o Itre 1 la; pagi na, niente ■ di Luca Toschi N. 6 pag- 7 Alberto Moravia, Il viaggio a Roma, Bompiani, Milano 1989, pp. 229, Lit 22.000. Il mango è una nota pianta arborea, originaria della regione tropicale indo-malese. Il suo frutto, una drupa appiccicaticcia, ovoidale, polposa e giallognola, fu, qualche tempo fa, al centro di un'intesa campagna pubblicitaria, che ne sottolineava gli effetti benefici in forza di un alto contenuto vitaminico e proteico. E assai probabile, però, che quest'esotico vegetale, in chi abbia avuto occasione di leggere l'ultimo romanzo di Moravia, Il viaggio a Roma, evochi altre immagini e sensazioni relative al liquido seminale, di cui si sospettano tracce su di un fazzoletto — di shakespeariana memoria — che unisce e divide il giovane protagonista e la sua quasi-matrigna. Magro bilancio per uno scrittore, e, si potrebbe aggiungere, per un lettore che abbia trascorso diverse ore in compagnia di un volume di duecentotrenta pagine. Ma quanto si poteva dirne di male credo sia stato già detto, più o meno elegantemente. Il punto è piuttosto un altro: può essere utile, infatti, leggere e valutare l'opera oltre se stessa, quale espressione di una cultura sempre più impotente a cambiare, che ha preso a raccontarsi, ad au-tocelebrarsi. Moravia, però, e qui sta il suo merito peculiare, non ci propina un ennesimo canto del cigno, bensì una sequenza ben strutturata di quadri, analizzati con la disperata lucidità di chi riconosce, sì, di essere avvolto dal buio ma, al tempo stesso, non riuscendo a scorgere intorno a sé neanche un barlume di speranza, fa, piccosamente, di questa condizione, che è personale e storica, la realtà, in assoluto. In tale prospettiva, l'ultima sua fatica merita un posto di riguardo per quanto riesce a dirci, per la forza documentale che ha e su cui è necessario riflettere. L'intreccio ruota attorno al ventenne Mario, che lascia Parigi, sua patria d'adozione, per tornarsene a Roma a conoscere il padre, abbandonato in fretta e furia quindici anni prima, quando la madre, decisa a rifarsi una vita altrove, se lo era portato via, per poi morire prematuramente. Ora è il vecchio genitore a volersi rifare una famiglia, in verità un po' speciale, perché a immagine e somiglianza di quella passata, e per questo l'ha invitato; Mario accetta solo perché sente che nelle stanze di quella casa della sua prima giovinezza si nasconde un segreto che, dalla separazione di molto tempo prima, continua a minare la sua personalità. Ripercorre così le tappe fondamentali della vita dei suoi genitori: lui era un piccolo agente immobiliare; lei, non avendo niente da fare, se ne stava nel bell'appartamento a guardare la televisione, a tenere a bada un mal tollerato bambinello, a progettare e consumare frenetici amori con tutti i maschi di passaggio. Il marito aveva deciso — come ripete più volte nei suoi racconti al figlio — di farsi da Otello Iago, cercando di riesumare un qualche legame con la giovane moglie, e per questo si era promosso regista delle sue relazioni. Ma la cosa non aveva funzionato e lei lo aveva infine abbandonato trasferendosi a Parigi. Mario, appena ritrovata l'atmosfera della vecchia casa romana, riesce quasi subito a chiudere il cerchio, scoprendo il ricordo-chiave che lo assillava: la madre lo aveva ambiguamente indotto ad osservare un proprio amplesso consumato sul divano, una domenica sera, con l'amante di turno, mentre alla televisione si stava dando una partita di calcio (per raggiungere l'orgasmo, spie- ga Moravia, ci metteva, mediamente, tra i dieci e i quindici minuti). Quanto al padre, maldestro e sfortunato demiurgo di questi intrighi, intenderebbe ricrearsi una vita con Esmeralda, un'altra donna dalla sensualità straripante, che egli vuol fare assomogliare il più possibile alla moglie defunta. Costei, sanamente diffidente, cerca di approfondire la conoscenza con il futuro figliastro tentando di portarselo a letto; Mario, però, ha fatto amicizia nel frattempo vorrebbe profanare e far smantellare dal richiestissimo Mario. Si gioca con le ombre, passate e presenti: la televisione, simbolo solenne di una realtà fittizia, sognata, vista, piuttosto che agita, fa da sfondo a tutto. Fra questi zombi, la volgarità sensuale di Esmeralda sembra, per un attimo, una boccata di aria fresca. Moravia ci ha da tempo chiarito che la chiave con cui egli vuole spiegarci il mondo è l'"immaginario buco della serratura", quella fessura attraverso cui egli ci trasforma in "sco-pofili" o in guardoni (si legga il suo precedente L'uomo che guarda). Il sesso come metafora del tutto; chiarito il codice, intuito il messaggio di questo romanzo: ci si aggira in un eli- so, ripiegato nel raccontarsi, esso appare la conferma chiara, tangibile di una cultura altrettanto chiusa, impotente come i suoi eroi, refrattaria alla curiosità. L'asciutta razionalità dello stile corrisponde perfettamente all'affannata ricerca, da parte di tutti i personaggi, di porsi nei confronti del mondo con un'obiettività quasi scientifica che, di fatto però, si guarda bene dal tendere verso un approfondimento reale della conoscenza della realtà. Qui non si vuol capire, sapere, ma soltanto si mescolano le carte della stessa, monotona storia, per procedere, quindi, secondo simmetrie infinite e ossessive, alla ricerca della perenne sorpresa, alla riscrittura di quanto si crede di avere già con una quarantenne raffinata, Jeanne, provvista di una figlia adolescente assai intrigante, Alda, e si scopre incerto fra la matrigna (penetrare la quale, entro una precisa cornice ri-producente la scena fatale, gli permette di pareggiare il conto con la violenza subita nell'infanzia), la giovinetta, che a sua volta fa da esca per la madre, quest'ultima appassionata quanto impotente ad appagarsi nell'amore, e infine la domestica di suo padre. Per chi volesse sapere come va a finire, basti che il protagonista non riuscirà ad andare a letto con nessuna delle donne, e avrà soltanto un'eiaculazione per strofinamento di un piedino della ragazzina mentre si dà da fare con la di lei madre. Dopo non gli resterà che riprendere l'aereo e tornarsene a Parigi. Di tutti i personaggi, a quanto pare, solo i defunti sono stati capaci di godersela: la mitica madre e il marito di Jeanne, donnaiolo incallito; alla sua memoria lei ha consacrato una funeraria camera da letto, che Alda ma di disperante impotenza, dove obbligare un bambino ad assistere allo spettacolo di un accoppiamento è il segno di un egoismo così totale da non rispettare neppure i più elementari, biologici legami affettivi. Quanto al tema dell'incesto, giocato in una gamma infinita di varianti possibili, esso non rappresenta l'inevitabile cifra culturale sottesa ad ogni sogno o pratica sessuale, bensì l'impossibilità di potersi affidare alle gioie liberatrici dei sensi, ai richiami riproduttivi della specie, per uscire dalla gabbia che anche i più cari (coloro da cui ci si aspetterebbero affetto e aiuto) sofferenti dei loro errori, delle loro colpe, contribuiscono ad erigere attorno alla nostra libertà. In tal senso non credo di fare ingiustizia a Moravia dicendo che ancora una volta ha finito col raccontarci la sua storia di sempre; solo che l'utilità della lettura di questo romanzo non va cercata nelle idee nuove, che non ci sono, quanto, come dicevo, nel suo valore documentale: presentandosi così chiuso in se stes- assodato una volta per tutte. Non sorprende, perciò, neppure più di tanto la consueta dimensione "amateriale" dei personaggi di questo tipo di narrativa. Si prendano le donne: uterine nel senso più totalizzante della parola, esclusivamente interessate alla propria sensibilità erogena. Inutile chiedersi come passino la loro giornata, di cosa vivano; a maggior ragione che lavoro facciano, a parte quello antico come il mondo che sembra loro competere come un arcano privilegio. Strano che un poeta, tanto attento alla dimensione sessuale della personalità, sia poi così disinteressato nei confronti della componente materiale dell'esistenza. In questo mondo senza cause né effetti, tutto si svolge nella camera mortuaria del sesso, una stanza priva di finestre e di porte; ma anche priva di buchi della serratura, attraverso cui guardare: non si entra, non si esce, non si viene, non si va da nessuna parte. Perché? Perché questo mondo non esiste. O meglio esiste, ma col sesso ha assai poco a che fare; ha invece molto a che fare con la letteratura, e con coloro che vi lavorano. Il romanzo, infatti, è naturalmente scritto bene, si fa leggere come può farsi leggere il prodotto di un esperto affabulatore che però, come i suoi personaggi, non riesce a rompere il circolo vizioso di una logica che spiega se stessa. Ci si trova, cioè, davanti ad un'opera che dice pochissimo della nostra vita, moltissimo della nostra cultura umanistica, della crisi in cui questa si sta dibattendo. Letteratura che racconta la letteratura vuol dire semplicemente che gli scrittori non usano gli strumenti loro propri per scoprire nuove verità sulla nostra condizione di viventi e spiegarcele, ma se ne fanno usare, vi si perdono dentro, confondendo il mezzo con il fine. Così, mentre in molte altre discipline scientifiche 0 piacere della ricerca si sta affermando, e si accantonano proficuamente vecchi pregiudizi circa la minore importanza della ricerca pura rispetto a quella immediatamente applicabile e fruibile, la letteratura rinuncia sempre più di frequente alle proprie potenzialità analitiche, investigative, e pensa di cavarsela autopromuovendosi, autocelebrandosi. Siamo al delirio, attraverso gli organi, maschili e femminili, del piacere o attraverso brani di memorie autobiografiche totalmente insignificanti, poco conta. L'impotenza, insomma, di cui racconta il romanzo aggiunge assai poco, forse nulla, a ciò che già sappiamo sulla nostra condizione; è, viceversa, un ennesimo segnale eloquente dell'inanità della letteratura, nella sua accezione oggi dominante. Dallo studioso che si nasconde dietro una pseudofilologia al critico poco militante, all'inventore di storie estenuate, il problema sembra essere analogo: manca il coraggio della curiosità del nuovo, il desiderio, la fiducia che si può, si deve continuare a studiare, la consapevolezza che lo scienziato, il quale indaga la malattia fisica o l'energia pulita, non assolve compiti molto diversi dallo scrittore o dallo storico, che l'uomo è tutto da scoprire; che ognuno, con i mezzi che gli concede la sua competenza, è chiamato alla ricerca; perché non è vero che non ci sia più niente da capire. La noia diffusa in chi legge Moravia, e tanti altri, è la conseguenza diretta della noia di chi scrive: nessuno è obbligato a scrivere, a parlarci, ma se crede di avere qualcosa da dire, che almeno provi a suggerirci un alcunché d'inedito, perché altrimenti la sua noia non vuol dire proprio niente, non spiega proprio niente, non è di qualità diversa dalle tante noie, più o meno patinate e luccicanti, che ci sono quotidianamente proposte. Ma che cos'è quest'impegno sempre più diffuso a rassicurare, a ripetere il già detto? Quest'invito a restare fra noi, fra i nostri cari fantasmi? E per indorare la pillola l'ancor più insopportabile (perché questo sì che ci fa sentire sciocchini, sciocchimi continuo ricorso alla "maraviglia" ad ogni costo, un calderone dove finisce tutto, sacro e profano, un paesaggio notturno dove anche le ideologie più retrive riescono ad insinuarsi e a passare inosservate, se non addirittura a proporsi come degne di attenzione e di riflessione. Una sorta di corporativismo votato al suicidio, infarcito di veterocattolicesimo, dove la confessione della colpa non porta a compiere nessun passo in avanti sulla strada della comprensione ma è, invece, il segno del persistere di una condizione di arrogante rinuncia.