n 6 ['INDICE - " ■■dei libri del meseBì Letteratura Tadeusz Borowski, Paesaggio dopo la battaglia, Il Quadrante, Torino 1988, trad. dal polacco e cura di Roberto Folce, pp. 233, Lit 32.000. E singolare che uno scrittore come Borowski, considerato da tempo in Francia, Inghilterra e Germania un classico della letteratura polacca più più recente, venga soltanto ora presentato al lettore italiano. Borowski, nato nel 1922 e morto suicida all'età di ventinove anni, cominciò a scrive- re poesie durante l'occupazione nazista del suo paese e si dedicò alla narrativa soltanto nel dopoguerra, dopo aver trascorso due anni nel campo di Auschwitz. L'esperienza del Lager fu per Borowski un trauma di tale violenza da costringerlo a una radicale revisione di ogni sua precedente concezione del mondo e della cultura. L'evoluzione del giovane scrittore si rispecchia con impietosa fedeltà nei racconti di questo libro, a cominciare da Addio a Maria (il primo, che immette il lettore nella cupa atmosfera di una Varsavia occupata, dove coesistono cospirazione e mercato nero, arricchimenti illeciti e sinistri echi di spari e di strage, e dove l'unica via di scampo e di sollievo sembra essere diventata la vodka). Addio a Maria costituisce peraltro solo un preludio agli altri otto racconti, quasi tutti ambientati ad Auschwitz e idealmente collegati in un disperato crescendo di rappresentazione del male e dell'abiezione di cui l'uomo è capace quando è in gioco la mera sopravvivenza. Lo stesso io narrante (un giovane, nutrito delle tradizionali illusioni della cultura) si sorprende a essere come tutti gli altri che lo circondano, vittime e carnefici, perver- samente legati da una macchina annientatrice. Egli non nasconde infatti la sua condizione di "ariano", che gli consente di sperare in una sorte meno tragica; anzi (si veda il racconto Prego, signori, al gas) si adatta a collaborare alle operazioni di scarico dei treni piombati che alimentano giorno dopo giorno i forni crematori. Ed è anche questo rifiuto di erigersi a giudice e di voler impartire una qualsiasi lezione morale che avvicina l'impavida e concisa scrittura di Borowski alle più alte prove di letteratura concentrazionaria: da Primo Levi a Solzenicyn, da Evegenija Ginz- burg a Jean Améry. Eppure neanche in Borowski il cielo è tutto tenebre: l'illumina, per brevi tratti, se non la speranza almeno la nostalgia di un mondo diverso, di un paesaggio umano contrapponibile all'inferno vissuto. Giovanna Spendei Cingiz Ajtmatov, Il Patibolo, Mursia, Milano 1988, trad. dal russo e presentaz. di Erica Klein, pp. 353, Lit 24.000. È un romanzo complesso, un evento più storico che letterario. E il romanzo di un autore sovietico che parla di Dio, di trafficanti di droga, di alcolizzati, di personaggi e situazioni scomode che fino a poco tempo fa erano negate come inesistenti nel paese. E il romanzo di alcuni uomini che osano opporsi alla natura. Il romanzo dell'eterna e tradizionale opposizione fra cultura naturale e cultura umana. Le visioni della steppa sono, seguendo una tradizione letteraria ìnsita nello spirito russo, liriche ma allo stesso tempo sensuali, fisiche, addirittura violente. Quanto i due lupi che lottano per difendere la cucciolata e il territorio, ma che soccomberanno tragicamente nel cruento finale abbinati nella disgrazia allo strazio del pastore Boston. Il viaggio di Avdij, ex seminarista che si propone di far ravvedere e illuminare alla luce di Cristo gli sbandati suoi compagni d'avventura, si trasforma sempre più in "passione" (intesa in senso cristiano), movimento verso la morte, la quasi crocifissione, il patibolo. Avdij come Gesù non chiede pietà ai suoi torturatori, non rinnega, non abiura. Si mischiano nella narrazione, con frequenti e ricorrenti flash-back, traffici, malaffari, spiritualità in un misto tanto tipico della vita sovietica quotidiana quanto raro nella sua letteratura. Gli uomini sono presentati come irregolari, diversi, impostisi in uno spazio che nell'essere metaforicamente naturale sottìn-dende molti altri significati. Ed è nelle pagine in cui ì lupi sono protagonisti che il mondo poetico di Ajtmatov raggiunge i suoi vertici più alti; la saga della coppia di animali condotta parallelamente alle vicende umane, deno-minatore comune che le lega fra di loro e nello stesso tem- po in contrasto con esse, è il momento più bello del romanzo, ancor più del capitolo che ha come protagonista il dialogo tra Ponzio Pilato e Gesù, che inevitabilmente e con qualche forzatura evoca II maestro e Margherita di Bulgakov. Il pensiero di Dio, di un Dio martire che è andato al patibolo per un'idea, si combina con il concetto di potere, del dialogo cercato con questo potere e costituisce l'elemento storicamente più dirompente di tutta l'opera. Sarebbe banale definirla soltanto come ennesima conquista della glasnost' gorbacioviana, anche se per i suoi contenuti risulta una lettura impensabile per l'Unione Sovietica fino a poco tempo fa. La sensibilità poetica e creativa di quest'autore si è manifestata altrove in maniere più eloquenti, ma la sua portata polemica e provocatoria (se la si vuole riconoscere come tale) la rende un momento fondamentale nella storia di quella letteratura. Gian Piero Piretto Jerzy Andrzejewski, Le porte del paradiso, Sellerio, Palermo 1988, trad. dal polacco di Ludmila Ryba e Alberto Zoina, pp. 114, Lit 8.000. Nell'anno domini 1212 migliaia di bambini si misero in marcia dal nord della Francia e della Renania per raggiungere Gerusalemme e liberarla. Da questa vicenda prende spunto il racconto. Filo portante della narrazione, condotta in un unico lungo periodo magistralmente articolato, sono le confessioni (vere e false) che alcuni adolescenti fanno durante il cammino al vecchio frate che li accompagna. Veniamo cosi a conoscenza delle diverse motivazioni che li animano, della passione che Jacopo, il pastorello che guida la crociata, suscita nei suoi compagni, dell'amore di Ludovico di Vendòme per Alessio Melisseno, dell'attrazione di entrambi per Jacopo, di cui sono innamorate anche Maud e Bianca, che per dispetto diventa l'amante di Alessio. Ne risulta messa in dubbio la purezza etica degli ideali, che si rivelano anzi una forza fatale e perversa. L'opera permette una lettura che va oltre lo sfondo storico della vicenda, poiché offre una rappresentazione emblematica di quei processi di fascinazio- ne collettiva ricorrenti anche in epoche più vicine all'autore, uno dei maggiori scrittori polacchi contemporanei e di cui sono già stati tradotti in italiano alcuni romanzi. Krystyna Jaworska Angel Bonomini, I novizi di Lerna, Solfanelli, Chieti 1988, ed. orig. 1972, trad. dallo spagnolo di Emilia Perassi, pp. 87, Lit 6.000. In una sperduta e fantomatica università svizzera, ospitata nel monastero benedettino di Lerna, ventiquattro borsisti provenienti da ogni angolo della terra, partecipano a un misterioso progetto, o meglio: essi stessi sono il progetto. Identici nelle fattezze, nella voce, nei gesti e nell'abbigliamento, in ogni più piccolo dettaglio, ognuno di loro è condannato a vedere ventitré altri se stesso proporgli l'infinita gamma di gesti e di espressioni che neppure uno specchio può restituire. Ai ventiquattro giovani non è dato sapere quale sia la loro funzione. Poi cominciano i delitti: uno dopo l'altro, misteriosamente, muoiono ventitré novizi. Ramon EDIZIONI UNICOPLI I ■ ■ ■ I I CODICE DI PROCEDURA PENALE (D.P.R. 22/9/1988, N. 447) Commentato con la relazione al progetto preliminare e la relazione del Ministro al testo definitivo o cura di C. Pecorella Distribuzione Promeco I I ■ I Beltra, il ventiquattresimo, sopravvive, ma non per dare soluzioni, solo per narrare i fatti. L'autore stesso ci fornisce però una chiave di lettura: "Il racconto si può leggere come l'umana nostalgia di essere ciò che non si è, ciò per cui non abbiamo optato. Beltra si libera da ogni legislazione imposta dopo un lungo travaglio che gli costa la morte di molteplici forme d'essere". I novizi di Lema, opera di letteratura "neofantastica" con cui Bonomini esordì nel 1972, a quarantatre anni, sarà una lieta sorpresa per chi ancora identifica la letteratura argentina con la triade Borges-Ocam-po-Bioy Casares. Giuliano Soria Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, UTET, Torino 1988, trad. dal latino e cura di Dionigi Vottero, pp. 866, Lit 86.000. Nell'antica e gloriosa collana dei Classici Latini compare una delle opere ingiustamente meno note di Seneca, le Naturales Quaestiones in sette libri, dedicati ognuno a una categoria di fenomeni naturali, dai fuo- chi celesti (aloni, arcobaleni, fuochi di Sant'Elmo), ai fulmini, e loro cause ed effetti, alle acque, nubi, venti, terremoti, ecc. È un trattato di scienza antica, che fa tesoro degli studi di Aristotele, Anassagora, e quanti si erano occupati dei fenomeni naturali, pronto a combattere credenze nate da ignoranza e superstizione, ma che lascia tuttavia spazio alla cultura del suo tempo: si accetta per esempio che dai fulmini si traggano auspici, ma si stabilisce in che modo vadano interpretati. Il fascino del libro sta nella partecipazione viva dell'autore a ciò che scrive, nella sua assidua presenza di filosofo storico, di moralista rigoroso e narratore — si legga nel primo libro la storia di Ostio Quadra che si serviva degli specchi per moltiplicare il piacere della sua lussuria — di uomo profondamente religioso. E se non mancano giudizi sorprendenti, come quello secondo cui il fulmine, tra i suoi numerosi effetti, fa ghiacciare il vino, ciò non fa che accrescere la vivacità dell'opera, esemplarmente resa nella traduzione di Dionigi Vottero, a cui si devono anche l'ampio saggio introduttivo e una dotta ed esauriente nota critica. Laura Mancìnelli STORIA UNIVERSALE DELL'ARTE Sezione "Le civiltà dell'Occidente" diretta da Enrico Castelnuovo IL QUATTROCENTO NELL'EUROPA SETTENTRIONALE di Jan Biatostocki Pagine IV-322 con 346 illustrazioni iltttH Iti MH>t ITTI «••••ini, ìlllt:;::> UTET EDITORI DAL I 791 Joseph von Eichendorff, La statua di marmo, Novecento, Palermo 1989, trad. dal tedesco a cura di Anna Giu-bertoni, pp. 77, Lit 10.000. È un racconto minore dell'autore tedesco del Taugenichts (Il Perdigiorno), ma prezioso nella levità delle descrizioni e nella raffinata insensatezza della vicenda, in cui amori, passioni e sentimenti delicatissimi si snodano in un inarrestabile fluire di visioni sempre incerte tra realtà e immaginazione. Il mondo di Eichendorff, che nel romanticismo privilegia gli incantamenti e le magie, rifuggendo gli aspetti cupi e i turbamenti drammatici. si distende qui a colori soffusi nella campagna e nelle ville della Lucchesfa, sintesi di una Italia vagheggiata e inventata dallo scrittore slesiano, che in Italia non fu mai. Il tema centrale è il funesto influsso che sul cuore innamorato del giovanissimo protagonista esercita una antica statua di Venere scoperta nel giardino di una villa, tema caro ai romantici — si pensi alla Venus d'Ille di Merimée. Ma il tragico e il demoniaco, che il tema porterebbe con sé, si risolvono qui nell'inganno dei sensi, nell'alleanza insidiosa di magia e incantamento, su cui il cuore puro dell'amante sincero riesce a prevalere. Ogni angoscia, ogni turbamento si dissolvono come nebbia al sole, il sole di questa terra amata di lontano, che è per Eichendorff la vera protagonista. La traduzione, che Anna Giubertoni tiene su un registro di squisita eleganza senza sdegnare parole rare e ricercate, rende perfettamente la raffinatezza del narrare dello scrittore, la preziosità in cui consiste, come la curatrice rileva nell'introduzione, gran parte del fascino di questo racconto. Laura Mancìnelli