttamente testimoniabili, caratteristiche comuni ad altri scienziati del periodo. Qualcuno oggi sa ancora che nel 1914, con Einstein, che viveva in Germania ma con cittadinanza svizzera, Hilbert, unico tra gli intellettuali tedeschi, rifiutò di sottoscrivere una "dichiarazione degli artisti e degli scienziati tedeschi" — oggi diremmo "degli intellettuali" — che smentiva le voci di barbarie contro persone e opere d'arte nel Belgio occupato. Hilbert aveva detto in quell'occasione di poter affermare vero solo ciò che era in grado di dimostrare. Una parte del pubblico invece, e qualche terzopaginìsta d'assalto, immagina chissà quali rocambolesche vicende nella vita scientìfica di uno scienziato del livello di Einstein. Lo testimoniano le messe in scena televisive, o sfortunati film, che nei casi migliori riescono a riprodurre — bravi attori, grandi professionisti — i gesti e il comportamento, ma falliscono rappresentando drammatiche scene che ricordano più le discussioni che si accendono, sui treni, tra sconosciuti compagni di viaggio che non le argomentazioni di Einstein e compagni, o di Eermi e del suo gruppo. Ho cercato qualche scienziato che Stein. Si, certo l'aveva visto più volte; ma per un naturale senso della privacy aveva evitato di disturbarlo. Poi a Ginevra, al CERN ho cercato Léon Van Hove, che pure era stato a Princeton in quegli anni; persona di grande prestigio, ha lavorato in molti campi importanti della fisica ed è stato direttore generale del CERN per 5 an- Era gentile, li salutava, qualche volta portava loro le caramelle. D. Ma oltre ad averlo visto, sei uno dei pochi che l'hanno frequentato in quell'ultimo periodo. R. E stato un caso fortuito, direi. Sai che ad Einstein dava fastidio incontrare gruppi di parecchie persone, anche (o soprattutto) se scienzia- ed intuisce l'esistenza fisica del fotone, alla solitudine dorata di Princeton dove conduce, quasi da solo, la sua polemica sull'interpretazione della meccanica quantistica fornita dalla scuola di Copenhagen. Nei primi lavori (i classici lavori del 1905), l'influenza della speculazione di Mach sui principi della meccanica classica è assai evidente, così come appare chiara la critica empiristica al dogmatismo filosofico kantiano per quanto concerne i concetti di tempo e spazio; tuttavia la posizione epistemologica di Einstein non si appiattirà mai nell'accettazione incondizionata della metodologia positivistica. Quando quest'ultima influenzerà in modo sostanziale la formulazione della meccanica quantistica nascerà un contrasto durissimo tra Einstein e la scuola di Copenhagen. Il punto più alto del dibattito filosofico del nostro secolo verterà proprio su questi problemi. Ancora una volta la posizione di Einstein è resa con particolare trasparenza in una lettera all'amico Solovine del 30 Marzo 1952. Einstein scrive: "Ebbene, ciò che ci dovremmo aspettare, a priori, è proprio un mondo caotico del tutto inaccessibile al pensiero. Ci si potrebbe (di più, ci si dovrebbe) aspettare che il mondo sia governato da leggi soltanto nella misura in cui interveniamo con la nostra intelligenza ordinatrice: sarebbe un ordine simile a quello alfabetico, del dizionario, laddove il tipo d'ordine creato ad esempio dalla teoria della gravitazione di Newton ha tutt'altro carattere. Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall'uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado d'ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che, a priori, non si è per nulla autorizzati ad attendersi. E questo il ' 'miracolo ' ' che vieppiù si rafforza con lo sviluppo delle nostre conoscenze". Bellone ha molto opportunamente collocato accanto ai lavori più classici di Einstein sulla relatività, gli altri, non meno importanti, sulla fisi- '■bikA*^, ca statistica e sulla meccanica quantistica, ed in particolare il lavoro, condotto in collaborazione con Podolski e Rosen, che dà luogo alla antinomia "E.P.R. ": antinomia che sta alla base della discussa interpretazione della meccanica quantistica. Il volume si apre con una limpida introduzione del curatore, che riesce ad illuminare e chiarire i difficili problemi trattati nei testi. La raccolta degli scritti è divisa in sei parti. Nella prima parte si trova l'autobiografia del 1949. Nella seconda parte si trovano 15 scritti strettamente scientifici, che includono i saggi del 1905 sulla relatività ristretta, l'articolo del 1916 sulla relatività generale; l'ultima nota è del 1936 ed è intitolata: La deflessione della luce nel campo gravitazionale di una stella fa agire quest'ultima come una lente e dice quanto sia attuale il lavoro cosmologico di Einstein. La terza e quarta parte contengono rispettivamente scritti di divulgazione scientifica e di riflessione epistemologica. Le pagine dedicate a Politica e Società illustrano l'impegno civile di Einstein. L'ultima sezione del volume presenta una parte dell'epistolario di Einstein di cui abbiamo parlato all'inizio. La veste editoriale è impeccabile. lo avesse conosciuto nei suoi ultimi anni. Giancarlo Wick, torinese di origine, eminente personaggio della fisica teorica che ha trascorso alcune decine di anni negli Stati Uniti, aveva passato all'Institute un periodo, tra il 1915 e il 1952. Così qualche sera fa, a cena, gli ho chiesto se aveva conosciuto Ein- .O A, v tt Abbiamo chiacchierato nel suo studio, poi nel bar. Ecco più o meno quello che mi ha detto. D. Léon, eri a Princeton negli ultimi anni di Einstein. Cosa ricordi di lui? R. Ero un giovane scienziato, arrivato all'Institute for Advanced Study per un periodo di 5 anni nel 1949. Andai via definitivamente nel 1954, un anno prima della sua morte. A Princeton ebbi l'occasione di conoscere parecchie persone molto interessanti. Einstein naturalmente era in pensione, dal 1944, nel senso che non aveva più compiti ufficiali (l'unico compito prima del '44 era di partecipare alle riunioni dei professori, cosa che continuò a fare più o meno fino all'inizio del 1950). Veniva all'Institute abbastanza regolarmente, a piedi da casa sua, in Mercer Street, se il tempo era bello, sai, un paio di chilometri nel verde. Una figura molto nota, specie tra i bambini che lo aspettavano (c'era anche mio figlio). ti, e in genere i visitatori dell'Institu-te, a lungo-o a breve termine, rispettavano questo suo desiderio. Aveva un assistente personale, che cambiava ogni anno o due (quasi tutti i visitatori restavano solo un anno o due), e a parte questo vedeva pochissime persone. Ma avevamo una conoscenza in comune. Da Bruxelles ero stato raccomandato da un mio professore all'attenzione di un suo amico, il prof. Paul Oppenheim (da non confondere con Oppenheimer) anche lui tedesco, anziano, ebreo e fuggiasco. Era ingegnere chimico e viveva a Princeton. Si conoscevano dai tempi della Germania. Oppenheim andava tutte le settimane a prendere il tè da Einstein in Mercer Street, e un giorno mi disse che Einstein voleva vedermi. Avevano parlato di me, evidentemente. Così un giovedì andammo tutti e due a prendere il tè. La segretaria, miss Lukas, lo servì; io ero emozionato, era una esperienza straordinaria. Che anno era? Sarà stato il '52 o il '53. I due vecchi chiacchieravano vivacemente, in inglese perché a quel tempo la mia conoscenza del tedesco era rudimentale. Si parlava del più e del meno. Io mi ero limitato a rispondere alle domande gentili di Einstein. Ma alla fine, mi disse che voleva vedermi all'Institute, e combinò un appuntamento. Andai a trovarlo nel suo studio. Sapeva del mio lavoro perché ne avevamo parlato; ma era evidente che non lo interessava molto. In quella conversazione a tu per tu nel suo studio la mia parte fu molto breve, e non certo importante. Non era per discutere i problemi che allora mi appassionavano, che mi aveva chiamato. D. Ma ti occupavi con successo di meccanica statistica, cui lui aveva dato grandi contributi. R. Sì, naturalmente, nel passato. Ma la sua preoccupazione era la formulazione di una teoria fondamentale, di natura geometrica, che unificasse la gravitazione, (cioè la relatività generale) e l'elettromagnetismo, che era una teoria già perfettamente nota. Stava cercando di fare quello che adesso è di moda presso la nuova generazione, e con non maggiore successo! Ma, e ciò mi stupì molto, cominciò a parlarmi in grande dettaglio delle ragioni per cui non credeva nella teoria quantistica. Credo che fosse quella la ragione per cui voleva parlare con un giovane quale ero io. Era genuinamente interessato a spiegare le sue idee ad una persona di una generazione completamente diversa. Mi meravigliò immensamente. Il caso, come ho spiegato, mi aveva portato lì. I miei colleghi di allora non avevano avuto questa occasione. Una esperienza assai notevole e indimenticabile. Ero lì, uno della nuova generazione, nato con la meccanica quantistica nel sangue, e Einstein, che più di tutti vi aveva contribuito nel periodo iniziale, prima del '25, mi spiegava perché non la accettava come principio teorico fondamentale della fisica! Mi disse anche che non lo soddisfacevano i tentativi (che apprezzava) di modifica, come la teoria delle variabili nascoste, le onde pilota eccetera. La soluzione doveva essere molto più profonda. Continuava a tentare una via geometrica per unificare la relatività generale alle altre forme di interazione. Questo fu il soggetto della nostra conversazione. Io non potevo immaginare in quegli anni che i problemi di cui discuteva, i fondamenti della teoria quantistica e le teorie unificate, sarebbero rimasti problemi centrali per tanti decenni. A quel tempo sapevo appena dell'esistenza di questi problemi. Mi meravigliai che me ne parlasse. Fu così che imparai una certa quantità di fisica. Sì, c'erano stati seminari di David Bohm, che se ne occupava (Bohm era di sinistra ed ebbe guai con McCarthy; benché americano, se ne andò in Gran Bretagna). Ma ho imparato queste cose essenzialmente da Einstein. Una persona eccezionale. Del tutto eccezionale. D. Fu l'unico incontro? R. No, mi chiese di ritornare. Ci vedemmo forse altre volte. Dopo qualche chiacchiera sulle novità pubblicate o sui seminari, ritornava ai grandi temi che lo appassionavano. Era anche molto gentile. Parlava un inglese imperfetto interrotto da qualche parola particolarmente espressiva in tedesco. Mi espresse con molta chiarezza i suoi pensieri. Riteneva che una vera teoria unifica-