N. 6 pag. 28 j Clup. guide Algeria 476 pp., 24 carte, L 32.000 Kenia e Tanzania 272 pp., 16 carte, L 17.000 Tunisia 372 pp., 18 carte, L 22.000 Egitto 336 pp., 25 carte, L 24.000 Corsica 300 pp., 16 carte, L 16.000 Irlanda 304 pp., 14 carte, L 18.000 Parigi 308 pp., 23 carte, L 23.000 Londra 336 pp., 18 carte, L 21.000 Mosca e Leningrado 336 pp., 13 carte, L. 20.000 Budapest 256 pp., 18 carte, L 20.000 Praga 280 pp., 9 carte, L. 20.000 Berlino 332 pp., 6 carte, L 25.000 Venezia 212 pp., 17 carte, L. 20.000 Cuba 380 pp., 19 carte, L 22.000 Messico e Guatemala 522 pp., 12 carte, L 25.000 Nicaragua, Costa Rica e Panama 226 pp„ 8 carte, L. 14.000 Perù e Bolivia 480 pp, 16 carte, L 27.000 Brasile 608 pp, 34 carte, L 35.000 Indonesia 360 pp, 16 carte, L 22.000 Sri Lanka e Maldive 288 pp, 8 carte, L 16.000 USA 488 pp, 14 carte, L 22.000 Manhattan 286 pp, 22 carte, L 22.000 Tibet 260 pp, 18 carte, L 20.000 Turchia 480 pp, 36 carte, L 26.000 India 710 pp, 38 carte, L 36.000 Nelle migliori librerie Uno, cento, mille teatri di Ferdinando Taviani La Commedia del Settecento, a cura di Roberta Turchi, tomo I, Einaudi, Torino 1987, pp. 576, Lit 28.000; tomo II, ivi, 1988, pp. 475, Lit 26.000. Il Teatro italiano del Settecento, a cura di Gerardo Guccini, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 414, Lit 40.000. Questa curata da Guccini è un'antologia "d'autore": invece di ricapitolare un sapere stabilizzatosi nella Non era un teatro, erano teatri. Passare alla comprensione storica di questo plurale implica, innanzi tutto, l'abbandono d'una vecchia leggenda sul Settecento, resistentissima, presso gli storici della letteratura che si occupano di spettacolo. La leggenda racconta che nel XVIII secolo si sarebbero contrastate due forze opposte in un unico campo: la senescente commedia dell'arte e la nuova idea d'una riforma teatrale. La prima avrebbe vissuto il suo ul- difatti, è inconsistente: racconta soltanto la storia delle discussioni dei drammaturghi, dei letterati, dei trattatisti, ma immagina di riassumere, invece, la storia dei teatri. È lo schema che ancora regge la peraltro utilissima silloge curata dalla Turchi. Ma si osservi la correzione d'ottica operata dal volume di Guccini: il carattere unitario della problematica teatrale non è, qui, un presupposto, ma una linea di tendenza che attraversa un reticolo teatrale strutturalmente disomogeneo, composto di ambienti spettacolari diversi, da distinti livelli produttivi, da statuti culturali spesso non dialoganti. La sorpresa è costituita da ciò, che in quest'ottica si rivela come la forza concretamente Sul gran teatro del potere di Roberto Tessati Sara Mamone, Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina: Maria de' Medici, Silvana, Milano 1989, pp. 279, Lit 80.000. Già comparsa in edizione limitata nel 1987, viene ora offerta ad un pubblico più vasto quest'opera di Sara Mamone. Studiosa di spettacolo formatasi alla scuola di Ludovico Zorzi, l'autrice delinea — sulla scorta di una documentazio-[ ne iconografica ricchissima e variegata, che va dalle stampe popolari del periodo al ciclo ruben-siano in onore della sovrana — le complesse articolazioni delle "regie" cerimoniali e delle vicende "impresariali" che ebbero al loro centro (tra il 1600 e il 1619) la principessa fiorentina divenuta sposa di Enrico IV e madre di Luigi XIII. Attraversando la più ampia gamma di documenti archivistici, letterari e soprattutto figurativi, il saggio, secondo l'apertura prospettica tipica della metodologia di derivazione zorziana, illumina i fenomeni spettacolari come sintesi di diversi fattori materiali, resi eloquenti da più linee di lettura, ognuna fondata sul rigoroso rispetto del suo ambito specialistico di intervento. Ne derivano proposte interpretative che investono molti settori d'indagine: offrendo, per esempio, nuove ipotesi ermeneutiche su talune zone d'ombra del progetto pittorico di Rubens, oppure interventi attributivi in grado di contestare con valide ragioni paternità artistiche accreditate da un pigro convenzionalismo, o ancora, per quanto riguarda da vicino la storia del teatro, puntualizzazioni incisive, come quella che individua nitidamente le distinzioni di campo tra l'attività degli attori italiani e quelle dei francesi nella Parigi del primo decennio del Seicento. Queste linee di ricerca si ricompongono poi nella ricostruzione delle complesse "strategie di spettacolarizzazione" messe in atto dai centri di potere economico e politico. Maria de' Medici, prima osservatrice e poi protagonista e ispiratrice di alcune varianti esemplari di queste strategie, costituisce un prezioso punto di riferimento per mettere a fuoco la convergenza di due tradizioni teatrali e cerimoniali: quelle, appunto, sperimentate e codificate sin dagli albori del Rinasci- mento dalle corti di Firenze e di Parigi. Maria costretta, per la sua posizione, a recitare il ruolo di preziosissima pedina sullo scacchiere di giochi dinastici dominati da "sceneggiature di ferro", dispensa un vero e proprio impegno professionale nell'apprendere e nel gestire questo ruolo, trasformandosi da semplice primattrice del gran teatro del potere in oculata impresaria sia della spettacolarità di corte sia delle più specifiche prestazioni teatrali dei comici italiani. Fu, del resto, particolare privilegio della "regina delle due capitali ' ' sperimentare i moduli operativi più paradossali e sottilmente rivelatori della ' 'macchina di immagini ' ' destinata a sostenere il dominio aristocratico secentesco. I massimi apparati cerimoniali che la videro co-protagoni-sta — il matrimonio con Enrico IV, il viaggio verso la reggia parigina, i funerali del sovrano consorte — intendevano infatti configurarsi come lussuose finzioni teatrali che, sovrapponendo al volto reale degli attori maschere di divinità e di mitici eroi, nascondessero le individualità reali e le assumessero in una sfera di rappresentazione simbolica del potere. Nel caso di Maria, l'esperienza iniziatica d'una simile "perdita della soggettività a fini politici "fu sempre segnata anche nelle scenografie dei riti nuziali, da un sovrappiù di casuale malizia: l'assenza fisica del partner con cui dialogare. Trattenuto da impegni militari, Enrico IV non partecipa né ai propri sponsali fiorentini, né al "banchetto degli dei" che ne dovrebbe costituire l'acme spettacolare. Poco importa. La macchina dell'immaginario aristocratico non può smettere di funzionare: la donna, appena divenuta regina, si specchia nella maschera di Giunone, e festeggia l'evento tra le statue di zucchero che riproducono sia il re "andante a cavallo" sia una dovizia di controfigure del sovrano in sembianza di Ercole vittorioso. Nel teatro del potere il trucco non ha necessariamente bisogno di un'anima né di un volto. storia degli studi, costruisce il suo discorso nuovo usando come tasselli numerosi brani critici settoriali, montati e legati in modo da tratteggiare forse per la prima volta un quadro storicamente credibile del teatro italiano settecentesco. Parrà strano che si dica "forse per la prima volta", trattandosi del teatro di Goldoni e d'Alfieri, di Metastasio e Carlo Gozzi. Ma del contesto spettacolare in cui si inserisce l'opera di questi classici permane un'immagine imprecisa. Una volta letti da capo a fondo, per esempio, i due volumi curati da Roberta Turchi, la storia di quel teatro continuiamo a non capirla. Il problema nasce dal fatto che continuiamo a pensare il teatro al singolare. timo fuoco di paglia per il genio di Carlo Gozzi e delle sue Fiabe. La seconda, dopo inizi difficili e tentennanti, avrebbe visto il suo trionfo con Goldoni, pur imbastardendosi un po', sul finire del secolo, col repertorio francese, le commedie "la-grimose", le tragedie borghesi, i drammi romanzeschi. È uno schema semplice: progresso contro conservazione (oppure — che è lo stesso — il contrario: pianificazione contro fantasia). È collaudato: lo inventarono gli stessi riformatori settecenteschi. E scolasticamente chiaro. Ripetuto e variato infinite volte, diventa il simbolo delle nostre scarse conoscenze dalla storia teatrale del periodo. Dal punto di vista del buon senso storico, operante per una riunificazione delle problematiche teatrali: non l'astratta — e per lo più nominale — idea di Riforma, ma una "progressiva riorganizzazione della vita mondana, che fini per riunire in un'unica sfera operativa [...] riunioni accademiche, iniziative editoriali, rappresentazioni dilettantesche e gestioni teatrali", favorendo, fra l'altro, l'attività di "aristocratici e notabili a favore di comici, cantanti, danzatori, librettisti" (p. 12 del saggio introduttivo al volume di Guccini). Teatro scritto e teatro agito; teatri pubblici da una parte, e teatri di collegio, d'accademia, di salotto dall'altra; teatri cittadini e teatri itineranti; teatri festivi e teatri quotidiani si confrontano e confondono le proprie pratiche e le proprie diverse lingue di lavoro in una situazione culturale frammentata e spesso rissosa. Da una tale confusione di voci giungono con maggior forza ai posteri quelle articolate in discorsi teorici, le voci degli scrittori. Ma la tensione storicamente fondamentale va probabilmente riconosciuta nel contrasto fra teatri che vivono in condizione d'autonomia e teatri commerciali. Meno preciso sarebbe dire: "fra dilettanti e professionisti", sia perché il termine dilettanti evoca immagini che mal s'adattano a quel che Guccini definisce giustamente come un vero e proprio "laboratorio diffuso"; sia perché il termine "professionista" implica una specializzazione che certo non caratterizza i soli teatri commerciali. Ancor più in profondità, bisogna forse riconoscere un grave degrado dell'arte dell'attore, priva quasi totalmente di guide (gli attori e le attrici-guida del periodo sono inglesi e francesi), generalmente incapace di risolvere secondo i propri principi il problema dei rapporti con gli spettatori. Degrado dell'arte dell'attore, confusione di lingue, fratture fra teatri diversi, scarsa comunicazione fra teatri autonomi e teatri commerciali sono tutti elementi che — malgrado le più vistose differenze — rendono profondamente simile il teatro settecentesco al teatro di questi nostri anni. Forse per ciò lo sentiamo vicino ed estraneo, facile a incuriosire e difficile da capire. Può darsi che sia questa una delle ragioni della strana persistenza della vecchia leggenda storiografica, incongruente ma ancora comoda per sorvolare le difficoltà. L'incongruenza si rivela appieno quando quel vecchio contenitore viene riempito d'un'informazione seria ed abbondante, come è quella raccolta da Roberta Turchi per corredare la sua scelta di commedie (Gigli, Nelli, Maffei, Trincherà, Chiari nel primo volume, Gozzi, Albergati Capacelli, Pepoli, De Gamerra, Federici nel secondo, chiuso, non molto giustifica-tamente, dal testo per la pantomima giacobina del Salfi, Il Generale Colli a Roma). Alcuni anni fa, la Turchi aveva ripubblicato, con una scelta intelligente e benemerita, il romanzo settecentesco di Antonio Piazza II Teatro, ovvero fatti che lo fanno conoscere (con il titolo editoriale L'Attrice, Guida, Napoli '84). Subito dopo, dalla multiforme vita comica è però rifluita all'ordine apparente della tradizione scolastica con il volume La Commedia del Settecento (Sansoni, Firenze '85) molte pagine del quale passano identiche nelle introduzioni ai singoli autori dell'antologia einaudiana. Sono libri che per la ricchezza dell'informazione bio-bibliografica sarebbe ingiusto deprezzare, ma che — come s'è detto — restano deludenti. Nei due tomi einaudiani, i singoli testi non riescono ad entrare-in contatto, a reagire l'uno con l'altro, mentre le introduzioni generali sono disorientate: invece di introdurci alla materia, svolgono le due metà d'un saggio su Goldoni indebolito da innumerevoli ed obbligate sfrangiature. Le appendici di documenti sulla vita teatrale raccolgono manciate di frammenti d'ogni tipo, senza alcuna nozione di contesto, fino all'estrema confusione, quando nel caso di Gozzi si salta dal Settecento al Novecento, antologizzando brani che si riferiscono a regie moderne delle sue opere (quella di Vachtangov del 1922 e quella di Strehler del '49). Qui la curatrice paga colpe in parte non sue: l'impostazione della collana einaudiana, infatti, solo raramente permette un uso non vagamente feticistico e insieme ancillare dei frammenti documentari, appendici al florilegio drammatico, insufficienti a dotare di spessore storico-teatrale P