FEBBRAIO 1992 N. 2, PAG. 11 DEI LIBRI DEL MESE Inedito L'opposto della morte di Hugh Nissenson Anni or sono Isaac Bashevis Singer mi disse, "Signor Nissenson, il nostro compito è quello di far sì che il lettore senta. È l'unica cosa che conti: far sì che il lettore senta". Tennessee Williams ha detto, "Il desiderio è l'opposto della morte". Io direi, l'opposto della morte è sentire: sentire intensamente qualsiasi emozione — anche l'angoscia. Con il suo mestiere e la sua abilità, chi narra una storia fa in modo che il lettore risponda alla vita con maggiore intensità. Una buona storia ci fa sentire, per un istante, come ci sentivamo da bambini quando ci trovavamo di fronte ai misteri della vita: il sesso e la morte, il male, la bellezza, l'amore, Dio. Una storia ben scritta risveglia il nostro stupore; ci fa sentire più vivi. Il narratore crea dal fondo della propria immaginazione — quel mondo vivido che tutti noi, da bambini, amavamo, e che ancora abitiamo ogni giorno nelle nostre fantasticherie e ogni notte nei nostri sogni. Il narratore celebra la vita interiore che, come sa, è l'unica verità che egli conosce. E per questo che è così difficile essere un narratore ebreo. Siccome una volta un gruppo di narratori e di poeti ebrei scrissero quello che il mondo ha finito col chiamare il Libro, gli altri, agli occhi dei loro lettori ebrei, dovrebbero sempre dire la verità di Dio, oltre che la loro. "Se uno straniero soggiorna con te, nella vostra terra, non lo molestare: poiché foste stranieri nella terra di Egitto" (Levitico, 19:33-34). Pubblicate questo, oggi, a Ashkelon, Tel Aviv o Gerusalemme: un sacco di ebrei si arrabberanno, ma non ascolteranno quelle parole. Non è una novità. C'è una leggenda ebraica a proposito di uno dei nostri più grandi poeti, Geremia — il quale naturalmente, come usava nell'antichità, si definiva un profeta: il che vuol dire, era un poeta il quale era convinto che Dio parlasse per bocca sua. Comunque, Geremia ci ammonì di ravvederci. Disse, cessate di sacrificare i vostri figli agli idoli. Scrisse: "E hanno eretto l'alto luogo di Tofet nella Valle di Ben-Innom per ardere nel fuoco i loro figli e le loro figlie" (Geremìa, 7:31). Be', Dio ci punì — o così ci piace credere — perché non lo ascoltammo. Ma una delle leggende su Geremia dice che ce lo portammo dietro nell'Esilio, perché avevamo sempre sete delle sue parole. E questo, perché erano tanto belle — o almeno, così mi piace credere. Lo scrivere, per lungo tempo, fu l'unica espressione estetica che noi ebrei ci permettessimo. Avevamo un talento per le parole, e creammo in un oscuro dialetto cananeo una letteratura immortale di insuperata bellezza. Noi, non i greci, siamo stati i più influenti artisti occidentali dell'antichità. La nostra letteratura antica è così bella, che fu facile credere fosse stato Dio a scriverla, o a ispirarla. La maggior parte degli ebrei hanno ancora il senso che i libri sono sacri. Perché? Cominciai a intravedere la risposta qualche tempo fa, ad un bar-mìtzva. Rebecca lesse la sua parte, che Kierkegaard ha definito il testo più terribile e più bello di tutti: "Dopo queste cose, Dio volle mettere alla prova Abramo e gli disse: 'Àbramo'. Ed egli rispose: 'Eccomi'. E gli disse: 'Orsù, prendi il tuo figlio, il tuo unico, quello che tu ami, Isacco; va' nella terra di Moria e lì offrilo in olocausto sopra uno di quei monti che io ti indicherò" (Genesi, 22:1-2). E dopo che Rebecca ebbe finito di leggere la sua parte, il giovane rabbino interruppe il servizio e raccolse la congregazione sul bimà, intorno al rotolo aperto. Spiegò che quel rotolo era tutto quanto sopravviveva di una congregazione morava trucidata nell'Olocausto. Poi disse, "La pergamena sta invecchiando. L'umidità interna, salendo alla superficie, fa una macchia marrone — come macchie di vecchiaia sulla pelle umana. È come se le pagine fossero vive". Guardai questa macchia marrone sul dorso della mia mano, e quell'altra, nel mezzo della pergamena davanti a me, e per un istante sentii la comunanza di carne con carne, e di mente con parole viventi. Sentii quello che i nostri antenati devono aver sentito a proposito del loro lavoro: questo libro è sacro perché il suo testo è così... bello. E noi sappiamo che ciò che è sacro è vivo. E questo che, a volte, un bambino sente riguardo all'universo: è sacro, e perciò è vivo, perché è così bello. Ma questa è una fantasia — e le fantasie, abbiamo imparato, non sono che desideri e paure mascherati. Vi dirò un segreto: tutte le opere della mia immaginazione nascono dai miei desideri e dalle mie paure. Io scrivo perché amo la lingua americana, e lavorarla mi rende felice. (Un proverbio cinese: Un uccello non canta perché ha una risposta, ma perché ha un canto). Io spero che i lettori apprezzino il mio linguaggio, perché so che ciò che dico nei miei racconti e nei miei romanzi spesso li turba. Questo è il risultato del fatto che esprimo le mie più profonde speranze e paure — l'unica verità che uno scrittore conosce. Anni or sono, temevo che noi ebrei stessimo ripetendo alcuni degli stessi errori che portarono alla distruzione del Secondo Tempio. Il nostro crescente messianismo, risultato della guerra dei sei giorni, mi terrorizzava — così come mi terrorizza oggi; e a questo proposito scrissi una sorta di avvertimento in forma di racconto, una fantasia, intitolato Forzare la fine, nel quale trasponevo nel futuro certe cose che erano successe durante l'assedio di Gerusalemme nel 70 d.C. Ridissi la storia di Rabbi Johan-nan Ben Zakkai, e la fusi con quello che Giuseppe Flavio scrisse a proposito degli zeloti, chiamati "sicari". Ben Zakkai era convinto che la ribellione contro Roma guidata dagli zeloti fosse un errore disastroso, un tentativo senza speranza di forzare la venuta del Messia e la redenzione del nostro popolo. Con l'aiuto dei suoi discepoli venne fatto uscire da Gerusalemme assediata nascosto dentro una bara, quindi andò a Yavneh, dove l'imperatore romano gli concesse di fondare un'accademia rabbinica — il che, naturalmente, assicurò il futuro del giudaismo rabbinico cosiddetto "normativo". Ora "sicari", in latino, significa "accoltellatori" — la parola, mi dicono gli esperti, deriva da sica, cioè "daga". Giuseppe ci racconta che questi sicari erano così chiamati per le armi con le quali uccidevano i loro fratelli ebrei che volevano fare la pace con i romani. Nella mia fantasia, è imminente una guerra con gli arabi a causa dell'occupazione israeliana della riva sinistra. Missili semoventi con testata atomica risalgono rombando su per la Strada di Jaffa a Gerusalemme. Rabbi Jacobi, come Ben Zakkai, vuole raggiungere un compromesso per la pace. Anch'egli viene fatto uscire da Gerusalemme in una bara per andare a Yavneh — ma durante il percorso viene pugnalato al cuore da terroristi israeliani di estrema destra, che si danno il nome di "Sicari". Tre anni fa, mentre ero a Gerusalemme, i miei più vecchi amici israeliani mi dissero che il loro genero, membro del Knesset per il Partito dei diritti civili, era sotto protezione della polizia da quando era stato minacciato di morte da parte di terroristi ebrei di estrema destra che si chiamavano "Sicari". Fu un momento irreale. La mia, però, non era stata una profezia; avevo inventato il mio racconto come avvertimento, perché avevo — ed ho — paura di certe cose che accadono all'interno della comunità ebraica. Quando oggi gli scrittori ebrei dicono, poiché hanno paura, "Ebrei! Il nostro comportamento è schifoso, dobbiamo cambiare", nessuno ascolta. Non ascoltammo nemmeno Geremia, il quale ciò che egli sentiva mise in bocca a Dio: "Ma se voi non vorrete dare ascolto, la mia anima piangerà di nascosto davanti a tale superbia, piangerà dirottamente, i miei occhi si scioglieranno in lacrime" (Geremia, 13:17). (trad. dall'inglese di Mario Materassi) yy y y y y y y yy y