N. 6 pag- ■ dei libri del mese! Il silenzio di fuori di Dario Voltolini Domenico Starnone, Il salto con le aste, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 183, Lit 18.000. Credo che si possano isolare tre principali percorsi di lettura da questo libro che senza alcuna vanità ne propone molti. Il primo e più facile riguarda il fitto tessuto di vicende personali che costituisce per così dire la materia della narrazione. Un calibrato gioco di rimontaggio temporale permette a Starnone di prelevare dalle biografie incrociate di un piccolo gruppo di amici umori e vissuti di un ventennio di vita privata e politica. Siamo nella sinistra, una delle tante, ma anche una delle più riconoscibili e, purtroppo, una delle più rappresentate: Starnone non è un deluso storico, è un deluso metafisico; nel discorso diretto condensa attorno alle parole dei compagni e delle compagne una tale quantità di velleitarismo, di provincialismo, di incultura e spesso di menzogna che solamente quando sorge il sospetto che stia esagerando costoro ci appaiono meno odiosi. Appare comunque come una ben triste cultura quella dell'impegno politico nelle sezioni del Pei, delle decisioni di uscirne, della militanza nella Cgil scuola, così come Starnone la crocifigge sul tedio delle riunioni, sull'infantilismo dei nomi di battaglia, sul misero fondamento dell'apparire intelligenti agli occhi ora di questa ora di quella compagna incolta ma portatrice chissà come di qualcosa di rivoluzionario. E non solo triste, ma spietatamente fuori dal mondo appare l'importanza attribuita all'arresto di un amico, invidiato per questo e tuttavia sostenuto con scritte murali nella notte. L'amico uscirà di lì a poco: siamo di fronte a una caratteristica già nota dello Starnone scrittore: quella sua capacità impla- Mi protessi», mi dichiaro ai giudici marionettista: lo sono tanto da non toccarle più le marionette. Sono brave puppen, si muovono da sole. Guido Ceronetti Teatro dei Sensibili nysiìc Li UNA PARK SPETTACOLO PKR MARIONETTE IDLOFORK con i ricordi figurativi di Giosetta Fioroni (pp. 104 - 25 illustra/ioni) L. 25.000 cabile di smantellare ogni base ai discorsi alti, ispirati, intelligenti, ai gesti eroici, epocali, decisivi. Si tratta di una radiografia di quella che Star-none aveva già etichettato come "sinistra patetica" sulle colonne del "Manifesto". Il gioco dei rapporti interpersonali si risolve spesso in un intrico di pettegolezzi, scambi di partner, invidie, gelosie, che la mimesi narrativa non ha la minima intenzione, e nemmeno la forza, di riscattare dallo squallore guistica che alimenta la narrazione dell'emancipazione culturale tanto del narratore quanto del suo amico Michele. Prima ancora della letteratura, della conoscenza di testi ignoti al proprio ambiente familiare, il nuovo sguardo sul mondo è uno sguardo lessicale. La ricerca assetata, complice, mitologica da parte dei due ragazzi di un lessico non familiare è descritta da Starnone con una grande ricchezza di osservazioni, di note, di esempi. È una vena del romanzo particolarmente convincente. La letteratura, il mestiere di scrittore, la sua funzione nell'immaginario dei due ragazzi hanno una posizione centrale nella struttura tematica e formale del romanzo. L'elemen- te) che non poteva davvero mancare narrando in questo modo di quella generazione e di quella sinistra, anche se persino il peggior Gaber aveva detto sull'argomento tutto quello che c'era da dire. Un terzo punto di vista, meno fondato su riscontri testuali, ma forse interessante per capire lo scrittore Starnone, consiste nell'individuare una sottile frattura nel romanzo che separa persone, avvenimenti e storie comprese dallo scrittore e, quindi, sviscerate e spiegate nei minimi particolari, da persone, stili e modi d'essere per lui essenzialmente incomprensibili e, dunque, solo riportabili fenomenologicamente. Mi sembra che ci siano tre luoghi Poesia, poeti, poesie ■ uecco GVatto WaGari^4' —- ed inoltre Goffredo Parise, Ai 'SCITICO, con un saggio di Andrea Zan/olto Nanni'Balestrini, Il ritorno della signorina Richmond, con nn commento visivo di Gianfranco liarnchello Muti nell'azione di Graziella Spampinato Franco Loi, Liber, Garzanti, Milano 1988, pp. 245, Lit 30.000. Nella parola liber confluiscono due significati, perfettamente omologhi in due lingue legate da un'oscura persistenza: liber è libro, ma anche libero, in milanese e in latino. Loi, lirico anomalo dell'esperienza di massa, vive doppiamente la contraddizione dei nostri dialettali. Da una parte è lirico, cioè suggestivamente autentico, proprio perché fa parlare un intero popolo cittadino, fissato in tempi in cui "leggeva i manifesti del Kommandatur, ascoltava il Colonnello Stevens e Candidus, leggeva il Corriere, ma scriveva volantini antitedeschi 'in italiano ', ma gridava, bestemmiava, soffriva e malediva e giocava in milanese, e pregava in latino nelle cantine-rifugio". Dall'altra la sua lingua, modellata su questa ricchezza domestica, è poi lontanissima dall'essere una scorciatoia per ricreare poeticamente "ilparlato", per dare vita durevole a ciò che lo stesso dire quotidiano esaurisce e disperde. È quindi tutt'altro che un parlare "aperto", o un affratellarsi "facile" di un popolo soggetto di azione, ma non di parola. Non v'è anzi alcuna possibilità d'intreccio, o di contatto, tra questi due poli: la presenza dell'uno esclude l'altro, la parola è vuoto d'azione. Loi, che raccoglie brandelli di memoria mancata, che rende eroi irriconoscibili, veri a forza d'inattualità, plasma una lingua affrancata da referenti storici quanto da una prassi consumata dal lirismo borghese. Il suo dialetto, non solo e non tanto mai parlato, quanto autenticamente autonomo, è fedele solo "ai suoni e alla coesistenza delle sostanze, alla loro non ar-bitraria omogeneità. In questa duttilità non mag- matica, non eversiva né ponderabile, la lingua risulta materia viva, prodigiosamente porosa, attraversata dalla realtà a cui non può tenersi fedele, venata da radici che, in estensione e in profondità, ne fondano il diritto d'esistere, da sempre e per sempre. Un acuto profeta come Fortini aveva intuito per Loi un posto di diritto nella nostra costellazione letteraria, ma "riconosciuto soprattutto da una qualità di lettori che non dovrebbero piacergli e negato da coloro che della sua poesia più avrebbero bisogno". Sono costoro i fratelli che non scrivono, ma pagano a caro prezzo l'incorruttìbile saggezza dei poeti, in un lavoro allo scalo merci di una stazione qualsiasi, in una qualsiasi morte da povero. Vent 'anni di lavoro poetico, approdati a questo liber, rafforzano le ragioni della lettura di Fortini e insieme la rendono inattuale. La lirica di Loi, come su rimarginate ferite di brutalità e d'idealismo, ha compiuto una parabola, una felice ascensione al reale di tutti. E qui muore Pasolini ("Furlan, puèta, òm d'antiga sciensaf per rabbia e per vergogna t'àn cuppd") muore in un letto d'ospedale l'amico Giulio, che leggeva "i grandi" e non correva dietro le riviste letterarie ("Oh, svéliess! clama no l'Umbria,! e quel lassàss andà, quél sbandunàss..."), moriamo tutti noi della paura di vivere ("G'ù pagùra, cumpagn... ' e la parola/ gfe brancava nel venter. Ma chi l'è?! Perché?... "). Nella Cumedia della vita non esìstono atleti, anche ì poeti possono avere solo un dolore per volta, un amore per volta ("Se mi duèssi, mi, vègh dù dulurf vùn sul ne sentarìa, cume fan tucc "). E in questo ' 'pianissimo ' ' di disciplinata, armoniosa tensione, s'invera il grande magistero di Vittorio Sereni. quotidiano. Questa la desolante temperie politica che Starnone, non variando al riguardo mai punto di vista, forza ad essere una condizione esistenziale degli uomini e delle donne di cui narra. Tuttavia, proprio questa fissità di sguardo sulla deprimente qualità di un'ideologia della sinistra (per altro già intesa per quello che era fin dai tempi di "Lama non l'ama nessuno" dall'unica generazione non rappresentata da Starnone) conferisce al romanzo una compattezza sottilmente claustrofobica. Non c'è un mondo esterno, non esiste; tutta la ricchezza che una vita può sperare di avere dev'essere colta qui dentro, in questo gioco di combinazioni già date, in una qualche sua screpolatura, in qualche sacca di ossigeno. Un secondo percorso, decisamente più gaio, conduce ad un interessante Starnone che riflette sia come narratore, sia come esperto, sia come curioso, sulla nostra lingua. I livelli di questa indagine sono vari. Notevole è, ad esempio, l'ipotesi sociolin- to coagulante del testo è infatti la vicenda di Michele, il quale, scrittore di racconti in gioventù, rispolvera ora, con l'intenzione di pubblicarla, una lettera che Calvino gli avrebbe inviato dopo aver letto un suo racconto. Si tratta di un pietoso falso e sul tentativo di impedire questa incombente disastrosa gaffe, Starnone riesce a costruire la propria scaltrita rete di sovrapposizioni temporali, ottenendo inoltre un finale accattivante (che non si può dire). Ma ciò che Starnone soprattutto racconta è quel complicato groviglio di mistificazioni e alte motivazioni in cui sono state vissute le figure dell'intellettuale e soprattutto del letterato nei confronti della classe operaia, ovviamente dal punto di vista di chi pratica come contraddizione l'emanciparsi sia culturalmente sia politicamente: questo è il caso del narratore e di Michele. Si genera così un saliscendi emotivo di sensi di colpa (perché si è intellettuali e perché non lo si è veramente) e di sensi di superiorità (perché si è intellettuali e perché non lo si è veramen- su cui la capacità di penetrazione psicologica di Starnone non riesce ad operare: i personaggi femminili, il mondo dell'infanzia, la generazione degli adolescenti. Oggetti del desiderio, le donne di Starnone o sconcertano o non sono pertinenti. Sconcerta la loro sicurezza in frangenti esistenziali pesanti, sconcertano le loro decisioni improvvise, le loro posizioni sempre diverse da quelle dei compagni maschi, i loro punti di vista imprevisti, le loro scelte personali. Non sono pertinenti quando intervengono nei discorsi da uomo-intellettuale-letterato-scrittore, sono incolte quando i due giovani hanno sete di libri, assetate di cultura quando i due non più giovani già sono disingannati. Starnone, ma un'intera cultura con lui, non s'avventura nella giungla misteriosa delle motivazioni femminili allo stesso modo di come tranquillamente conosce quella delle motivazioni maschili. Ne risulta un'interessante figura di narratore omodiegetico parzialmente fenomenologico: anche il mondo dell'infanzia, di cui è portatrice la figlia Matilde con l'inquietante amico Camilli, non può essere raccontato se non grazie alle mediazioni di altri attori. Il narratore conosce lo stato delle fantasie di sua figlia o perché sua moglie gliele comunica o perché il figlio di Michele, il suo allievo Ernesto, gliene svela i contenuti. Ma proprio grazie a queste mediazioni, il mondo surreale della piccola incomprensibile Matilde si struttura autonomamente nel corso della narrazione e rivela uno Starnone che, affrancato da vincoli di realismo mimetico, dimostra di avere molto da dire e, soprattutto, da scrivere. L'adolescenza: il giovane Ernesto e la sua amica Deborah sono, agli occhi del narratore, il totalmente altro. Quando essi monopolizzano la scena, ritroviamo tutto lo Starnone di Ex cattedra. Una sorda e invalicabile incapacità di comunicare con questa assurda generazione permette a Star-none di giocare il suo registro stilistico migliore, una comicità passiva che aspetta la battuta dall'altro per alleggerirla e porgerla poi in maniera esilarante sulla pagina. Ernesto raggiunge così uria geniale compiutezza belushiana, sgangheratamente mimando in classe mostri di ogni tipo, compresa la Primavera di Botticelli, oppure componendo temi sulla creazione distratta dell'essere umano e dunque parodiando per i compagni la difficile condizione di chi è stato creato per metà e non riesce a staccarsi dalla materia, cioè dal banco in formica. Ernesto, con la sua Deborah, è sicuramente grande: la narrazione sembra procedere distratta nei suoi paraggi, mentre invece egli, o forse "esso", è uno dei maggiori punti di sintesi del romanzo. Sottrarrà la lettera di Calvino al padre, imprimendo alla struttura portante della narrazione una svolta decisiva, comunicherà (in qualche modo) tanto con gli adulti quanto con i bambini, imiterà Gre-gor Samsa immedesimandosi nell'insetto, citerà — insieme con Deborah — brani di Sting, permettendo alla narrazione di ancorarsi astutamente al presente invece di perdersi in una nebbia memorial-ideologica. Ma soprattutto Ernesto non verrà bocciato, nonostante le sue numerose formidabili insufficienze, perché la sinistra patetica interverrà politicamente nello specifico (un consiglio di classe), dopo aver educato lo stesso Ernesto selvaggiamente nel privato (la famiglia). Dalla doppia prova narrativa di Starnone, Ex cattedra e II salto con le aste, mi piacerebbe veder emergere una quantità di Ernesti, magari sempre meno capiti, sempre più lontani, però sempre meglio mimati, rappresentati, descritti. La qualità degli Ernesti è quella di parodiare l'esistente senza proporre un punto di vista superiore. È la capacità di estrarre le assurdità dalle situazioni più quotidiane e di comunicarle attraverso un linguaggio, spesse volte iconico, inconsapevolmente condiviso da molti perché prodotto dai media. La capacità di Starnone è invece quella di raccontare l'esistente da un punto di vista laterale, raggiungendo spesso una raffinata comicità proprio grazie a questo scarto. Tuttavia la realtà e non la parodia è ciò che sta a cuore a Starnone. Sebbene questa caratteristica faccia di Starnone uno scrittore singolarmente simpatico e potenzialmente molto divertente, è la sua capacità di inventare gli Ernesti che lo rende unico.