|dei libri del mese | FEBBRAIO 1992 - N. 2, PAG. 9 Narratori italiani La memoria istriana di Gabriella Maramieri Nelida Milani Kruljac, Una valigia di cartone, Sellerio, Palermo 1991, pp. 118, Lit 10.000. Nella scrittrice istriana Nelida Milani Kruljac, il tema della difficile identità di chi è minoranza nazionale e culturale indica una disposizione a osservare la realtà con occhio vago, eternamente straniero ma, proprio per questo, allenato a una poliedrica gamma di codici espressivi. Il fascino della narrazione in Una valigia di cartone, il primo racconto che dà il titolo al volume, è affidato alla vibrante voce di Norma, ormai anziana, in una insolita pausa di riflessione in ospedale, dove si trova ricoverata per un femore rotto. Seguendo cadenzate evocazioni interiori — alle quali si intersecano suggestive locuzioni in dialetto — Norma ci narra un'umanità ferita ma non rassegnata la cui schietta filosofia di vita si riassume nella sicurezza che, una volta adulti, "è possibile vivere anche con la disperazione in cuore", perché "solo quando si è molto giovani il primo duro colpo sembra la morte stessa"; mentre da adulti si impara a passare attraverso gli eventi se non proprio corazzati di cinismo, perlomeno muniti di distaccata ironia. Attraverso il filtro di una memoria lucidissima, il racconto procede per grandi frammenti associativi — sogni passati, esperienze attuali e speranze per il futuro — in cui si ricompongono secondo un disegno inedito, ma non per questo meno vero: le origini contadine, il periodo duro delle guerre, il fascismo, l'esodo; e, soprattutto, sul piano personale, la miseria dell'infanzia, il lavoro di cameriera in casa di signori, il matrimonio con Berto, una "testa calda", un socialista che, morendo precocemente, la lascerà da sola a badare alla casa e alla figlioletta nata da poco. "Ci sono ricordi d'infanzia e di gioventù indelebili come i tatuaggi sulla pelle", scandisce Norma con entusiasmo febbrile, man mano che la filigrana dei ricordi, legati ad eventi grandi e piccoli che credeva affondati nell'oblio, si ricompone in tutta la sua interezza. Ecco così materializzarsi guizzanti presenze appartenenti al passato ma ancora vive: il simpatico vociare del nonno il cui slavo rimaneva ostinatamente italiano; i discorsi senza fine del fratellino Giovanni la cui immaginazione gli faceva credere in tutto quello che sentiva o diceva; la compagna di giochi, Pinuccia, "una testa matta sotto la frangetta in tanti filini spartiti uno per uno sulla fronte col pettine bagnato nell'acqua zuccherata"; e la scoperta, più tardi, che per essere felici "occorre sentirsi esattamente ciò che si è" (un'intuizione davvero straordinaria per un'adolescente che parlando di socialismo con il fidanzato crede che la parola "insurrezione" abbia a che fare con "quando Gesù Cristo torna sulla terra"). Ma come è possibile sentirsi "ciò che si è" in una "povera patria, sotto a chi tocca: ora slavi, ora italiani"? Questo l'interrogativo che assale anche la protagonista di Impercettibili passaggi, il secondo racconto che compone il volume. Nella confusione che si crea in una condizione di pluralità linguistica e culturale Maria, una giovane maestra istriana dei nostri giorni, tenta di decifrare l'impercettibile malessere che fin dalle prime battute ha il volto dello sradicamento sociale. Ed è un disagio che Storie di alberi e animali di Alberto Papuzzi Mario Rigoni Stern, Arboreto sabatico, Einaudi, Torino 1991, pp. 106, Lit 22.000. Mario Rigoni Stern, Il libro degli animali, Einaudi, Torino 1991, pp. 126, Lit 15.000. Rigoni Stem vive sull'altopiano di Asiago in una casa ai margini del bosco. Prossimi alla casa sorgono due larici: ' 'me li vedo davanti agli occhi ogni mattino e con loro seguo le stagioni; i loro rami quando il vento li muove, come ora, accarezzano il tetto". Con i larici inizia la bella passeggiata nel mondo degli alberi che ci propongono le pagine di Arboreto salvatico, un libro semplice e antico che parla di "quando gli uomini vivevano con la natura". Rigoni Stem ha scelto venti alberi; la maggior parte si trovano nel suo brolo, voce che i veneti continuano a usare per indicare il giardino selvatico di casa. Di ogni albero ci vengono spiegate le caratteristiche botaniche, l'ambiente naturale, l'uso che ne fanno i montanari e i contadini, gli influssi sulla cultura popolare, i miti e le tradizioni che lo circondano, ma senza rigidità didattiche o accademismi: è come se Rigoni Stem ci accompagnasse sotto le piante, facendoci vedere la forma delle foglie, degli strobili, dei fiori, mescolando alle informazioni ricordi mitologici, letterari e familiari, come la quercia che il principe Andréj incontra in una pagina di Guerra e pace o il verso che Pa-stemàk dedica al tiglio: "Il cerchio d'oro del tiglio / è come un serto nuziale". Quando Rigoni Stem era ragazzo, nei faggi si cercava dove un bel ramo si innestasse al tronco con la giusta inclinazione: "il pezzo veniva scelto per costruire la sli-takufa, la slittastoria ' ' (dal tronco si ricavava lo scivolo, il ramo serviva da stanga). Dalla betulla, "praticando un piccolo foro al piede del tronco", si faceva colare una linfa che aveva virtù te- rapeutiche. Presso le case si piantava il sorbo perché i suoi rossi frutti attiravano gli uccelli ' 'ed era facile così catturarli, o con il fucile o con le trappole o con il vischio" (quando "pochi erano i denari, rara la carne e arretrata la fame"). Queste evocazioni, questi echi, di vita montanara, di usi domestici, danno spessore narrativo a un libro che deve il suo fascino a una scrittura in cui convivono l'esplorazione paziente della botanica, il piacere incantato di raccontare, l'immedesimazione spontanea nella natura, le osservazioni di sapiente buonsenso, come in questa descrizione del frassino: "Da giovane la sua corteccia è liscia, di colore olivastro, con gli anni diventa grigia, rugosa e fessurata. (Come con l'età gli umani assomigliano agli alberi!) ".Con le loro molteplici forme gli alberi di Rigoni Stem sembrano perimetrare un mondo sopravvissuto, un mondo sempre meno conosciuto in cui si ottiene il sidro dai frutti del melo selvatico e in cui si ricava la manna dalle ferite del tronco del frassino. A quello stesso mondo, racchiuso in una silenziosa nostalgia, è dedicato II libro degli animali, che raccoglie una ventina di brevi racconti già pubblicati su pagine di giornale (non so se tutti, ma mi sembra di sì). Ritornano le storie di cani e lepri, di caprioli e ghiri, del gufo delle nevi e del merlo amoroso, della passera scopaiola e delle coturnici ubriacate. Come ben sanno ì lettori di Rigoni Stem, nelle sue rappresentazioni dell'universo animale non c'è alcuna vena antropomorfa. E un universo a parte, con i suoi ritmi e le sue leggi, che l'uomo per accedervi deve riconoscere. L'impressione che suscita è quella di un testamento in cui è distillata una sapienza che oggi non è più recuperabile, che permette di leggere il terreno del bosco come un libro che racconta le cose di un 'intera stagione. non risparmia neppure 1 ragazzini ("Maestra, a casa mi parlo crovato, a scola talian e in strada talian e crovato. Cossa son mi, talian o crovato?"); né prescinde dalle azioni quotidiane, dagli oggetti usati ogni giorno ("Mi aggiro per il soggiorno, ci sono parecchie cose sublimi di pessimo gusto che non posso toccare"). Come salvarsi da questa progressiva alienazione della realtà? Come comunicare col mondo, senza rinunciare alla propria identità culturale? Impartendo giorno dopo giorno le lezioni ai suoi piccoli allievi, Maria scopre il potere delle parole, i miracoli della sintassi che "gerarchizza l'indifferenziato caotico del mondo e mette le cose al posto giusto". Le parole vanno forzate verso l'aspetto sensibile delle cose, spiega Maria nelle sue lezioni: bisogna torcere il collo alle parole, e al tempo stesso rispettarle, farne un uso corretto, mai approssimativo; solo in questo modo si possono avverare i sogni più bizzarri: "tutto si può fare e dire con le parole, anche ciò che non esiste affatto". Ma è davvero così semplice veder realizzarsi i propri desideri? Naturalmente, no: per quanto preciso possa essere l'uso della lingua, non ci sono parole al mondo capaci di esplorare le profondità dell'animo umano, di registrarne gli "impercettibili passaggi", gli sbalzi di umore, le sfasature fra pensieri e sentimenti. Come già nel primo racconto, Nelida Milani ci offre un personaggio femminile il cui sofferto diagramma esistenziale — costellato di desideri inappagati, richieste d'amore inevase — trova riscatto soltanto nel distacco fabulato-rio della memoria. A indicare che se le parole per raccontare il proprio passato non preservano dal dolore, perlomeno ne consentono l'esatta decifrazione. Così nel processo di reinvenzione della memoria, Maria scopre come la formula spicciola del "mejo dure gro-ste de pan, ma 1' cor in pase ancoi e anche doman" non le abbia impedito finora di sperare in improvvisi miracoli, in future prosperità. Dopotutto, i miracoli sono di questa terra, dice la protagonista, e il destino dell'umanità si costruisce compiendo coraggiose lacerazioni nella storia. Così come la scrittura di Nelida Milani — per mezzo di felici innesti linguistici — si ribella agli stereotipi dell'idioma ufficiale lacerando la formula chiusa del romanzo. Il nuovo calendario Pirelli di Sergio Pent Aldo Busi, Sentire le donne, Bompiani, Milano 1991, pp. 210, Lit 26.000. Non c'è che dire: circumnavigandosi l'ombelico a tappe sapienti, in lente narcisistiche evoluzioni, lo scrittore italiano Numero Uno — tale si è ormai da tempo incoronato Aldo Busi — riesce comunque a tracciare una quantomeno eccentrico-realistica mappa del ben più vacuo narcisismo nazionale, quello, soprattutto, mascherato da tapezzerie di Credit Card. Osservatore acuto e cattivo del-l'Italietta "arrivata"? Accantonate in gran parte le frenetiche sarabande sessuofobiche di Sodomie in corpo 11 con tanto di prestazioni numerate e garantite, il Busi s'inventa abilmente in veste di cronista fustigatore d'alto bordo, occhieggiando dallo scranno di beffardo impietoso spiritello maligno. Sentire le donne — chi più di un ultradichiarato gay può "sentire" ciò che la normodotata sensibilità eterosessuale mai saprebbe cogliere? — è una sorta di calendario Pirelli in cui delle modelle, più o meno giovani, famose o attempate, viene esibita anche la radiografia. Sorvolando sulla presentazione-preambolo non indenne da certe lungaggini pseudofilosofiche e infarcita di luoghi comuni vestiti a festa dal pirotecnico vocabolario busiano, si passeggia invece con diletto attraverso svariati incontri — la Dellera, Marta Marzotto — nei quali emerge un'emotività altruistica di cui non credevamo capace l'ego- centrico scrittore. Sono inoltre vere perle narrative le miniature verbalmente iperdeco-rate di certi personaggi minimi della geografia provinciale: la Magi, agente immobiliare a pedali; Don Dolci-zio da Mantova, prete smarrito e compromesso alle prese coi problemi della scottante eredità di Paola, l'amico travestito; il grottesco ballo delle lariane debuttanti a pagamento... E non si può non sorridere dell'impietoso ritratto di certi riti nazionali biecamente messi a nudo — i premi letterari, il convegno di CI — sorvolando magari sui troppo insistiti "affondi" nei confronti dei colleghi scrittori che sembrano vantare unicamente difetti: la figura da profugo indigente di Dario Bellezza e la plateale antipatica presunzione di Gavino Ledda sono esemplari in tal senso. Comunque sia, l'universo delle donne "sentite" da Busi chiude in crescendo la trilogia che, dopo le Sodomie, era proseguita con Altri abusi e che rappresenta, almeno per noi, insieme al Seminario d'esordio, la parte più genuina e meno artefatta del lavoro di uno scrittore — se non "grande" almeno intelligente — che dovrebbe solo dare un colpo di freno a certi impeti dispersivi e gratuiti. E ovvio che anche qui prevalga, sopra tutto, un gran "buseggiare" avanti e indietro per queste storie ricavate come sempre dall'osservazione quotidiana. È ovvio, quindi, che sia fatalmente la primadonna Busi ad emergere in assoluto tra tutte le chimeriche entità chiamate Donna. Questo singolare viaggio, tuttavia, è scorrevole, e felicemente si conclude: la puntatina turistico-de-menziale in terra di Corsica e di Sardegna riporta a galla follie e solitudini — soprattutto di coppia — che poco sembrano spartire col discorso del libro, ma che sarcasticamente fanno luce sulla totale mancanza di fantasia della vita contemporanea.