N 6 LINDICF pag 4 ■■dei libri del mese■■ Liber Quasi cinque anni ci separano dal primo numero de "L'Indice", aperto da due brevi editoriali. Da allora abbiamo preferito non bombardare i nostri lettori con prese di posizione e comunicati. Se oggi interrompiamo questa modesta tradizione, cui pure siamo affezionati, è perché l'occasione lo merita. Infatti, in occasione del Salone del Libro di Torino, il 13 maggio 1989, è stato dato il seguente annuncio: "La 'Frankfurter Allgemeine Zei-tung', 'L'Indice', 'Le Monde' ed il 'Times Literary Supplement' hanno deciso, salvo dare forma legale all'accordo, di pubblicare insieme una rivista culturale europea, dal titolo 'Liber'. 'Liber' comparirà regolarmente come supplemento in ciascuno dei quattro giornali. Il modello e il contenuto saranno identici in ciascuna lingua. Lo scopo di questa nuova iniziativa congiunta è di raggiungere il pubblico europeo attraverso recensioni ed articoli sui più recenti risultati della ricerca e della attività artistica, e di proporre così una sede autenticamente europea per lo scambio intellettuale. La redazione della rivista sarà a Parigi. Il comitato di direzione sarà composto da: Pierre Bourdieu (presidente), Thomas Ferenczi (redattore culturale di 'Le Monde'), Gian Giago-mo Migone (direttore de 'L'Indice'), Frank Schirrmacher (responsabile culturale del FAZ), Jeremy Treglown (direttore del TLS) e Catherine Cul-len'(redattore capo)". C'è un proverbio svedese che dice: "Non gridare evviva prima di aver saltato il ruscello " ("Ropa inte hej fórràn du hoppat over bàcken"). Non abbiamo ancora in mano la prima copia di "Liber" da sottoporre al giudizio dei lettori. Possiamo dire che stiamo facendo del nostro meglio, ormai da circa due anni, perché il prodotto finale sia all'altezza del prestigio, delle capacità e delle energie che vi sono investite. È evidente che non parliamo di noi stessi, ma di Pierre Bourdieu — ispiratore e coordinatore di "Liber" — che esprime quell'elemento di sovrannazionali-tà senza il quale ogni impresa di questo tipo è solo una semplice sommatoria di elementi più o meno eterogenei-, e dei nostri colleghi di grandi testate, già ricche di tradizione, che con la loro tiratura consentono di offrire "Liber" a oltre un milione di lettori in tutta Europa. Per i lettori de ' 'L'Indice ' ' la presenza bimestrale di "Liber" non costituirà soltanto un 'occasione di informazione e di aggiornamento sui libri pubblicati in Europa. La nostra ambizione, quella di "Liber", è di costituire una sede di confronto e di verifica, capace di formare una readership, un corpo di lettori, europeo. Ciò non significa trattare solo temi generali e, ancor meno, impegnarsi in una ricerca di una più o meno nebulosa identità europea: nell'intento di coinvolgere tutti, si rischierebbe di non interessare nessuno, come spesso capita in questi casi. Come ama dire proprio Bourdieu, il problema è piuttosto quello di prestare attenzione alla ricerca e alle espressioni artistiche solo apparentemente locali e settoriali, ma che, per originalità e interesse, meritano la più ampia diffusione. Un'ultima osservazione: il perimetro di "Liber" non si limiterà ai quattro giornali attualmente impegnati, insieme con la redazione parigina. Noi pensiamo ad un 'Europa assai più vasta, in cui il superamento della spartizione avvenuta dopo la Seconda guerra mondiale produrrà effetti anche culturali non trascurabili. Il cammino è appena iniziato, ma è importante conoscere la direzione in cui intendiamo muoverci. (g.g.m.) Il Libro del Mese Contro il delirio verbale del potere di Franco Fortini Paolo Volponi, Le mosche del capitale, Einaudi, Torino 1989, pp. 279, Lit 28.000. Successo di pubblico e applauso di critica (con poche eccezioni) mi esentano dal presentare questo libro. Comunque: fra 1979 e 1980, il quarantacinquenne professor Bruto Sarac - vo. Hanno però in comune la certezza che il centro della realtà e verità abiti le buie viscere, dov'è il nodo tra fantasmi della mente e materia biologica. Nella Morante per una capitolazione catastrofica ed estatica, in Volponi per una aggressiva rivendicazione della corporeità di oppressi e di entità non umane diretta contro il modelli, giù per la gerarchia, fino al livello impiegatizio, ai tecnici e agli operai. Bruciato sulla sedia elettrica del nostro secolo, il pathos romanzesco dell'avventura bancaria o industriale (che fu del tardo verismo europeo e americano fin verso gli anni venti) non più di avventura oggi si tratta ma di un parapiglia di mostri- preliminari di Clio Pizzingrilli* Non sarà noto a molti che un'anticipazione delle Mosche del capitale, cinquanta pagine circa, è apparsa l'autunno scorso sulla rivista "Mar-ka": frammenti di capitoli presentati con l'intento di mettere in vista uno stile robusto, difforme, visionario e analitico — annuncio della potenza linguistica del romanzo. Il manoscritto era assai corposo — forse il doppio dell'attuale libro — e presentava evidenti tracce di considerazioni successive, intimi dissidi, dubbi, incertezze, annotazioni, indicazioni varie di possibili riscritture. Dopo una prima lettura, rapida ma intensissima — dalla quale non poteva che risultare il convincimento di indurre lo scrittore a portare a compimento il romanzo — Volponi decise bruscamente di rinunciare all'impresa, interrompendo subitissimo la faticosa opera di redazione. Il tormento di Volponi non era di facile soluzione: egli teneva al libro, consapevole della fermentante materia di cui gli era riuscita la presa, temeva tuttavia di venire frainteso; la preoccupazione era che lo spessore e l'intensità dei racconti potessero essere ridotti, per calcolo, ad una specie di trattato di sociologia industriale e metropolitana. Questo pensiero, una certa irrequietezza connaturata al dubbio, più in generale la coscienza della dispersione e fragilità delle comunità di opposizione allo stato di cose presenti, avevano indotto lo scrittore a tener fermo il romanzo per molti anni. Se esiste, dunque, un merito della rivista, è tutto e unicamente nell'aver contribuito a separare dallo scrittore la sua creazione. Il lavoro di rilettura, avviato all'inizio dell'estate, si faceva di giorno in giorno più difficile e affascinante: frequenti viaggi fra Urbino e Ascoli Piceno, telefonate, discussioni, ma anche indimenticabili serate spese a far progetti o a far niente. Il mano- scritto si andava sfoltendo ma, nello stesso tempo, come da un cilindro magico, Volponi tirava fuori sempre nuove pagine, appuntì, addirittura nastri registrati, che rimettevano in circolazione la trama e la scena, arricchendo a dismisura le concordanze o discordanze stilistiche. In linea di massima, nelle Mosche del capitale prendevano luogo due romanzi: l'uno raccontava il caso di Bruto Saraccini; l'altro, quello di Tècraso. Via via le vicende si intrecciavano, pur restando in qualche modo parallele, sicché un affresco meraviglioso cominciava a essere ricomposto dall'autore. Alla fine dell'estate, il romanzo aveva raggiunto un suo equilibrio, ma non ancora definitivo: iniziò allora un'ulteriore fase di riconsiderazione tutta mirata, questa volta, alla leggibilità degli avvenimenti, per rendere più espliciti i passaggi e i personaggi della storia. In autunno usciva il numero di "Marka" e Volponi andava concludendo il libro. Per la rivista si è trattato di una entusiasmante esperienza formativa: poter assistere uno scrittore, che pone interrogazioni fondamentali a sé e agli altri, è stato come prendere parte, in un arsenale, alla fabbrica di una colossale arca. Un'esperienza privilegiata — fondata bizzarramente sul dialogo fra piccolo e grande, sul rapporto fra grande letteratura e piccoli apparecchi del pensiero e della scrittura — che ha dato vita a una doppia marca. Da quel momento, infatti, la rivista e il romanzo si sono staccati in perfetta autonomia, pur conservando il senso di una comune ricerca. * Abbiamo chiesto a Clio Pizzingrilli, direttore della rivista "Marka", di spiegare il modo in cui lui stesso e la sua rivista sono stati coinvolti nell'elaborazione del romanzo di Paolo Volponi. cini, dirigente in una industria (che somiglia alla Olivetti), viene cooptato dal Presidente Nasàpeti come Consigliere Delegato. Scontento delle difficoltà che incontra, passa ad un'altra industria (che somiglia alla Fiat), reame di Donna Fulgenzia. Siamo fra il 1979 e il 1980. Quando la grande industria vuole disfarsi di cinquantasette operai contestatori, uno di questi, Tecraso, finisce arrestato e condannato per favoreggiamento di imputati per terrorismo. Saraccini rifiuta il posto di Capo del Personale e — mentre lo sciopero del 1980 fallisce per la mobilitazione dei ceti medi — torna, sconfitto e sprezzato, all'industria che aveva voluto lasciare. Nasàpeti muore e il suo potere passa ad altri. Dopo Aracoeli della Morante (1982) non leggevo pagine narrative italiane con tanta partecipazione e ammirazione. Le due opere sono diversissime per modo di vedere il mondo e per uso del linguaggio. Quello è ultimativo e tragico; questo è drammatico, quindi non ultimati- delirio verbale del potere, inteso come laido ronzio di mosche. L'uno e l'altro raccontano una sconfitta e rovina, prima collettive e storiche che personali: il decennio settanta. Lette all'incirca le prime settanta pagine sono stato certo di tenere in mano un gran libro, di impeto nuovo avventato su di una materia ricchissima: quella esperienza di vita che può distinguere lo scrittore dal letterato. Poi, andando innanzi, parti intense si sono alternate ad altre meno evidenti. Avvertivo, piuttosto che stanchezza, confusione e lungaggini; senza sapere se fossero funzionali al disegno o se questo mancasse. Infine, rileggendo, l'impressione di ricchezza e di magnanimità ha prevalso. Dei molti appunti ho potuto qui registrare appena poche note. Nella scrittura surriscaldata si agita una sorta di entusiasmo adamitico per i nomi delle cose. E gran parte di tali 'cose' sono quelle della cui esistenza di solito non si parla, i rapporti delle dirigenze e degli uffici che dalle sommità gerarchiche forniscono i propri ciattoli, mosche di un capitale che rumina se stesso, sempre più distruttivo che creativo e bisognoso, per sopravvivere, di una società feroce. ("Dopo di lei, qualcuno scriverà un romanzo... magari proprio su di lei" "Ma le strategie di dove arrivano?" "Non so. So solo che oggi l'industria, anzi tutto il capitale, si identifica con lo stato" "Ma cosa succede alla città, alla socie-tà, agli uomini dell'industria? Che cosa si può raccontare di loro?" "Niente. Non c'è niente da raccontare. Non si racconta più" (p. 122). Quando si rimprovera Volponi di non aver creato personaggi credibili e di aver dipinto una effigie caricaturale delle industrie di cui parla si dice a un tempo qualcosa di vero e di inutile. L'effetto-verità, fortissimo, del libro non è nelle figure, nella loro coerenza o incoerenza. E neanche nel grado di verisimiglianza dei conflitti di potere e di classe di cui egli ci discorre, sebbene su questo punto sia, credo, lecito dibattere. Mi spiego. La materia rende somiglianti fra loro le sue maschere carnevalesche di cartapesta più che non le facciano dissimili i ceffi e le grinte. E questo finisce col frustrare una delle attese fondamentali di ogni narrazione, quella del mutamento. La voce si fa roca per l'eloquenza lirica, oltre una certa soglia la ripetizione introna. Per quanto riguarda Saraccini non valgono a sanare questa assenza le pagine 137-145 dove colui dialoga con se stesso sul passato proprio e della famiglia. D'altronde quelle pagine si aprono così: "Non ci sono più personaggi perché nessuno agisce come tale, nessuno ha un proprio copione. L'unico personaggio, è banale dirlo, è il potere". E qui sembra massima la prossimità di Saraccini a Volponi. Quanto alla verisimiglianza, dire che il libro non parli quasi per nulla, mentre vi si discutono piani di produzione, dei tecnici d'officina e delle mansioni operaie non è, mi si conceda, una preoccupazione ridicolmente veristica. E che si vorrebbe capire se tale omissione è un tratto supplementare della mentalità e moralità dei dirigenti o se è un tratto di Volponi, il quale aumenta il grado di fuga verso l'allegoria ma impedisce la riconoscibilità del mondo raffigura-' to, che del libro è invece una premessa essenziale, ben al di là delle frasi cautelose sulle coincidenze "casuali". Queste mie osservazioni mancano però, mi accorgo, due punti capitali. Primo: in quest'opera il migliore "realismo" di Volponi è tutto nella mimèsi del "discorso" aziendale e dirigenziale e del magma dei gerghi diplomatici, culturalistici, ideologi-stiri; che, anzi, il "personaggio" vero e centrale del libro è proprio questo Discorso, pressoché identico fra i vari dialoganti (che manifestamente ne sono attraversati e asserviti) e il fabulatore che lo scrive. Secondo: il conflitto di classe (col suo simbolico e piuttosto convenzionale Tecraso) non è affatto il tema del libro e neanche è al centro della immaginazione morale di Volponi, come dimostra la prudente vaghezza dei giudizi propriamente storico-politici, cui corrisponde invece una allegra spietatezza sarcastica per i mores, che ha scandalizzato qualche timorato delle leggende industriali. E quindi in questo senso, le critiche da "sinistra" hanno scarso fondamento. Di libri che toccano simile materia la nostra editoria non è povera. Ma quasi sempre non hanno la forza o l'autorità di uno scrittore giustamente considerato fra i primi o probabilmente, dopo la scomparsa di Calvino, il primo dei nostri prosatori. O il loro punto di vista è quello di paesi lontani. O si tratta di opere di riflessione storica e saggistica che male si prestano ad un giudizio di sentimento e di gusto. Certo, Saraccini non ha spessore. Anche qui si resta in dubbio se si tratti di intenzione (anch'egli non differisce dalla società che serve, anche lui è una mosca del capitale, appena una variante della Grande Chiacchera) o se invece l'autore ha voluto raffigurare, con la sua vicenda di carriera fallita ai livelli più alti della grande industria, la caduta di ogni ipotesi riformista. Avrebbe dovuto introdurre (come Brecht aveva fatto nel suo magnifico libro "industriale" di mezzo secolo fa, Il romanzo da tre soldi) un qualche punto di vista affatto esterno. Avrebbe potuto esserlo, ad esempio, la signora amica di Saraccini che invece si limita ad appari-