n 6 LINDjCF pag5 HHof libri del meseBB re e scomparire. Di Saraccini si enunciano formazione, studi, amori, gusti. Ma i suoi monologhi interiori non sono affatto interiori. La sua vita "privata" non esiste. Perché? Credo per la, d'altronde nobile e avan-guardistica, ripugnanza di Volponi ad accettare una story. Ne viene che al fallimento di Saraccini non si accompagna nel lettore né pietà né stupore né senso di giustizia o di ingiustizia. Egli non è, in questo senso, "interessante". Quel che invece è "interessante" (e quanto!) è la congerie da demenziale enciclopedia che si rapprende intorno a uno dei punti essenziali della nostra società, il potere industriale. Dovessi piuttosto dire quello che mi pare il limite di questo libro straordinario, ripeterei, variandola, la osservazione fatta poco sopra sulla mancanza di un punto esterno: l'assenza di un grado zero narrativo a partire dal quale valutare e avvertire convenientemente le escursioni termiche dell'ardore espressivistico, delle parodie, delle palabre insensate. Ci sono, è vero, parti nelle quali la quota del falsetto e della eloquenza sarcastica pare diminuire, parti di raccordo e strumentali; ma proprio perché sono di raccordo e strumentali non si capisce chi, in quelle, stia parlando. Che si tratti di una delle contraddizioni secolari fra romanzo e avanguardia? Credo proprio di sì. Per questo Volponi è "moderno" e non "postmoderno". Egli lavora ancora all'interno di quella contraddizione, può voler convogliare i materiali più eterogenei ma vuol essere lui, con la voce sua, rauco Orfeo, a trascinarli. E pretende dal lettore una resa senza condizioni. Non c'è mai un "altro". Questa è la sua frontiera. Questo scrittore tutto oggetti e cose corpose, il sospetto ti coglie che 'la realtà gli si risolva in verbo, com'è ai suoi inconsapevoli capitalisti. In questo senso qualche maligno ha potuto dire che nelle Mosche, attraverso l'esaltazione della Cosa e della sua Natura Corporea sembra esserci, in ultima istanza, una apologia del Capitale. Non però di quello odierno, capitale finanziario, ma di quello di un passato ancora non remoto, dei capitani d'industria e magari di rapina, dei "titani" sanguigni o crudeli, con i loro istinti animali, cui si potevano contrapporre simmetricamente gli operai e i contadini leniniani e gramsciani. A p. 67 nel corso di una descrizione qualsiasi scatta un tipico "scarto" volponiano: "la parte di vetro sul buio esterno, chimico ma fermo". Un trasalimento, noncuranza per i nessi razionali. Perché "chimico ma fermo"? Infatti il medesimo nesso "chimico ma", sebbene più verisimile, si ritrova a p. 215: "Un piccolo verde chimico ma vibrante". Dove è chiaro che "chimico" nulla o pochissimo ha a che fare con la chimica dei colori ma viene introdotto per movimentare la descrizione col brusco dislivello di una inattesa metafora. Ebbene, mi pare che questo procedimento si ripeta costantemente, con l'introduzione di effetti di sorpresa e sconcerto non solo nelle enumerazioni (con improvvisi salti nelle catene sinonimiche) ma anche negli "stacchi" dei dialogati e degli episodi, non senza evidenti eredità surrealiste (ad esempio, a p. 217: "l'intrico della moquette, là dove s'annida brulicante il più corposo come il più astratto pessimismo") e nelle gesticolazioni, o perorazioni. Beninteso esiste qui, a tratti, una sottospecie di procedimento sintattico neutro e tranquillizzante; ma ha funzione di raccordo fra le due tonalità dominanti, quella dialogica e quella monologante o 'caotica". Anzi il tessuto è ancor più ricco e complesso: perché gli effetti di scarto" e di sorpresa crescono fino a diventare inserti spesso di consi- stente durata, vere e proprie échap-pées o fughe prospettiche, come nella interlocuzione di oggetti e animali, tal volta poco motivati (come nel caso della "operetta morale" dove dialogano Luna e Calcolatore) ma più spesso efficacissimi, come nei discorsi dei ficus e del pappagallo. Tali inserti (e vi aggiungerei certi travestimenti da film storico televisivo che persone e luoghi subiscono di tanto in tanto) hanno una funzione decisiva, già presente in precedenti opere di Volponi: vogliono fare incombere una dimensione cosmologica amplissima sopra e intorno alla meschinità della vicenda. Hanno la funzione di inserire, come in certi Klee, una freccia centrifuga a lato di un formicolio pre presente, è quasi come una difesa del pudore, spesso col compito di conferire alla pagina una sorta di fondu des maìtres. Sono assenti invece la distanza indolente e la flessibilità appena cinica del postmoderno, che dalle proprie citazioni può anche staccare l'etichetta del secolo, come si fa con quella del prezzo, poi che tutto è presente e per sempre. In questo, Volponi è più di ieri (o di domani) che di oggi. Né questo è un giudizio di valore. Le sue figurazioni e immagini "positive" sono, o sono state nella sua vita, quelle centroita-liane di contadini e cittadini "civili" ovvero di operai qualificati evoluti e combattivi, insomma il comunismo libertario dei tempi di "Officina" e pre crescente) avrebbe un po' di che preoccuparmi — come sintomo politico — ne fossi stato l'autore. O fosse invece uno dei segni della insofferenza crescènte di una parte della società italiana, quella almeno che legge i nuovi romanzi, verso le menzogne ufficiali dello scorso quindicennio e ormai insopportabili? Non ho altre doléances nei confronti di questo libro bellissimo. In tutta la parte dialogica domina lo spirito del teatro. Penso quel che seri attori comici potrebbero ricavare eseguendo alla lettera alcune di queste pagine, i monologhi sopratutto. C'è qui il genio del comico e del grottesco. D'altronde, Volponi ci aveva già avvezzi a certa sua scrittura Opere di Gualtiero De Santi Paolo Volponi nasce alla letteratura come poeta. Ilsuo primo libro, Il ramarro, è una rac-coltina di liriche trapassate da una naturalità emotiva e pulsionale, su cui convergevano influssi stilistici post-ermetici. Impresso nel 1948 a Urbino, sua città natale, grazie alle cure del locale Istituto d'arte, il volumetto si fregiava di una presentazione dell'intellettuale più noto che allora operasse nel centro feltresco, Carlo Bo, che si pose il problema di cosa sarebbe potuta divenire la scrittura di Volponi nell'ambito di tanta libertà nativa. La risposta giunse in qualche modo dal lavoro degli anni successivi, con il distacco da Urbino e la frequentazione di scrittori all'avanguardia come Vittorini e Pasolini. Soprattutto Pasolini chiarirà a Volponi i caratteri della sua ispirazione. Del '55 è ancora una raccolta di liriche edita dalla Vallecchi, L'antica moneta, il cui titolo suggerì a Giorgio Caproni una sorta di appressamento a cose ad un tempo vicine e lontane. Intanto alcune liriche della nuova stagione volponiana comparivano nelle riviste che negli anni '50 tiravano le fila del dibattito culturale: "Paragone", la mitica "Officina". Il risultato di un così intenso fervore intellettuale si vedrà per Volponi ne Le porte dell'Appennino (Feltrinelli, '60), al quale viene attribuito il premio Viareggio 60 per la poesia. L'incarico di direttore dei servizi sociali presso la Olivetti di Ivrea spinge Volponi all'esperienza del romanzo. Le contraddizioni della grande fabbrica, la difficoltà di integrazione, il conflitto con il vecchio mondo sono al centro di Memoriale (Garzanti, 1962), libro esemplare di una fase della nostra cultura guidata al confronto con il mondo dell'industria, ma non riducibile a tale dimensione. La scrittura lirica e intimamente necessitata di Memoriale impose la figura di Vol- poni: il breve romanzo si vide attribuire il Premio dei librai milanesi e il premio Selezione Marzotto. La funzione attiva e dialettica dello strumento linguistico, volto a penetrare e sondare un universo umano frantumato dal trauma del nuovo ordine industriale e sociale, torna ne La macchina mondiale (Garzanti, 1965), il cui titolo, ripreso dalla letteratura scientifica del Seicento, sta a indicare il grande meccanismo del cosmo e l'inganno del mondo. A ciò si oppone la solitaria, folle e divina battaglia di Anteo Cro-cioni, che replica autonomamente la "diversità" irredimibile del protagonista di Memoriale. Dopo questo libro, vincitore del premio Strega, P. Volponi toma alla narrativa con Corporale (Einaudi, 1974), dove realtà sociale e impulsioni psichiche si definiscono nel punto d'incontro della base corporea. Nel libro successivo, Il sipario ducale (Garzanti, 1975), premio Viareggio per la narrativa, è raccontata la strategia della tensione. Il pianeta irritabile (Einaudi, 1977) si svolge come una sorta di apologo sui destini della terra, mentre II lanciatore di giavellotto (Einaudi, 1981) ripropone liricamente il contrasto tra tensioni viscerali e ideologia nell'Italia del fascismo. Intanto Volponi ha ripreso a scrivere poesie. Risale al 1980 una silloge curata da chi scrive, Poesie e poemetti 46-66 (Einaudi), che ingloba materiali delle raccolte precedenti più Foglia mortale (Bagaloni, 1974) e due inediti. Il risultato più clamoroso di questa riconversione all'espressione poetica è al momento affidata a Con testo a fronte (Einaudi, 1986), vincitore del Mondello, che per le marcature prosodiche e metriche appare decisamente innovativo. Infine un libro di prose, Cantonate di Urbino (Stibu II Colle, 1985) e questo ultimo, grande romanzo. di segni centripeti. Tutto questo si fonda sulla ricchezza di una inesauribile festa verbale. Un perpetuo overstatement, un rigoglio di scherzo, situa questo libro nella illustre famiglia delle narrazioni tendenzialmente enciclopediche. Poi che la letteratura esiste, almeno facciamola bene. E questa è fatta benissimo. Non è perfetto l'episodio di Telesforo Fondelli (p. 247-49)? E oltre al magnifico monologo di Donna Fulgenzia (p. 168-69) non è altrettanto esemplare il ritratto d'epoca delle pagine 256-57? Parlavo di "fughe" centrifughe. Ma in definitiva quelle linee tendono a curvarsi, come nello spazio einsteiniano, e tutto torna a farsi incastro e conglomerato. Quel che non è dentro, non c'è e ba-a. Non c'è spazio per sottintesi, olponi ha quella che trent'anni fa Hugo Friedrich chiamò "fantasia dittatoriale" e che vedeva presente in tanta poesia moderna. Moderna, non postmoderna. Né è questione di etichette. Se una quota di manierismo, lo ripeto, è qui sem- È del Pasolini delle Ceneri. Di qui si può intendere anche la sua sincera esaltazione di Adriano Olivetti. E anche per questo la rappresentazione dei rapporti di classe è, nel romanzo, anacronistica rispetto alla datazione degli eventi. Ma perché introducendo la vicenda dei cinquantasette della Fiat (pp. 226-27) presenta le proteste come risibili, dovute a "filosofi, poeti e sindacati"? Non è egli un poeta? Ah, nel giro di un ventennio tutto è cambiato, i Tecraso sono in galera anche grazie a leggi speciali tuttora esistenti (e fortemente volute, bisogna rammentarlo, dal partito cui Volponi aderisce), i Saraccini invecchiano nelle loro ville di Maremma, dove hanno in parte investito qualche lauta liquidazione. "Il sonetto è tornato di moda" dice, a p. 259, il "marxista-leninista sartriano maoista ecc." Vorrei dire a Volponi che c'è pochissimo da ridere, è prof prio così. Il suo romanzo non è un so| netto e neanche una raccolta di sonetti; ma il suo successo (che non posso fare a meno di augurargli sem- carnivora. Più che Céline o Gadda rammenta Basile, Grimmelshausen, Cervantes o Hrabal. Si ride leggendo; non sempre amaro, anzi. Per riferirsi a due nozioni correnti: hai il carnevalesco, non la polifonia. Come nella pittura del manierismo, fino ai tardi carracceschi, la ripetizione dei moduli fisiognomici e di certe soluzioni iconografiche induce a una somiglianza fra le figure principali e le secondarie della scena sacra o mitologica o storica e anche fra queste e quelle di secondo o di terzo piano e fino alle ultime che si agitano sulle vedute di boschi castelli acque rovine; o come in certi cata-strofisti tedeschi dell'espressionismo anni venti, in interni di appartamenti dove ci si accoppia, ci si ammazza o suicida, tra notturne muraglie sghembe dove vanno folle minuziose e bestiali, così in queste pagine la indistinzione degli esseri, indotta da un'eguale modo di lumeggiare i panni, arcuare i polpacci, schiudersi le bocche, indica una prevalenza della specie sul genere, della corporeità sulla intelligenza individualizzante. La riduzione dei volti a fantocci e dei discorsi a "lazzi" da Commedia Improvvisa, luogo ben noto del nichilismo antiumanistico, qui è segno della reificazione universale, di fine di ogni fine. Né sono solo i dirigenti industriali a far uso di eloqui quasi intercambiabili: dai loro non troppo differiscono gli effati delle piante, dei quadri, dei mobili d'ufficio o del pappagallo, anche se a quest'ultimo la mitologia esopica di Volponi riservi una condizione di privilegio, come a chi ha conservato una relazione con le foreste sconfinate e il mondo, vero 0 mitico, d'altra umanità. L'assenza di mimesi naturalistica dei discorsi ossia di loro individuazione, quella che dico assenza di "polifonia" (anche Tecraso parla la lingua dei suoi nemici di classe) nel teatro d'altri secoli era indotto, spesso, dalla versificazione o, soprattutto nello scorso secolo, dall'effetto omogeneizzante delle traduzioni. Come Svevo nelle sue prose, genialmente anche Pirandello ha fatto parlare i personaggi dei suoi drammi in una lingua neutra e media che "dice" la loro facticité. Il "finto parlare" dei personaggi di Volponi è allegorico di una irrealtà, come lo sono i discorsi dei generali dello zar in cospetto a Kutusov. E ef-fetto-irrealtà che il Capitale induce quanto più si pretende Cosa-In-Sé. Quei dirigenti, nel romanzo, parlano senza posa, progettano, contendono; ne conseguono mutamenti minimi o magari catastrofici per gli individui e 1 gruppi ma si ha l'impressione e finalmente la certezza che le vere leve siano mosse altrove, non si sa bene da chi, probabilmente dalle quotazioni di Borsa. Per esempio, della celebre Marcia dei Quarantamila — che qui è un pezzo, come si suol dire, da antologia (p. 262-265) — si afferma, di passaggio, che è stata organizzata, non senza contrasti, dalle dirigenze della Fiat; ma nel libro (né è il solo caso) è situata come una parentesi estranea al gran fiume di chiacchiere delle maschere maggiori. Ma anche il discorso del Narratore, che pur vuole essere voce "vera" opposta alla "falsa", con le sue accumulazioni, accelerazioni e collane di asindeti, con lo "straparlare" beffardo e sadico dell'invettiva e con le ' 'tirate" anch'esse di eloquenza pantagruelica, da Balanzone o da Dulcamara, si fa controparte al vaniloquio dei ciechi potenti, vi si intride. E questo, se per un verso può indurre dubbi sul grado di consistenza reale dell'animus dell'autore-militante e interrogativi (in questa sede affatto illeciti o superflui) sul suo "inconscio politico", per un altro è trionfo di una verità poetica potente: l'orbita raffigurata, il fato sociostorico, insieme alle maschere travolge anche quella dell'autore. Saraccini è presentato come intelligente, colto, maturo e abile: il suo insuccesso non è dovuto a mancanza di capacità. Gli accenni a remore intellettuali o morali che gli impedirebbero di adeguarsi fino .in fondo al-l'ethos dei massimi padroni e che questi fiutano fino a trovarvi motivo per rimuoverlo o diffidarne sono, a dire il vero, poco persuasivi. Vogliamo leggere nella sua storia quella del riformista intellettuale kennediano ritardatario ecc., che viene schiacciato dalla macchina implacabile ecc.? Ma Volponi non ha voluto dargli la profondità e la consistenza di un eroe bastonato. Dev'essere il lettore, allora, a capire e giudicare? Non c'è un eccesso di fiducia nei lettori? Bastonato com'è, senza essere eroe, è difficile non pensare (Renzo Zorzi lo ha scritto in un infelice regolamento di conti che ha voluto demolire venticinque anni di lavoro di Volponi ed è una delle poche cose accettabili del suo lungo scritto) che Saraccini sia — come Nasàpeti pensa di lui — un po' »